Conflitti

C'era una volta Beirut, ora ha la guerra dentro

Librerie e caffè sono al loro posto, come le donne senza velo e i loro narghilè, ma la città porta sotto la pelle i segni dei bombardamenti di un anno fa. La classe media è sparita, sulle macerie sparse ovunque sventolano bandiere verdi, la politica è bloccata dalle comunità. Qualcosa si è rotto, nella «Svizzera del Medio oriente»
22 agosto 2007
Leonardo Paggi
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

And not surrender: era il titolo di una raccolta di testi in cui 18 poeti americani e canadesi avevano deciso di esprimere i sentimenti vissuti tra il giugno e il settembre del 1982 guardando sulla tv a colori le frontiere del Libano «being chrushed under the advancing tanks of America's closest ally». Queste poesie sono oggi nuovamente leggibili in appendice ad un volume analogo, We begin here. Poems for Palestine and Lebanon, pubblicato in occasione del primo anniversario del bombardamento di Beirut. La nuova raccolta è aperta da una sorta di manifesto di Lawrence Ferlinghetti: Speak Out, rompere la rete di complicità con la violenza tessuta dalla «maggioranza silenziosa». Poesie di denuncia contro una nuova aggressione ai danni di civili inermi, che tuttavia, non possono restituirci il clima di prostrazione in cui la città vive il suo quotidiano.
La guerra è fenomeno più complesso dello sferragliare dei carriarmati o delle esplosioni delle bombe. Dopo la violenza immediatamente visibile, spettacolare, ce n'è una più sottile e più sotterranea, che dura nel tempo, nell'animo della gente, modificandone le reazioni emotive e condizionandone il comportamento sociale. La guerra come trauma, e come lutto, largamente presente a Beirut, sotto la coperta di una normalità ricercata e proclamata.
Approdo in un albergo medio situato nella Hamra, il centro commerciale della città. La lobby conserva la sua originaria eleganza. Un grande pianoforte a coda fa immaginare serate ben più animate di quelle che ora vi scorrono. Ma la camera che mi viene assegnata da il senso della decadenza della struttura. La seggetta del water è rotta, la doccia non funziona, il condizionatore versa acqua sul pavimento, la finestra sulla terrazza è bloccata. Domando le ragioni di questa crisi di manutenzione ad un dipendente: «Non c'è economia», mi risponde in italiano, l'albergo probabilmente sarà chiuso presto, la città è in ginocchio. Questo clima di provvisorietà è nelle facce di tutti i membri dello staff. La stessa aria di smarrimento la si respira nei caffè della Corniche (il favoloso lungomare di una volta) attorno al faro. Certo tutto è come prima, le donne come gli uomini fumano il narghilè e chiacchierano animatamente, secondo i moduli di una tipica socialità mediterranea. Qualcosa tuttavia sembra essersi rotto nell'animo della gente.
Ero un anno fa in una zona simile di Tel Aviv. Nella città israeliana, affacciata sullo stesso mare a poche centinaia di chilometri più a sud, un ceto medio benestante si rilassa con stili di vita sempre più visibilmente americanizzati. Beirut e Tel Aviv: un paragone istruttivo. Due città contigue del Mediterraneo orientale con una vocazione naturale simile e tuttavia rese così diverse per l'esercizio della violenza. C'è la differenza fatta dagli F 16. Ma non solo. La guerra non ha certo intaccato a Beirut le fortune dei ricchi. Ha distrutto però la classe media, ha scavato fossati sempre più larghi tra i gruppi sociali, ha impoverito il grande popolo del turismo, nuovamente azzerato dal ritorno della guerra.
Tutta la città parla del suo passato di violenza. L'antico centro storico distrutto dalla guerra civile ha conosciuto negli ultimi anni una notevole ricostruzione. Ma proprio il rifacimento degli antichi palazzi ottomani andati distrutti sta a ricordare tutto quello che la guerra si è portata via. Accanto ad una grande moschea in stile postmoderno è allestito, sotto un tendone, un mausoleo di fiori e candele dedicato alla memoria di al-Hariri. Tutto intorno un pesante presidio dall'esercito. Quanto sia precario l'ordine in cui si vive lo dice anche il materiale disseminato lungo le strade per l'allestimento rapido, in ogni evenienza, di blocchi stradali. Non si tratta solo di presunzioni. Il mio piano è quello di rientrare in Siria passando dal nord, ma nella zona di Tripoli ci sono da giorni combattimenti. Ci si può spingere al massimo fino al porticciolo di Biblos, da Beirut meno di un'ora di macchina.
A differenza di Damasco, Beirut ha ottime librerie internazionali con il meglio di quello che negli ultimi anni è stato pubblicato sulla storia e la politica del Medioriente. L'argomento alla moda è quello degli Hezbollah. In un negozio della catena Antoine conto otto titoli. Ma prima ancora di leggere è difficile resistere alla tentazione di immergersi nella al-dahiyya, il grande suburbio di Beirut, che ospita il concentramento della comunità sciita più forte del paese.
A distanza di un anno dai bombardamenti il problema delle macerie è ancora dominante. Si vive in mezzo a nuvole di polvere. Il traffico è condizionato dai movimenti di grandi escavatori. Ma c'è anche chi sulla cima di spezzoni di mura lavora con la pala. Gli edifici che sono stati incendiati e anneriti, ma non annientati, dalle bombe israeliane, sono listati da gigantesche bandiere nazionali libanesi, o di colore verde, con iscrizioni coraniche. Ritratti di Nasrallah si alternano con quelli di Khomeini. Nella estrema indigenza economica si sviluppa un grande attivismo, una determinazione che è religiosa e politica insieme. Non molto diverso deve essere Sadr City, il grande quartiere sciita di Baghdad.
Se l'intenzione del bombardamento è stata quella di rompere i legami degli Hezbollah con la popolazione, mai calcolo politico è stato più errato. Il «partito di dio» è ormai divenuto un elemento di società civile, una produzione dal basso di intensi legami sociali, che opera al livello dell'assistenza, della mutualità, dell'educazione, dell'informazione (al- Manar è una rete televisiva che gli F 16 non sono riusciti a far tacere). Anche sulla base dei finanziamenti provenienti dall'Iran è stata costruita una vasta rete di protezione sociale che ha fatto fronte alla distruzione di circa 15mila abitazioni. Qui sta la chiave di volta della stessa efficienza militare che ha creato attorno al movimento un entusiasmo eccezionale, visibile nella stessa cultura popolare (canzoni, spettacoli, distintivi, magliette eccetera). Con il tramonto della egemonia maronita, la comunità sciita sembra oggi la cellula più vitale della società libanese, e la più determinata a farsi promotrice di uno spirito patriottico.
Diverso è il clima che si respira a Sabra e Chatila. Scopro solo ora (confesso l' ignoranza) che i due cosiddetti «campi» non sono aggregazioni confinate in luoghi remoti, ma parte integrante della struttura urbana di Beirut, ai confini con il quartiere sciita. Il particolare non è di poco conto. Il bombardamento del luglio 2006 ha insistito esattamente nella stessa zona in cui si sono verificati i massacri di civili di venticinque anni fa. E' in questa parte suburbana di Beirut che da oltre un quarto di secolo si scarica una efferata guerra civile internazionale, in cui conflitti e tensioni tipici della società libanese vengono investiti da una surdeterminazione politica che proviene dagli equilibri del potere mondiale.
I campi, o meglio i quartieri di Sabra e Chatila, riproducono al loro interno il sistema di servizi proprio di una struttura urbana. E' questa disperata volontà di mantenere «normali» condizioni di vita quotidiana in una situazione di indigenza e di penuria totali, che rende la loro visione estremamente penosa. La stanchezza e la rassegnazione che domina in quei vicoli fa pensare ad una bolgia dantesca. Il clima è quello di una disperazione immobile, bloccata, quasi fuori dal tempo. Sono enclaves ormai bypassate dalla storia. La presenza palestinese che ha segnato profondamente, sia in senso politico che culturale, tutta la vita di Beirut e del Libano degli ultimi trent'anni, ha perso la sua importanza in un quadro mediorientale segnato dalla rinascita islamica .
Che non si tratti di devozione, o di nuova ricerca di trascendenza, lo si percepisce bene nella grande moschea degli Omayyadi di Damasco. La tomba del Saladino, la cappella sciita in cui sarebbe stata conservata la testa di Ali (la vittima della «tragedia di Kerbala» che sta all'origine dello scisma sciita), sono meta di un turismo religioso di massa, che ha il senso di una autentica militanza politica. Al fondo, per Georges Corm (studioso libanese della storia contemporanea del Medioriente), una «questione identitaria non risolta», ossia un segno di debolezza, non una dimostrazione di forza. Il processo di reislamizzazione giunge assieme al fallimento dell'ipotesi di costruzione di uno stato nazionale di tipo europeo e all'affondamento della categoria stessa di «terzo mondo», su cui si è selezionata negli anni sessanta una intera generazione di intellettuali.
La riattualizzazione di un passato mitico non è stata una prerogativa esclusiva del mondo arabo. Già nel 1982 Yosef H. Yerushalmi scriveva in Zakhor.Jewish History and Jewish Memory: «Ciò che gli ebrei cercano nel passato non è la sua storicità, ma la sua eterna contemporaneità». A partire dal 1967 i rabbini svuotano il sionismo del suo contenuto secolare per legittimare, bibbia alla mano, la forsennata politica di colonizzazione dei territori occupati. La tendenza trova precise e non casuali corrispondenze nella coeva rifondazione religiosa della destra statunitense.
Rispetto a questo clima colpisce a Beirut una maggiore laicità, forse il permanere di quello che i francesi chiamavano il tratto levantino, per indicare una modernità cosmopolita strettamente legata al commercio. Non è certo irrilevante che assai più esiguo che altrove sia il numero delle donne velate. Le strade rigurgitano, come in Europa, di ragazze con la consueta divisa: jeans attillati, ventre scoperto e camicette sbottonate sul petto. Ma sarebbe errato invocare una secolarizzazione diffusa che in realtà non esiste. Certo Beirut è stata a partire dal XIX secolo il luogo di una forte presenza occidentale, francese in primo luogo. Ancora nel periodo tra le due guerre la produzione di seta libanese si svolgeva su diretta ed esclusiva richiesta della industria tessile di Lione. L'Università americana ha attivato i suoi primi corsi nel 1866, sotto l'egida della locale missione protestante e con un finanziamento dello stato di New York. Le molte altre possibili notazioni analoghe non varrebbero, tuttavia, a scalfire il carattere fuorviante della definizione del Libano come «Svizzera del medioriente».
Sotto la patina di una modernizzazione levantina, appunto, immutati sono rimasti i tratti costitutivi di un sistema politico estremamente arcaico. Si è riprodotta una asfittica classe politica centrata su un numero ristretto di grandi famiglie. L'esistenza di un parlamento non può fare velo al fatto che esso vive tuttora non come luogo di una sintesi politica, ma come riflesso meccanico del sistema delle comunità. L'accordo di Ta'if firmato il 22 ottobre 1989, con cui si conclude la guerra civile, ripartisce i seggi tra le diverse comunità con un sistema rigido di quote: 27 seggi rispettivamente a sunniti e sciiti, 2 agli alawiti, 8 ai drusi, 34 ai maroniti, 14 ai greco ortodossi, 8 ai greco cattolici, 1 agli armeni, 1 ai protestanti, 1 alle altre minoranze cristiane.
Amin Maalouf, nato nella comunità greco-cattolica, o melchita, ma cresciuto avendo come lingua materna l'arabo, ossia la lingua sacra dell'islam, soppesa con saggezza i vantaggi e gli svantaggi della «formula libanese»: se consente la salvaguardia della diversità culturale dinanzi ai pericoli di una possibile dittatura della maggioranza, rende però aleatoria la formazione di un senso di appartenenza alla comunità nazionale. E' un sistema di democrazia contrattata che implica la disponibilità di ciascuno al compromesso. Permanente il rischio di spinte identitarie eversive (L'identità, Bompiani, 2005). La persistenza delle comunità blocca la strada alla formazione di uno stato centrale capace di conservare il monopolio della violenza.
E tuttavia il grande pluralismo religioso del Libano, ad onta delle sue complicate implicazioni politiche, contiene anche un grande messaggio di speranza. Di contro alla tetra prospettiva dello scontro di civiltà esso ci ricorda che il Medioriente è stato, in una delle fasi più intense della sua storia, terra di scismi e di eresie, che hanno interessato in egual modo la cultura cristiana e quella musulmana. Ossia terra di creatività, di libera interpretazione e lettura delle tradizioni, attraverso cui si sono espresse e affermate grandi individualità. Forse proprio questa pluralità che racchiude dentro di sé la grande ricchezza di un processo storico che si è spesso intrecciato con la storia d'Europa, può essere una traccia utile per tentare di riscrivere oggi il «divano occidentale orientale» di goethiana memoria.

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