La macellazione rituale: non sentiamoci superiori per la "pietà" dei nostri macelli (Il Carroccio contro l'Islam)





 
I toni concitati del dibattito che accompagnano la discussione della proposta di legge della Lega Nord, che prevede  l’obbligo di stordire preventivamente gli animali macellati secondo rituali religiosi ( a modifica del dl 3/3/1998), sembrano ben poco propizi a quel confronto interculturale che da più parti, almeno a parole, si afferma di volere. Il sospetto, espresso dall’Unione delle Comunità e Organizzazioni islamiche, è che il progetto leghista sia solo una scusa per intimorire la comunità islamica al fine di compiacere il proprio elettorato. Anche dall’Unione delle Comunità Ebraiche italiane arriva un giudizio negativo. .
Ma c’è davvero un’antitesi tra il valore della tolleranza e quello del benessere animale? Siamo costretti a scegliere tra il rispetto delle altrui tradizioni e quello, altrettanto doveroso, degli animali, che ci fa considerare sempre più pressante il loro diritto a non soffrire?
Il dibattito rischia di essere male impostato. Se è vero che , quest’affermazione non può comportare un’accusa di inciviltà nei confronti di culture che interpretano in modo diverso da noi il rapporto complesso col mondo non umano. Perché dovremmo pensare che nella macellazione rituale--atto eminentemente religioso nella sua ispirazione--ci siano trascuratezza e negligenza nei confronti delle vittime sacrificali? L’idea stessa della ritualità nasce da una visione teocentrica in cui l’uomo, come l’animale, sono entrambi creature sia pure di diverso rango ontologico: tutti gli accorgimenti e le prescrizioni del codice alimentare islamico--il fatto, ad es., che l’animale non debba vederne un altro macellato davanti a sé, che non debba aver sentore del sangue, né percepire la lama, il fatto che debba essere accarezzato e adagiato sul fianco sinistro in un luogo in cui non ci siano tracce di sangue per non essere terrorizzato etc.—obbediscono a tale visione. La nostra macellazione, invece, è un atto meramente tecnico, obbedisce a preoccupazioni funzionali e a finalità di natura pratica: la sua etica mira a garantire l’osservanza di talune regole minimali—come la riduzione della sofferenza evitabile a garanzia della salubrità delle carni; non rinvia ad alcuna fede o a sistemi di valori, vuol solo essere efficiente e in ciò risiede la sua laicità. Perché dovremmo considerarla moralmente ‘superiore’?
Il problema nasce dal fatto che oggi la macellazione rituale è inserita in una logica commerciale e industriale che obbedisce a parametri di efficienza e di produttività, dove la   difficile compatibilità tra rispetto della ritualità e mercato è destinata inevitabilmente a provocare negli animali sofferenze aggiuntive. Nel macello industriale sono innumerevoli gli animali uccisi e, pertanto, non vi possono essere rispettate le prescrizioni rituali. Inoltre, la struttura, quando è appositamente attrezzata,  è dotata di una gabbia di ferro che imprigiona l’animale e che, bloccandone i movimenti, contribuisce a terrorizzarlo piuttosto che a tranquillizzarlo. Del pari, se il taglio delle vene giugulari non viene effettuato in modo preciso—cosa assai frequente quando le uccisioni si susseguono a ritmo accelerato e si possono sommare gli sbagli per stanchezza e necessità di affrettare le operazioni—la morte può essere notevolmente prolungata.
Poiché il problema è il rispetto della tradizione, occorre discutere se è necessario che essa debba essere rispettata nella sua totalità o se si possa derogare ad alcune sue parti. L’attuale macellazione rituale, del resto, presenta già una revisione, sia pure parziale, delle regole stabilite dalla tradizione. Ora se alcune parti della ritualità possono essere soggette a deroga, perché escludere la possibilità dello stordimento? Per questo occorre avviare una  discussione--come quella intrapresa dal Comitato Nazionale per la Bioetica--che parta, da un lato, dal riconoscimento della rilevanza etica del rapporto uomo animale presente nella macellazione rituale—e quindi dal rifiuto di ogni approccio arrogante o, peggio, razzista—, dall’altro, dal corrispettivo riconoscimento della necessità di reinterpretare quella ritualità, il suo senso profondo per adattarla alla società contemporanea alla luce delle sensibilità e delle conoscenze tecnico-scientifiche nel frattempo maturate.
Quella della macellazione rituale appare un banco di prova per una mediazione interculturale che sappia e voglia accettare la sfida della convivenza in uno stesso territorio di una pluralità di etnie, ciascuna portatrice di concezioni del mondo e della vita e di costumi e tradizioni specifiche. Se accettiamo, non solo retoricamente, che le culture sono sistemi aperti che, nel dialogo, si arricchiscono reciprocamente dobbiamo essere pronti ad avviare un  confronto privo di pregiudizi, cogliendo insieme le vicinanze e le differenze, alla ricerca di soluzioni ragionevoli.

Luisella Battaglia
Università di Genova
Comitato Nazionale per la Bioetica
Istituto Italiano di Bioetica
(da "Il Secolo XIX" mercoledì 5 febbraio 2003)