13 Gennaio 1915, il giorno dell'apocalisse

Ricordo di quella che fu la più grande tragedia che colpì l'Abruzzo, la mia terra
20 gennaio 2015

Fa freddo all’alba del 13 gennaio 1915, un freddo che ti entra nelle ossa. Una mamma è appena andata a svegliare il suo bambino, con una carezza e un bacio sulla fronte. “É tardi, devi andare a scuola”. I gesti semplici e ripetitivi di ogni giorno, il latte sul fuoco, la legna da sistemare nel camino, i discorsi sul tempo. É strano come le giornate destinate a fare da spartiacque nella nostra vita, quelle che cambieranno per sempre la nostra esistenza, a prima vista sembrino del tutto uguali a una giornata qualunque. La mattina del 13 gennaio era iniziata proprio come una giornata normale ma, da allora, per molti divenne il giorno dell’apocalisse. Non c’è mai un momento più adatto di altri per eventi così drammatici ma credo ci sia una profonda ingiustizia nel colpire le persone all’inizio di un nuovo giorno, quando ancora hanno gli occhi pieni di ‘sogni interrotti’, come diceva De Andrè, quando ancora stanno domandandosi come poter rendere quel giorno speciale. I bambini erano pronti per andare a scuola mentre i più piccoli dormivano, raggomitolati sotto le coperte. Ma alle 7.53 un forte boato riecheggiò ovunque, come fosse la voce dell’inferno, e la terra iniziò a tremare, ampi squarci si aprirono in essa, inghiottendo ogni cosa. C’era solo paura e le grida, i pianti, i lamenti, mentre tutto intorno crollava, disintegrandosi. La violenza del terremoto pareva non volersi esaurire più, come se avesse un conto in sospeso con quella terra e i suoi abitanti. Continuò a scuotere, sollevare e schiantare, seppellire, risucchiare e distruggere. Per 34 interminabili secondi la terra tremò con tale violenza che l’onda si avvertì dalla Lombardia e Veneto fino alla Sicilia, provocando anche danni a Roma, come la caduta di una delle gigantesche statue poste sul frontespizio della basilica di San Giovanni in Laterano. 34 secondi di terrore. Poi...il nulla. 11° grado della scala Mercalli, furia totale, devastante, l’ultimo gradino prima di scendere all’inferno. Trentamila persone persero la vita ad Avezzano e in tutta la Marsica. Il mondo come era allora conosciuto non esisteva più. Solo una casa rimase in piedi, l’unica costruita in cemento armato, ultimo baluardo ancora oggi di quei tempi, ultimo ricordo di generazioni e di sogni annientati. Perse tutto la mia gente, le case, la propria storia, gli affetti. Tante mamme si videro portare via i propri figli - temporaneamente dissero loro, per regalargli qualche mese di serenità in qualche convitto romano- per non rivederli più. Ai pochi sopravvissuti non rimaneva altro da fare che rimboccarsi le maniche e ricostruire, per ricominciare a vivere. Abruzzesi, forti e gentili, più volte piegati ma mai sconfitti. E ogni volta che dal monte Salviano guardo la mia città stendersi pacifica nella culla delle sue terre, protetta tutt’intorno dalle montagne che le fanno da scudo, ripenso a chi c’era prima di noi e che ha conosciuto un’altra Avezzano, penso alle loro vite, a un pezzo di storia che non c’è più. Quella storia che non possiamo far rivivere attraverso l’arte o le costruzioni antiche ma che, ognuno di noi si porta dentro, con il ricordo di quel giorno di cento anni fa che vibra, riecheggia nelle nostre anime e che finchè terremo vivo, non verrà perduto.

 

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