Conflitti

Sierra Leone, le prospettive post-voto

La lenta rinascita

La bocciatura di Berewa, candidato "governativo", è sintomatica del diffuso malessere nei confronti di una classe dirigente che, sulla carta, si era impegnata nella ricostruzione del paese, sconvolto da uno dei più feroci conflitti civili della storia africana. La situazione economica e sociale è ancora molto difficile. Il ruolo giocato dai vescovi e dall'informazione.
Giulio Albanese
Fonte: Nigrizia - Gennaio 2008

Per la Sierra Leone il 2007 potrebbe passare alla storia come l’anno della svolta. L’11 agosto scorso, infatti, si sono svolte regolarmente le prime elezioni generali, organizzate autonomamente, dalla fine della guerra civile.

Dopo il ritiro delle forze di peacekeeping delle Nazioni Unite (Unamsil) nel 2005, erano in molti a temere una recrudescenza delle violenze che avevano insanguinato il paese per oltre un decennio. Invece, come ha rilevato un commentatore locale, «forse questa volta è davvero scoppiata la pace». Il tasso di partecipazione alle urne (75,4%) è segno evidente di una diffusa voglia di cambiamento da parte della popolazione. La consultazione, peraltro, si è svolta in un clima di libertà e tolleranza, che ha stupito gli stessi osservatori internazionali.

Nelle elezioni parlamentari ha vinto di misura il partito d’opposizione, il Congresso di tutto il popolo (Apc), aggiudicandosi 59 seggi dei 112 in palio; il partito di governo, il Partito popolare della Sierra Leone (Slpp), ne ha ottenuti 43. Nello scrutinio presidenziale, invece, è stato necessario ricorrere a un secondo turno (8 settembre). Ha vinto Ernest Bai Koroma, leader dell’Apc, cinquantaquattro anni, originario di Makeni, ex santuario della lunga ribellione. Koroma, riuscendo a farsi interprete delle istanze popolari di rinnovamento, ha raccolto il 54,6% delle preferenze, superando il candidato governativo, il vicepresidente uscente, Solomon Berewa (45,4%). Candidato dello Slpp, Berewa avrebbe dovuto essere il continuatore della linea politica impressa dal capo dello stato uscente, Ahmad Tejan Kabbah. Un personaggio, quest’ultimo, a cui va comunque riconosciuto il merito di aver difeso gli interessi nazionali in condizioni estreme, durante gli anni della guerra che costarono la vita a oltre 75mila persone.

Nel corso della cerimonia d’investitura, a Freetown il 15 novembre scorso, Koroma ha promesso di combattere la corruzione, insistendo sulla necessità di promuovere un cambiamento di mentalità: una vera e propria operazione culturale per garantire pace e prosperità al paese. La bocciatura di Berewa è sintomatica del diffuso malessere nei confronti di una classe dirigente che, sulla carta, si era formalmente impegnata nella ricostruzione del paese, sconvolto da uno dei più feroci conflitti civili della storia africana (dal 1991 al 2002).

Ma ora che Koroma è al comando, il cammino rimane comunque tutto in salita, non foss’altro perché il paese – è bene rammentarlo – naviga ancora in acque burrascose, dovendo fare i conti con un’infinità di problemi, a partire dall’analfabetismo e dalla disoccupazione, che volano oltre la soglia del 60%. E cosa dire del salario medio annuale pro capite di soli 220 dollari, nonostante le immense ricchezze del sottosuolo? Il paradosso è evidente e rappresenta una sfida per il nuovo esecutivo. Infatti, pur disponendo di immense risorse naturali – giacimenti di diamanti, oro, bauxite e rutilio, oltre a un territorio che consentirebbe colture diversificate (caffè e cacao nel sud, tabacco e arachidi al nord) e un mare molto pescoso e ricco di petrolio – il paese continua a essere uno dei più poveri del mondo.

Secondo il recente rapporto del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (Undp 2007-8), l’ex protettorato britannico è ultimo nella graduatoria mondiale per quanto riguarda l’Indice di sviluppo umano (Isu: 0,336 su un massimo di 1). Il 74,5% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Il sistema sanitario nazionale è molto carente: il paese è al primo posto al mondo per mortalità infantile sotto i 5 anni (282 morti ogni 1.000 nascite) e per mortalità materna (2,1 morti ogni 1.000 nascite). La vita media della popolazione non supera i 41 anni.

Di fronte a questo scenario, la chiesa cattolica non è rimasta a guardare. Sebbene la Sierra Leone sia un paese a maggioranza islamica, l’episcopato locale ha saputo farsi interprete delle istanze della società civile. È per questa ragione che, alla vigilia del secondo turno delle presidenziali, i vescovi hanno indirizzato una lettera alla nazione, ricordando che la consultazione rappresentava «il terreno di prova per vedere quanto abbiamo saputo coltivare la cultura della pace, della non violenza e del rispetto della legge».

Condannando fermamente «ogni forma di violenza tra i sostenitori dei partiti politici», incluso il fomentare sentimenti etnocentrici, i vescovi hanno chiesto ai propri connazionali di pregare e sostenere la pace e la stabilità, votando secondo coscienza e rispettando i processi elettorali. La memoria degli scontri che hanno dilaniato la nazione, hanno saggiamente ricordato i presuli, impone la responsabilità collettiva di rispettare il processo democratico. Sta di fatto che le parole dei vescovi, come anche gli appelli lanciati dalla Comunità internazionale, sono stati recepiti dalla gente.

A parte alcuni disordini, causati da bande di facinorosi tra il primo e il secondo turno, l’esito delle elezioni ha ampiamente soddisfatto gli standard di cittadinanza responsabile e suscitato il plauso delle cancellerie di mezzo mondo. Da rilevare che un contributo significativo per la buona riuscita delle elezioni è stato offerto dagli operatori dell’informazione, che hanno adottato per la prima volta un codice di condotta. La decisione, incoraggiata e sostenuta sia dalle Nazioni Unite sia da tutte le componenti della società civile, è servita a garantire un’informazione corretta e obiettiva.

Una cosa è certa: da quando si è concluso ufficialmente il conflitto tra i famigerati ribelli del Fronte unito rivoluzionario (Ruf) e le forze lealiste, nel 2002, gli investimenti stranieri in Sierra Leone non sono mancati. Purtroppo, però, non hanno assolutamente giovato al miglioramento del tenore di vita della gente. Sebbene il tasso di crescita annuo del Prodotto interno lordo [valutato intorno a 5,45 miliardi di dollari (a parità di potere d’acquisto); 1,23 miliardi (al tasso di cambio ufficiale)] sembri essere oggi del 10% (+7,1% nel 2006), le casse dello stato sono praticamente a secco.

Il governo di Koroma dice di voler contare sugli aiuti dei donatori e sull’impegno di organizzazioni non governative, gruppi della società civile e comunità locali. È importante, però, incrementare la credibilità delle istituzioni centrali dello stato nella lotta contro l’onnipresente corruzione e promuovere mirate politiche sociali nei confronti dei ceti meno abbienti, che rappresentano la maggioranza della popolazione.

La palla ora è in mano ai politici. Se anche Koroma mancasse di parola... «e do so!» (“sarebbe davvero troppo!”), come dice la gente, sbuffando, in Krio.

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