Conflitti

AFRICA /1

Liberia, i dannati di Monrovia

I Dannati di Monrovia: la Droga per Sfamarsi il Cimitero come Casa
28 dicembre 2006
Ettore Mo
Fonte: Il Corriere della Sera (http://www.corriere.it)

MONROVIA - Li chiamano i cimiteriali. Come ogni altro giorno dell' anno, hanno trascorso il Natale e trascorreranno Capodanno nel camposanto che è sorto e si è via via allargato nel cuore stesso della capitale, trasformandosi in una specie di lugubre quartiere residenziale dove i vivi hanno come coinquilini i morti. Qui passano la giornata e la notte. Qui mangiano chiacchierano litigano e talvolta (ma di rado) ridono; qui fumano marijuana e cocaina e s' inzuppano d' alcol fino a stramazzare annichiliti sopra le tombe. Niente di foscoliano. La sparsa truppa dei cimiteriali (che sono centinaia e abbiamo seguito e osservato per un paio di giorni) è costituita in gran parte dagli ex-combattenti, i superstiti della guerra civile liberiana che in 14 anni - dall' 89 al 2003 - ha fatto 150 mila morti e provocato lo sfollamento di un milione e 300 mila persone. Inizialmente diffidenti e scontrosi, si rendono presto conto che la nostra non è un' irruzione poliziesca e l' atteggiamento cambia. «Per le autorità - si sfogano - noi siamo la feccia di Monrovia e del Paese. Ci ritengono criminali incalliti, per le strade ci insultano. Tempo fa, un vostro collega - un giornalista francese - venne picchiato proprio qui. Per motivi che noi sappiamo ma che la polizia non vuol sentire». E l' abuso continuo di stupefacenti? «Questo è il nostro territorio dove applichiamo e osserviamo ordini e regolamenti decisi dalla base. La marijuana? - dice uno di loro aspirando senza ostentazione l' erba - Ma serve anche per placare i morsi della fame, la rabbia dello stomaco che è sempre vuoto. Natale non sarà diverso dagli altri giorni. E cioè un pasto al giorno, verso le quattro del pomeriggio, se va bene. E per giunta scarso». C' è chi sostiene che nel cimitero sia occultato un arsenale: ma le poche armi che s' intravedono sotto i cespugli, tra sepolcri e cippi sbriciolati, non bastano ad avvalorare il sospetto che gli ex-combattenti stiano preparando un' insurrezione armata e che, soprattutto, siano in grado di realizzarla. Ciò non toglie che i cimiteriali di Central Street siano tuttora accomunati da un forte sentimento di odio e sdegno verso i governanti locali: «Siamo stati beffati e abbandonati - spiega un giovanotto basso e robusto che ha l' aria del "capo" -. I leader politici che negli anni ' 90 ci diedero armi e droga per abbattere un regime nefasto, responsabile dell' arretratezza del Paese, e ammazzare, a sangue freddo, i nostri fratelli sono gli stessi che ora ci mettono alla gogna. Noi non abbiamo più niente: né cibo, né vestiti, né dignità. È tanto assurdo se, per procuraceli, imbracciamo talvolta i fucili?». Non hanno le catene alle caviglie come i loro antenati - gli schiavi della tribù indigena Malinke e gli afro-americani - quando, nel 1847, la Liberia divenne il primo Stato indipendente dell' Africa Occidentale: ma per chi li vede sgusciar fuori dal camposanto come larve o fantasmi - suggerisce la nostra guida - viene facile accostarli alla setta degli Intoccabili indiani, creature di un altro pianeta, inaccessibili, insondabili, aliene, escluse dal resto dell' umanità. Tenendo conto della loro consistenza numerica (non più di un migliaio su 3 milioni e mezzo di abitanti), quello dei cimiteriali non può essere considerato un fenomeno marginale, anche se in quietanza: soprattutto avendo sott' occhio la radiografia di uno dei Paesi più disastrati del mondo, dove l' 80% della popolazione vive sotto la soglia di povertà mentre la corruzione dai vertici del potere alle amministrazioni periferiche galoppa a velocità supersonica. Così come galoppano, senza possibilità di contenimento, analfabetismo, disoccupazione e malavita. Ad ogni angolo, in ogni piazza della metropoli risuonano le Christmas Carols e i venditori ambulanti girano per strada con piccoli e luminosi alberi di Natale sulla testa. Ma a Monrovia Gesù bambino deve contentarsi per il presepio di un' umanità derelitta, affamata, malata, infelice. Pertanto, davanti alla capanna di Betlemme accostiamo alle «statuette» dei tombaroli i malati di Aids ospiti della Casa della Pace e della Gioia delle Sorelle di Madre Teresa di Calcutta, una nidiata di bambini ignari e allegri, alcuni colpiti inesorabilmente dal morbo. «Questo è Victor e se la caverà», dice una suora sollevando in alto il frugoletto e palleggiandoselo tra le mani come giocasse a basket: ma lascia capire che i bimbi assopiti nella stanza accanto (una mezza dozzina) non avranno la stessa chance e il loro primo incontro con Gesù avverrà direttamente in paradiso. Ma grande è la turba dei derelitti umani oggi in Liberia (vittime, in gran parte, della guerra civile) e vasta è la scelta per chi li volesse reclutare affidando loro il ruolo che, più di venti secoli fa, fu dei pastori palestinesi. Agnes Umana, giornalista, autrice di un programma radiofonico sui problemi sociali, è disposta ad accompagnarci dentro questo mondo di sofferenza. La prima tappa è all' Old Compound GSA (Governament Service Agency) dove hanno trovato rifugio circa un migliaio di ex-combattenti (uomini e donne) rimasti feriti nel conflitto. C' è chi ha perso una gamba (Charles Browney, 32 anni), chi una mano, chi, come Rosetta, 25 anni, tutte e due le gambe, tranciate via da un' esplosione nel ' 92, e sta ora appollaiata col solo tronco su una sedia a rotelle e riesce anche a sorridere. C' è anche un cieco, Victor Uah, 37 anni, che ebbe gli occhi fulminati da un proiettile e così al buio e senza alcun sostegno deve crescere i suoi tre figli, cinque anni il più grande, un anno il più piccolo: «Nessun compenso, nessuna pensione per le ferite di guerra - dice -. Qui non ci sono servizi igienici, nessun medico è mai venuto a trovarci, mancano l' acqua e l' elettricità. Nessuno dei nostri figli va a scuola, il governo se ne frega dell' educazione, siamo una nazione di analfabeti. Il Natale? Una giornata di fame, come tutte le altre». L' edificio è squallido, i muri neri di muffa, sgretolati, gli interni sono spelonche buie come gli occhi di Victor e montagne di spazzatura invadono il cortile. Tutto ciò non toglie il buon umore a un anziano combattente senza una gamba che gira interno saltellando con la stampella ed è doppiamente allegro ogni qualvolta vede spuntare Agnes, la sua «fidanzata». Nell' esaltazione si mette a gridare alleluia alleluia, una parola che mai nessuno si sarebbe sognato di sentire in un luogo simile. Bertolt Brecht non avrebbe potuto trovare scenario migliore per L' opera da tre soldi. Poco lontano c' è l' orfanotrofio dei figli degli ex-combattenti che cantano le Christmas Carols come una nenia, ma la loro voce s' arricchisce d' improvvise vibrazioni nuove, gioiose, quando viene loro scaricato sui piedi un sacco di riso. Una sorpresa. In una città così caotica, dove quasi non trovi strisce pedonali, le macchine si fermano e chi guida ti fa cenno di passare con un sorriso. Thank you e via. La casbah di West Point - la penisola di Monrovia che è un' allucinante scatola di sardine umane dove ogni millimetro di spazio è conteso - sta per scoppiare con tutta quella gente che da anni lascia la campagna per avvicinarsi ai grossi centri urbani e finire, inesorabilmente, nelle «fogne» della metropoli. Stranamente, però, percorrendo i bassifondi di West Point (definiti zona rischiosa, Red Light per ogni genere di traffici e rifugio di super-criminali e malviventi dove la polizia di Stato non osa mettere piede) non ci si sente minacciati. Se vuoi, puoi soffermarti per una preghiera nella Chiesa di Pentecoste o nel Primo Tempio della Bibbia mentre lungo i carruggi t' imbatti qualche volta nei ritratti, incollati al muro o sulle porte, di Gesù che cola sangue dalla corona di spine. Lasciata alle spalle la baraccopoli, s' arriva al mare, che è splendido. Centinaia di ragazzi e ragazze danzano freneticamente, al ritmo di musiche afro-latine, sulla sabbia calda dorata della spiaggia. Uno spettacolo - devo ammettere - che, dopo aver messo il naso nella miseria e nell' immondizia, mette un po' d' allegria. Onestamente non sarebbe giusto lasciarli fuori dal presepio. Nel novembre del 2005 le elezioni presidenziali portarono al vertice del Paese Ellen Johnson Sirleaf, la prima donna capo di Stato nella storia africana, che col 60% dei voti cagionò la sconfitta del famoso calciatore e grande favorito George Weah, rimasto appiedato col 40 per cento. Potere rosa a Monrovia, titolarono i giornali di tutto il mondo. Nel suo discorso d' investitura, la neopresidente ricordò d' aver sventato un tentativo di stupro mentre stava in carcere e che durante la guerra civile quasi la metà della popolazione femminile aveva subito quel genere di aggressioni da parte della soldataglia: la violenza sessuale figurava dunque tra i grandi mali della Liberia insieme a corruzione, povertà, disoccupazione, analfabetismo. «Ho votato per Ellen Johnson - mi dice la signora Kerlue Yangbay, 30 anni, avvocato - perché è energica, intelligente, preparata e certamente più matura di Weah. Noi donne affrontiamo tempi duri in questo Paese: con lei al potere le cose cambieranno in meglio». Altri non condividono tanto ottimismo. Per Bartolomè Collins, pastore luterano, l' instabilità del Paese nasce dalla distribuzione della ricchezza, «tra quei pochi che hanno tutto e la maggioranza che non ha niente», e occorre dunque «un processo di democratizzazione che deve però cominciare dalla periferia e non dall' alto». Aleysious Tee, della Fondazione per i diritti umani ed editorialista del coraggioso mensile Poverty Watch, lamenta «la brutalità della polizia mentre nel governo non sembra esserci la determinazione a voltare pagina, a fare un passo in avanti». E Augustine Tee, responsabile della Commissione Giustizia e Pace, insiste soprattutto sulla piaga dell' analfabetismo, fenomeno inarrestabile «coi nostri insegnanti che vanno all' estero, mentre i giovani sognano di sbarcare nell' Eldorado degli Stati Uniti». Per chi resta la situazione è paralizzante e non si vede quale balsamo possa arrecare alle moltitudini affamate della Liberia la notizia - recente - che Charles Taylor, il corrottissimo signore della guerra (una frode di un milione di dollari ai danni della sua gente quand' era al governo) attualmente in prigione all' Aja, sarà processato il mese prossimo per crimini di guerra e contro l' umanità. Undici i capi d' accusa, tra cui violenza sessuale, arruolamento di bambini-soldati, saccheggio. Una cosa però è certa: la sua beffarda immagine non troverà spazio nel presepio di Monrovia. Che invece si è arricchito di un personaggio straordinario, un sacerdote, don Mauro Armanino. Si trova in Liberia dal 2000, ma è stato prima in Costa d' Avorio (due volte) e anche in Argentina, nella bidonville di Còrdoba, tra le famiglie dei desaparecidos. Lo andiamo a trovare nella sua parrocchia (dedicata ai Santi Martiri), alla periferia di Monrovia: una comunità rurale, poche case, nidiate di bambini e gruppi di studenti e studentesse nell' uniforme verde, allegri, affabili, educatissimi, spettacolo piuttosto raro in questo sconquassato Paese. Ma è un prete singolare, questo sacerdote di origine ligure, 54 anni, che tutti chiamano padre Mauro. Sembra proprio il Nazareno, alto, i capelli lunghi, la barba non folta, gli occhi chiari, la camminata svelta. Però, niente di ieratico, o di mistico. Sta coi piedi in terra . Da giovane ha fatto l' operaio e militato nell' Flm (Federazione lavoratori metalmeccanici), «anni di piombo - racconta - ma dove ebbi la percezione che la società poteva essere cambiata». Un bagaglio d' esperienza e convinzioni che si porta appresso anche quando entra nella Società Missioni Africane (Sma): e subito dopo l' ordinazione sacerdotale (a 32 anni, se non sbaglio) cominciano le sue missioni all' estero che lo condurranno infine alla parrocchia dei Santi Martiri. «Ho deciso di restare qui anche nel 2003 - dice senza enfasi - condividendo i rischi e le paure della guerra come tutti gli altri. Ho sfidato la comunità che mi è stata affidata e mi son lasciato sfidare, imparando ed ascoltando con gli occhi e col cuore, rendendomi vulnerabile». Il suo giudizio sull' operato del governo locale è duro, inflessibile. Riferendosi a ministri e funzionari, parla di «un mondo di ladri che hanno imparato bene la lezione che veniva impartita da un sistema economico e politico che ha fatto del ladrocinio delle risorse della terra liberiana il principale argomento d' insegnamento. La Firestone per il caucciù, le compagnie minerarie per il ferro, il legname e i diamanti sono alcune delle materie allegramente ed impunemente rubate per anni a beneficio di multinazionali e di organizzazioni nazionali politiche». Nessuna meraviglia quindi, se la scorsa domenica alla Messa, sollecitato dalla parabola evangelica sull' esattore delle tasse, padre Mauro non ha esitato a infilare nel sermone un riferimento polemico all' abissale divario tra la busta paga dei ministri e il salario infimo della bassa manovalanza. Ma le parole cadono nel vuoto, nell' indifferenza. E anche per questo, nessuna sorpresa.

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