Conflitti

Le radici dei Serbi

La Serbia si prepara a entrare in Europa... ma ci sarà posto anche per le sue radici?
14 settembre 2009
Alessandro Di Meo (Un Ponte Per ...)

La Serbia, già Unione di Serbia e Montenegro, già Repubblica Federale di Jugoslavia, nell’ultimo ventennio è stata vittima e protagonista di guerre fratricide che hanno distrutto la Jugoslavia. Ma della Jugoslavia la Serbia ha ereditato i profughi di queste guerre, cosa che ha segnato la vita sociale del suo popolo con conseguenze di impoverimento generale e di crescita a dismisura del divario fra chi ha poco e chi ha molto. Inoltre, il tanto atteso investimento dall’estero tarda ad arrivare e quando arriva porta con se le ricette tipiche del capitalismo, provocando licenziamenti, chiusura e dismissioni di fabbriche obsolete sostituite col nulla delle promesse e dello sfruttamento selvaggio.
Tutte le guerre, condotte di fatto contro la Jugoslavia, che era una confederazione di repubbliche, hanno finito per creare una moltitudine di stati etnicamente puri o quasi mentre la Serbia, da sempre accusata di “pulizie etniche”, ad oggi conta al suo interno molte etnie, oltre quella serba, maggioritaria. Colpisce vedere bambini di etnia albanese provenienti dal Kosovo “liberato” andare tuttora, dopo la guerra e la separazione, a curarsi a Belgrado. Il Kosovo...
Ultimo strappo, forse il più doloroso per la Serbia, il riconoscimento della indipendenza del Kosovo e Metohija (la terra dei monasteri). Regione serba da sempre cuore di tradizioni e sentimento nazionale dei serbi, è simbolodella loro religiosità, con gli innumerevoli monasteri fra i più belli d’Europa, molti dati alle fiamme e andati irrimediabilmente distrutti dalla furia del terrorismo albanese che ha cacciato da quella regione, con la complicità della Nato, quasi 300 mila serbi. Qualcuno, fra loro, però ancora resiste...

“Samo Sloga Srbine Spasava”, “Solo l’unione salverà i Serbi”.
Da sempre i Serbi si ritrovano sotto questo motto, ma mai come oggi questo motto è in pericolo.
In Kosovo, gli ultimi resistenti accusano i loro fratelli di averli abbandonati e di avere, soprattutto, abbandonato la terra dei loro padri, il Kosovo e Metohja.
“Che importa chi è che comanda oggi in Kosovo? Siamo passati per secoli di dominazione turca, ci hanno invaso i nazisti, ci hanno ammazzato e siamo pronti a morire ancora, ma non ci siamo mai piegati agli invasori... L’unica cosa che conta è che i Serbi restino qui!”.
Ma quelli che se ne sono andati hanno le loro ragioni, e se la prendono con la stato che non li ha protetti...
“Si, siamo stati aiutati all’inizio, ma senza lavoro, coi figli da crescere, tutto è difficile. Abbiamo perduto tutto, come possiamo non vendere quel poco che ancora abbiamo in Kosovo? Gli albanesi vengono con tanti soldi e non possiamo rifiutare le loro offerte... alla fine, ci cacceranno anche in maniera legale da quella che era la nostra terra”.
Poi, ci sono i giovani, quelli di Belgrado, quelli che ascoltano Radio B92... quelli che hanno voglia di dimenticare le sofferenze, che non ne vogliono più sapere di Kosovo, di guerra, di passato, tradizione, profughi o resistenti, religione o dinastie Nemanja.
Si arrabbia, madama Dobrila, nel patriarcato di Pec, vecchia, dolce ma ferma signora che sembra una monaca ma monaca non è, e che ci spiega ogni affresco, ogni simbolo, ogni anfratto del patriarcato, quando pensa a quel che è successo...
“Ci hanno distrutto la cultura e il perché non lo sa nessuno! Noi convivevamo anche con loro, gli albanesi, ognuno con la sua cultura e religione. Che bisogno c’era della guerra? A cosa è servita? A distruggere tutto e basta! Dopo la seconda guerra mondiale avevamo una popolazione analfabeta, le donne giravano con il velo. Poi, tutti hanno potuto studiare, conoscere, imparare e ora tutto di nuovo si perde. E’ la barbarie che vince”.
Tutto tranquillo, invece, per i militari del Villaggio Italia, che sovrasta Belo Polje, dove una certa propaganda governativa proprio non attacca...
“Andare via dal Kosovo per l’Afghanistan? Non se ne parla, noi prendiamo ordini solo dai vertici Nato. Potremo diminuire le forze impiegate, cosa che già è avvenuta, ma non abbandonare le minoranze della zona”.
Villaggio Italia, quindi, non smobilita. Troppo importante il ruolo da deterrente che permette ai pochi serbi delle enclavi (parola che a molti serbi resistenti non piace!) di pensare ancora a un futuro. E troppo grande la stima guadagnata sul campo, sia per la protezione garantita dopo il progrom antiserbo del marzo 2004, sia per la sensibilità dimostrata nel recupero di icone e simboli dalle chiese bruciate dagli albanesi filo Uck. A madama Dobrila, che parla un perfetto italiano con delicato accento francese, si illumina il volto quando pensa al lavoro svolto dai militari nella salvaguardia di queste opere preziose...
“Niente a che vedere coi militari degli altri paesi! Siamo qui, protetti da voi italiani, come in una gabbia. Ma almeno una mano l'avete data e continuate a darla!”.
Contraddizione emblematica dei tempi che corrono!
Abbiamo fatto una guerra contro la Jugoslavia, in particolare contro i serbi, a fianco di impresentabili terroristi travestiti da liberatori e ora, gli stessi militari sono qui a proteggere dalla barbarie gente comune che ha la sola colpa di non volersene andare dalla propria terra. Una mano non sa cosa fa l'altra e il caos regna sovrano.
Intanto, mi giunge la notizia di una cara amica che è morta. Allora, a suo ricordo, faccio come i serbi e verso un po’ di rakija a terra pronunciando il suo nome. Poi, accendo un cero nel pianale più basso di questa chiesa bruciata e mezzo distrutta, quello per i morti, verso i quali il rispetto va aldilà del semplice simbolismo.
E quanto dolore può provocare il vicino cimitero distrutto, con le pietre divelte e spaccate, lo può sapere solo chi, quel rispetto, continua a portarlo avanti con tutta la propria forza. Forza che viene da memoria, cultura e amore per le proprie radici. Quelle che, in Kosovo, stanno cercando di recidere ai serbi.

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