Diritti Animali

Noi e gli animali

Un’ipocrisia di due giorni (dimenticando le stragi)

22 gennaio 2006
Fonte: www.corriere.it
22.01.06

Londra 21 gennaio 2006  Quale umanità è affacciata con compassione sugli argini del Tamigi, e quale altra assiste impassibile all’agonia di centinaia di migliaia di polli sepolti o bruciati vivi? L’ipotesi che si tratti più o meno della stessa, non poggia sulla diversa considerazione che riserviamo a ciascun essere vivente in base a quanto valutiamo il suo aspetto o la sua utilità. Si fonda invece sulla diversa capacità di partecipare alla sofferenza di un individuo, piuttosto che a quella di un popolo o di una specie. Tanti esempi la storia fornisce; che non sembri un accostamento inopportuno quello con le vicende animali, se non per il principio che muove certe nostre emozioni. Fra il 1925 (anno in cui fu varata la prima nave a bordo della quale i cetacei potevano essere fatti a pezzi e le carni lavorate, mentre nel ’70 compaiono gli arpioni esplosivi) e il 1975, si stima che siano state uccise oltre 1,5 milioni di balene. Su tale caccia a fini commerciali, nel 1986 l’Iwc, International Whailing Commission, approvò una moratoria per consentire la ripresa ai giganti mammiferi marini, lenti nella riproduzione e già minacciati dall’inquinamento chimico e acustico, dai cambiamenti climatici, dalle catture accidentali e dal depauperamento del mare. .

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Caricata su una chiatta, polemiche per i ritardi nei soccorsi

LONDRA - Poche ore prima di raggiungere il mare la balena del Tamigi è morta. A bordo della chiatta che la stava trasportando, forse uccisa dalla fatica e dallo stress. Se ne è andata, lontana dalle profondità dell’oceano dove era cresciuta, immersa non nell’acqua salata ma in cuscini gonfiabili di plastica gialla, circondata non da pesci ma da uomini. Chissà cosa l’aveva spinta a infilarsi nella foce del fiume di Londra, a oltrepassare le dighe che regolano il flusso fluviale, a risalire la corrente sino al centro della capitale britannica: se il desiderio di morire in pace, in silenzio, o uno sprazzo irresistibile di curiosità. Certo ha trovato una realtà alla quale non era preparata. Il rumore, la confusione, i fondali bassi, l’assenza di cibo, le barche, i ponti, ma anche tanto, tanto affetto. Per due giorni, Londra ha seguito l’operazione di salvataggio minuto per minuto, in diretta. Ieri il suo ultimo viaggio è stato accompagnato da migliaia di persone, la folla delle grandi occasioni, quasi si trattasse del Giubileo della regina Elisabetta, della vittoria contro l’Australia a cricket, dell’annuncio delle Olimpiadi del 2012.

Già all’alba, quando televisioni e radio avevano annunciato che a differenza di quanto speravano gli esperti, l’iperodonte non aveva nuotato verso il mare ma era tornato in centro città, sul ponte di Battersea erano arrivati i primi curiosi. A mezzogiorno, quando la polizia ha chiuso l’accesso, sul ponte c’erano tremila persone. Lungo le due rive, un muro di gente di ogni età e colore, anziani, bambini, famiglie intere con dietro anche il cane, tutti con telefonino o macchina fotografica, tutti con un’opinione su come salvare la balena, tra le polemiche per il ritardo con cui è stata messa a punto una strategia. Solo alle 13 di ieri è scattata l’operazione che per qualche ora ha fatto sperare di salvarla. Quando l’eroe di Londra – un maschio adolescente, secondo i veterinari – si è arenato, gli sono stati infilati sotto il corpo dei galleggianti gonfiabili, una specie di culla attaccata a una gru. È stato issato su una chiatta del Comune ed è uscito dall’acqua per forse la prima, sicuramente l’ultima volta. La folla ha seguito in silenzio per esplodere in un applauso liberatorio quando l’imbarcazione ha cominciato a muoversi in direzione mare.

Non stava già bene allora, nonostante le iniezioni di antibiotici somministrate dai veterinari, che per tutto il tragitto l’hanno accarezzata, bagnata, rassicurata come fosse un figlio. I bollettini medici, diffusi con grande regolarità, nel pomeriggio sono peggiorati e la balena, all’improvviso, è sembrata spacciata. «I veterinari non sono ottimisti», ha annunciato attorno alle 17 Tony Woodley, del British Divers Marine Life Rescue, l’organizzazione che ha coordinato i tentativi di salvataggio. «Abbiamo abbandonato l’ipotesi di riportarla in mare aperto e anche di raggiungere la Manica. L’obiettivo ora è liberarla in acque profonde, il più lontano possibile dalla città, in prossimità dell’estuario». Non lo ha raggiunto. Due ore dopo, attorno alle 19, le convulsioni, poi la morte.
«E’ l’epilogo triste di una storia alla quale ci siano appassionati», ha detto Woodley, scosso e addolorato come tutti coloro che sino all’ultimo hanno lottato. «E’ stata una giornata di alti e bassi, di speranza e disperazione. Temevamo di non riuscire a liberarla. Forse è stato meglio così. Ci ha evitato una decisione molto difficile». Nell’impossibilità di restituirla al suo mondo, i veterinari avrebbero scelto di abbatterla piuttosto che prolungare la sua sofferenza. Spetterà all’autopsia fare luce su un’avventura forse nata per sbaglio, e diventata poi sinonimo di qualcosa di molto più grande, lontana da quel lieto fine che tutti speravano.

Paola De Carolis
Fonte: www.corriere.it
21.01.06

Dopo una pausa a seguito di incoraggiamenti ricevuti per promuovere il turistico e innocuo whale-whatching , qualche anno fa la Norvegia ha ripreso a cacciare, come pure l’Islanda, mentre l’inesausto Giappone sostiene di spedire in mare le proprie baleniere a scopi scientifici, sorvolando sul successivo commercio degli esemplari catturati. Sono fatti che avvengono ogni giorno, eppure non ci facciamo caso. Il destino degli animali si mescola nella nostra coscienza in una confusione di specie che soccombono o si tramutano, una ridda di allevamenti intensivi, zoo, stagioni venatorie, pesci e uccelli avvolti dal petrolio, cani e gatti scuoiati, orsi rinchiusi nelle fattorie della bile o abbattuti a fucilate alle porte di New York, cuccioli di foca finiti a bastonate. Ogni tanto qualcosa scuote la nostra attenzione, ma sono ancora numeri: in India gli elefanti non hanno più spazio e cibo a sufficienza, così invadono con esiti catastrofici i villaggi; in Occidente le volpi si spingono a frugare nell’immondizia delle periferie urbane, gufi e gabbiani si trasferiscono in città. Poi una balena, una sola, dall’oceano risale un grande fiume e va a morire di fronte agli uomini.

Noi allora la vediamo e forse nemmeno siamo consapevoli fino in fondo di cosa essa porti con sé, del fatto che la commozione che ci suscita è quella d’abitudine non riconosciuta a tutte le balene del mondo messe insieme. Tale processo non sfugge invece alle industrie alimentari e dell’abbigliamento, che lavorano affinché il sistema mediatico non proponga mai gli animali da macello come individui, bensì, ancor prima di essere sacrificati, come prodotto: se la gente s’innamorasse delle gesta di una mucca, se questa s’imponesse ai nostri cuori come un soggetto, quanti continuerebbero a mangiarne la carne o a indossarne la pelle? In fondo è quasi sempre dall’individuo, slancio, cruccio e limite della natura umana, che si ricavano i messaggi più universali. Qualcosa dunque significherà pure, una balena a Londra.

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