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IL DIBATTITO SU NATURE: Benefici e rischi della modificazione genetica in agricoltura.

Quanto e come sono cambiate le nostre conoscenze dal 1998 ad oggi?

Una rassegna di articoli apparsi su Nature e altre fonti scientifiche.
22 aprile 2003
Daniela Conti
Fonte: Una rassegna di articoli apparsi su Nature e altre fonti scientifiche.

1 - il dibattito su nature del 1998 (sintesi degli interventi)

2 - due anni dopo: approfondimenti e nuovi studi

- Le promesse sono state mantenute?

- Produttività delle piante GM

- Uso dei pesticidi

- E le piante Bt fanno diminuire l’uso di pesticidi?

- Rischi ambientali

- Selezione di insetti e di piante resistenti

- Tossicità per gli insetti utili

- Tossicità per gli insetti in generale

- Perdita di biodiversità

- Rischi genetici

- Inquinamento genetico

- Il potere ricombinogeno dei vettori, i necessari anelli intermedi

nella costruzione degli OGM

- Rischi per la salute umana

Conclusione


Nell’ottobre del 1998 veniva organizzato dalla rivista scientifica Nature (i) un dibattito che metteva a confronto alcuni esperti, prevalentemente britannici, in merito ai benefici e ai rischi connessi con l’introduzione su larga scala di piante geneticamente modificate (GM).

Riprendere a due anni di distanza quel dibattito ha soprattutto il significato di vedere se e come si sono evolute le conoscenze sui temi già allora più controversi, temi che la comunità scientifica cominciava ad individuare dopo vari anni di rilascio su grande scala di piante GM. Molti punti di quel dibattito hanno trovato nuovi approfondimenti; inoltre, evidenze raccolte soprattutto negli USA, dove il rilascio di OGM su larga scala avviene da più lungo tempo, da un lato gettano luci sempre più inquietanti sul versante dei rischi ambientali e dall’altro sembrano oscurare di molto gli attesi benefici. Per cominciare, una breve sintesi degli interventi in quel dibattito.

il dibattito su nature del ‘98

Rosie Hails (Ecological Risk Assessment Group di Oxford) sostiene che la questione fondamentale non è tanto se gli OGM avranno un impatto ambientale, ma piuttosto se "il danno sarà maggiore o minore che con le alternative convenzionali." Per fare ciò, occorre valutare i supposti benefici e i costi (cioè da un lato la pronosticata riduzione degli input artificiali – soprattutto chimici – con i conseguenti vantaggi ambientali che ne deriverebbero e la disponibilità sul mercato di prodotti con una migliore qualità nutrizionale, dall’altro i potenziali danni e distruzioni agli ecosistemi). "Le attuali lacune nelle nostre conoscenze ci impediscono di pesare costi e benefici gli uni rispetto agli altri. Ma l’importanza degli ecosistemi per il nostro benessere è tale da rendere imperativo questo tipo di ricerche." Per identificare i rischi ambientali, occorre chiarire il comportamento delle piante GM nei sistemi naturali. Molte colture possono ibridare con piante affini presenti in natura (parenti selvatici); con le piante GM, ciò implica il pericolo di diffusione dei transgeni (i geni estranei inseriti). "Non c’è dubbio che questi ibridi si formino (ii), ma come si comporteranno negli habitat naturali?" Il problema è particolarmente rilevante se si tiene conto che la grande maggioranza delle piante GM, soprattutto quelle coltivate su larga scala, sono modificate con geni per la resistenza a specifici erbicidi, insetti o virus. La diffusione "orizzontale" (cioè ad altre specie) dei transgeni potrebbe sottrarre questi ibridi al controllo dei loro nemici naturali, rendendoli pericolosamente invasivi ed infestanti. Particolarmente grave potrebbe essere il problema degli ibridi per la resistenza a virus (un tipo di piante GM molto diffuso in Cina), sottratti all’influenza regolatrice dei loro patogeni naturali. Per conferire la resistenza a virus si utilizzano molti costrutti (che possono portare geni di mammiferi, lieviti, piante e virus), i quali senza dubbio differiscono rispetto al loro potenziale rischio genetico: i transgeni "derivati da patogeni" probabilmente sono molto diversi da quelli derivati da piante. Quindi sarebbe necessario condurre "un gran numero di esperimenti su vasta scala e in una vasta gamma di contesti ambientali… In questo caso vi è una mancanza di conoscenze ecologiche di base, e ciò impedisce un’adeguata valutazione del rischio… A nostro parere la soluzione scientifica più adeguata sta nel fare luce sulle lacune delle nostre conoscenze che recentemente sono divenute evidenti, compresa la carenza di dati pertinenti alle alternative agronomiche più credibili."

Julie Hill (The Green Alliance, una delle principali organizzazioni ambientaliste inglesi) sottolinea i dichiarati benefici anche ambientali, ma afferma che la sua organizzazione è sempre più scettica circa la loro realizzazione e preoccupata invece dei potenziali rischi, ad esempio per la diminuzione della biodiversità e il mancato rispetto della libertà di scelta del consumatore. La normativa europea che regola il rilascio in campo di OGM si fonda sul principio che questi organismi, portatori di nuovi geni, si potrebbero comportare come altri tipi di organismi estranei a un territorio, le cosiddette specie aliene. "E’ stato stimato che nell’1% circa dei casi, gli organismi introdotti in un nuovo ambiente possono adattarsi fino al punto di invadere e distruggere gli ecosistemi nativi. Chi critica questa analogia sostiene che nel caso delle specie aliene ciò che viene introdotto è un organismo intero, mentre con la modificazione genetica solo pochi geni differenziano la pianta GM dalla pianta originale. Ma essi dimenticano che anche piccoli cambiamenti genetici possono avere effetti radicali sul fenotipo della pianta (singoli transgeni, ad esempio, rendono la pianta resistente ad erbicidi). Questi cambiamenti potrebbero modificare la capacità della pianta di competere con le altre al di fuori dell’habitat agricolo, rendendola infestante e capace di invadere aree naturali. Altra preoccupazione è il rischio del passaggio di geni alle piante selvatiche affini, le quali potrebbero assumere il carattere di infestanti. Gli ordini di grandezza dei due fenomeni sono difficili da prevedere, lasciando vaste aree di incertezza nella valutazione del rischio. Inoltre sono molto probabili anche effetti indiretti, come la modificazione nell’uso dei pesticidi indotta dall’utilizzo delle piante GM ad essi resistenti. Occorre anche pensare agli effetti cumulativi: la scomparsa di erbe dai campi così trattati significa una diminuzione nella varietà di insetti e, quindi, meno cibo per gli uccelli, il cui numero di specie è già oggi soggetto a un notevole declino in tutta Europa… Forse l’aspetto più carente dell’attuale regime normativo è la mancanza di una chiara definizione di ciò che si deve intendere per danno ambientale… Dobbiamo essere certi fin dal principio se eventi come l’estinzione di una rara specie di farfalla, la perdita di una o di molte specie di vermi nematodi in una data area è importante, e se sì, quanto… E’ necessario definire, con un ampio dibattito nella società, che cos’è che riteniamo importante nel mondo naturale e che non dovrebbe mai essere messo in pericolo, né dalla modificazione genetica né da nessun’altra tecnologia."

Paul Arriola (Department of Biology, Elmhurst College, USA) afferma che "nonostante il notevolissimo aumento della superficie coltivata a OGM, stiamo ancora dibattendo gli stessi problemi ecologici sollevati nel 1985.

L’area coltivata a OGM nel mondo ha avuto un aumento straordinario: nel 1996 c’erano 2,8 milioni di ettari coltivati a piante GM, nel 1997 sono saliti a 12,8 milioni di ettari [Nota: nel 1998 la superficie è ulteriormente aumentata a 29 milioni e nel ‘99 a 45 milioni, di cui l’80% circa si trova nel Nord America, il 10% in Asia, il 9% in Sud America, l’1% in Europa]. "Un rapporto del 1997(iii) stima un aumento medio di produttività del 9%, con un aumento dei profitti di 190 milioni di dollari per i coltivatori di mais Bt nei soli USA. Un aumento di produttività, anche se più contenuto, si è trovato anche per le altre colture GM… Questo incremento di produttività e profitti sarà la molla per la continua espansione di queste colture." [Nota: dati più recenti, apparsi su Science, hanno modificato questo quadro: nel 1998 i coltivatori di mais Bt hanno perso 26 milioni di dollari rispetto a quelli che coltivavano mais normale, perché non c’è stata infestazione di piralide. L’argomento della produttività delle piante GM sarà ripreso più avanti.] Proprio a causa di questa enorme diffusione, "abbiamo il problema immediato di stimare in che misura possono verificarsi i rischi potenziali degli OGM e, oltre a questo, di valutare i rischi a lungo termine e quale sia il livello di rischio che riteniamo accettabile."

A tale riguardo, la prima cosa da valutare è se gli OGM possono sfuggire alle colture e invadere gli habitat naturali. Gli studi finora condotti dalle ditte che hanno sviluppato queste piante indicano che la probabilità di tali eventi è bassa per la maggior parte delle varietà. Le cose potrebbero andare diversamente con le piante che hanno più parenti selvatici, come le specie dei generi Brassica [a cui appartengono la colza, il cavolo, la rapa, il crescione e molte altre colture comuni] e Oriza [riso]. "Il fatto è che non lo sappiamo, i test necessari dovrebbero essere condotti su una scala così grande da essere in pratica impossibili, quindi dovremo aspettare gli esiti degli involontari ‘esperimenti’ che la deregulation ha posto in essere negli USA."

"E’ stato ormai dimostrato che l’ibridazione tra colture e piante selvatiche è un fenomeno più frequente di quello che si pensava. Quindi non può non preoccupare l’evidente certezza della fuga dei transgeni nell’ambiente, associata alle sempre più numerose prove del fatto che gli ibridi tra piante coltivate e selvatiche possono stabilirsi nei sistemi naturali e persistervi… Recenti prove del fatto che i transgeni vengono espressi in questi ibridi non possono che esacerbare il dilemma connesso col rilascio di OGM (iv, v), ….A questo punto il rischio di produrre nuovi e forse più aggressivi parassiti (ad esempio infestanti resistenti agli erbicidi), o di diminuire la diversità genetica nei centri originari delle colture (ad esempio, Zea mais in Messico) cessano di essere una pura ipotesi."

Poiché il rilascio di OGM è oramai un dato di fatto, la discussione intorno ai possibili rischi collegati con esso è ormai superata. Occorre che soprattutto gli ecologi concentrino i propri sforzi sulla valutazione dei rischi a lungo termine dovuti agli ibridi piante GM/selvatiche, nella speranza di riuscire ad individuare in fretta i problemi che certamente sono sfuggiti finora. "La teoria ha identificato il peggiore degli scenari possibili, e si può essere abbastanza certi che se uno scenario di questo tipo è possibile, prima o poi, col tempo, si realizzerà."

Mike Gasson (Institute of Food Research, Norwich, UK) allarga la discussione al di là dell’impatto ecologico e ambientale, agli aspetti della sicurezza alimentare. "Le argomentazioni a questo riguardo si tingono spesso di sfiducia nei confronti degli enti preposti al controllo, sfiducia che deriva anche da altri problemi di sicurezza alimentare, non correlati agli OGM, come la mucca pazza (BSE) e la diffusione di patogeni tramite i cibi. In generale, è un fatto accettato che ogni nuova tecnologia non sia scevra da rischi, e non ci si aspetta di eliminare completamente i rischi prima di avanzare su quella strada; l’ingegneria genetica non fa eccezione a questa regola.

Con questa tecnologia i tradizionali approcci tossicologici hanno molti limiti. I cibi interi, a differenza dei composti chimici, sono misture voluminose e complesse e possono essere somministrati agli animali da laboratorio solo in piccole quantità. Quindi difficilmente si producono effetti tossici acuti. Così, sulla base di linee guida elaborate dapprima dalla FAO e dall’OMS, poi rifinite dalle stesse e dall’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), si è pervenuti al principio della "sostanziale equivalenza". Questo approccio prende un alimento esistente, con una sua storia d’uso e un livello accettato di sicurezza, quale termine di paragone su cui condurre il confronto con un alimento GM da esso derivato. La sicurezza di quest’ultimo viene dichiarata quando si dimostra che i due cibi non differiscono in modo significativo rispetto ad una serie di caratteristiche, riguardanti sia il fenotipo che la composizione chimica.

Esistono esempi di cultivar ottenute con le tecniche di selezione convenzionali in cui si sono sviluppati livelli pericolosi di sostanze tossiche naturali. Ma non c’è ragione di supporre che l’ingegneria genetica abbia maggiori probabilità di causare questo tipo di rischi.

Uno degli aspetti più controversi è la presenza di geni per la resistenza agli antibiotici (lascito di una delle prime fasi della manipolazione, precedente all’introduzione nella pianta GM), geni che poi non vengono espressi nella pianta transgenica. Eliminare questi geni, che hanno solo una funzione iniziale di marcatori, sarebbe possibile, ma non è stato fatto per certe linee di mais transgenico [mais Bt]. La possibilità del passaggio di questi geni dalle piante GM a batteri patogeni è stata molto dibattuta; in genere si ritiene che sia poco probabile. Tuttavia questo rischio, anche se piccolo, potrebbe essere evitato. Per piante destinate al consumo umano o animale allo stato fresco, non v’è dubbio che una pianta GM senza geni per la resistenza ad antibiotici sia preferibile ad un’analoga versione che invece porta quei geni. "Poiché piante del primo tipo sono disponibili, non vedo perché si debba utilizzare come cibo fresco l’altra versione."

Appare chiaro che la valutazione dei rischi delle piante GM è molto più semplice sul fronte degli alimenti che dell’impatto ambientale. Una volta introdotta in campo, una pianta GM difficilmente può essere controllata. Sarebbe strano, ad esempio, se insetti sottoposti all’azione di una tossina non rispondessero a questa pressione selettiva sviluppando una resistenza alla tossina stessa. Tuttavia il controllo dei parassiti non è un problema nuovo in agricoltura e, tra le possibili conseguenze ambientali negative di questa tecnologia, la più probabile è una sua ridotta efficienza e non un imprecisato disastro.

Alan Gray (Institute of Terrestrial Ecology, Wareham, Dorset) si dice preoccupato di due tendenze della ricerca.

La prima, secondo Gray, sta nell’assunto che quantificare il rischio equivarrebbe in qualche modo a risolvere il problema della sua valutazione. Per chiarire il suo pensiero, Gray cita i risultati di due ricerche, condotte l’una in Danimarca e l’altra in Gran Bretagna, sul flusso genico tra colza coltivata (Brassica napus) e rapa selvatica (Brassica rapa). Dalla ricerca danese emerge che circa il 60% dei semi prodotti erano ibridi, mentre nello studio inglese tale percentuale si riduce all’1,5%. "La domanda che interessa non è ‘Quale delle due stime di flusso genico è corretta?’ - entrambe, infatti, lo sono - ma piuttosto: Quale numero ci farebbe cambiare idea circa il rischio di coltivare colza transgenica: il 50%, il 10% o anche soltanto l’1%?… Quantificare il rischio può aiutarci a prendere decisioni con maggiore cognizione di causa, ma alla fine è sempre una decisione quella che bisogna prendere… Se le previsioni del tempo dicono che vi è un 20% di probabilità che pioverà, dobbiamo comunque decidere se vogliamo correre il rischio di fare ugualmente un picnic."

La seconda tendenza individuata da Gray starebbe nel fatto che spesso un risultato scientifico viene sfruttato per chiedere a gran voce il bando del rilascio di piante GM, o una moratoria in tal senso. "Chi pubblica questi risultati dovrebbe rendersi conto che il suo lavoro può essere usato per definire inaccettabile un rischio e persino per strangolare sul nascere una tecnologia potenzialmente benefica."

"Io credo – afferma Gray – che l’attenzione degli ecologi dovrebbe concentrarsi soprattutto sul termine ‘pericolosità’ (hazard) dell’equazione ‘rischio = esposizione + pericolosità’, dove ‘esposizione’ è la frequenza/la probabilità di fuga di un gene, un termine ricavabile delle stime di flusso genico e in larga parte costante per una data coltura e una data regione agricola. Per ‘pericolosità’ si intende l’impatto che il gene inserito ha sulla biologia del parente selvatico e sulla dinamica di popolazione di quella pianta. "Sono quindi necessarie con urgenza ricerche rivolte a problemi che al momento possiamo solo intravedere, come il diffondersi di geni per la resistenza a parassiti, soprattutto a virus; la combinazione in una stessa pianta di più tratti modificati con l’ingegneria genetica; gli effetti ecologici su vasta scala in agricoltura, ecc.."

"La crescente sensazione che il futuro dell’applicazione dell’ingegneria genetica all’agricoltura si giocherà nell’arena politica, e non in quella scientifica, non deve farci abdicare a questa responsabilità."

Nella sua risposta a Rosie Hails, Julie Hill afferma che "è giusto valutare la strategia della modificazione genetica alla luce delle pratiche agricole convenzionali, ma sarebbe un grave errore concludere che tale strategia vada bene, se non è peggiore della pratica esistente." Si sta dando nuovo valore alla relazione tra pratiche agricole e biodiversità, per proteggere le specie selvatiche. La modificazione genetica deve inserirsi in una visione più ampia del futuro (ammesso che abbia un posto in essa), anziché accettare semplicemente lo status quo."

Nella sua replica, Paul Arriola afferma di essere d’accordo con Gray sul fatto che gli ecologi devono affrontare la questione ‘Quale livello di rischio è accettabile’. Ma "la teoria sui livelli di flusso genico biologicamente significativi è chiara: in dipendenza dell’intensità di selezione, tassi relativamente moderati (meno del 5% per generazione) possono avere effetti significativi sulla popolazione… I dati oggi disponibili per molte varietà indicano che tale rischio è reale e quantificabile. Se si può dimostrare che vi è flusso genico, persino al livello dell’1%, allora il rischio che il transgene possa sfuggire è elevato; sarebbe necessario un alto grado di monitoraggio per ridurre tale possibilità. Oppure - per riprendere la metafora di Gray – abbiamo già deciso di arrischiare il picnic, ed ora dobbiamo solo assicurarci di avere abbastanza ombrelli e teli per asciugarci nel caso che arrivi la pioggia."

Due anni dopo: approfondimenti e nuovi studi

Le promesse sono state mantenute?

Le piante GM attualmente coltivate e commercializzate consistono per il 99% in soia, mais, colza e cotone modificati con l’inserzione di geni per la resistenza a specifici erbicidi o insetti. I cosiddetti "OGM di seconda generazione", in cui si cerca di modificare la qualità nutrizionale della pianta, sono ancora in fase di sviluppo, per cui non saranno qui esaminati. I benefici attesi dall’introduzione delle piante GM attualmente diffuse consistono nella loro maggiore produttività e nella riduzione dell’uso di pesticidi. Oggi negli Stati Uniti più del 50% della soia coltivata è GM, e così pure il 50% del cotone e il 40% del mais, tanto che, a quanto afferma Wilkinson nell’introduzione al dibattito su Nature del ’98, "negli USA… quasi tutti i cibi contenenti soia hanno un’elevata probabilità di contenere qualche proteina derivante da semi di soia geneticamente modificati." Questa rapida diffusione delle varietà GM ha permesso di raccogliere alcuni dati interessanti sia sulla produttività che sull’effettivo uso dei pesticidi.

Produttività delle piante GM Uno studio recente(vi) condotto su 40 campi sperimentali di soia nella regione centrosettentrionale degli USA, ha trovato che le varietà di soia GM Roundup Ready davano in media un 4% di produzione in meno rispetto alle varietà di soia convenzionali. Risultati analoghi emergono da uno studio condotto nell’Ontario(vii). Probabilmente la pianta sopporta un costo metabolico nell’esprimere i geni per la resistenza al Roundup, costo che si evidenzia nella minore produttività. Analogo significato hanno i risultati ottenuti per il mais Bt. E’ stato stimato(viii) che il mais Bt diventa economicamente vantaggioso rispetto a quello convenzionale solo a fronte di gravi infestazioni della piralide. Negli USA infestazioni di questo tipo si verificano una volta ogni 5 anni. I maggiori costi implicati dall’acquisto annuale della varietà GM brevettata, e il mancato risparmio per la non necessaria irrorazione con gli specifici pesticidi, renderebbero non competitivo l’utilizzo di questo mais. Anche un altro fattore riveste grande importanza economica. La selezione di insetti resistenti ha portato le stesse industrie produttrici a consigliare agli agricoltori di lasciare almeno un 20% del terreno a mais non GM, al fine di costituire i cosiddetti "rifugi" per insetti sensibili alle tossine Bt, nell’intento di rallentare la diffusione della resistenza (tornerò su questo argomento più avanti), una strategia che contribuisce anch’essa alla minore resa del mais Bt.

Uso dei pesticidi Una delle principali ragioni con cui si giustifica l’introduzione di piante GM è il supposto minor uso di pesticidi. Quanto è reale questa diminuzione degli input chimici? La soia RR dovrebbe consentire agli agricoltori di adeguare meglio i tempi di irrorazione a quelli di emergenza delle erbe infestanti, ampliando la finestra di trattamento. E, a quanto afferma la Monsanto, il fatto che la soia sia resistente a un erbicida poco tossico, quale è in genere considerato il glifosato (Roundup), dovrebbe ridurre l’uso di erbicidi con impatto ambientale maggiore. Dati dell’United States Department of Agricolture (USDA) relativi al periodo 1996-1998, analizzati dall’esperto di lotta integrata dr. Charles Benbrook(ix), rivelano che la diffusione della soia Roundup Ready si è accompagnata ad un aumento, ogni anno, nell’uso del Roundup, l’erbicida a cui la soia RR è resistente. I dati relativi a molti campi di soia in numerosi stati indicano che gli agricoltori che hanno coltivato soia RR hanno trattato i loro campi con una quantità di erbicida superiore da 2 a 5 volte a quella utilizzata da chi coltivava varietà di soia convenzionali. Ciò accade per varie ragioni. (a) L’ampliamento della finestra d’uso non significa necessariamente che il trattamento sia limitato a momenti strategici nella crescita delle infestanti, ma piuttosto che si effettuano molteplici trattamenti. (b) Le erbe infestanti si adattano al cambiamento ambientale sviluppando resistenza, quindi il loro comportamento alterato richiede un numero maggiore di trattamenti(x). (c) Nei campi coltivati a soia GM si sta constatando la diffusione di nuove infestanti, che vengono controllate con il glifosato. Rapporti dall’Iowa dicono che nei campi di soia RR ora compaiono regolarmente due infestanti in precedenza rare(xi).

Per concludere questo excursus di dati sul glifosato, nel marzo del 1999 uno studio svedese(xii) apparso su Cancer ha stabilito una correlazione tra i metaboliti del glifosato (cioè le varie parti in cui questo composto si degrada ed entra poi nel corpo umano) e un tipo di tumore umano, un linfoma non Hodgkin; La validita’ di questi risultati e’ stata disputata da corrispondenza scientifica comparsa sulla stessa rivista (xii-bis) . Tuttavia,tenendo conto del fatto che il glifosato è comunque uno dei pesticidi più usati, indipendentemente dalle piante GM, e che finora nessuno studio aveva preso in considerazione i suoi metaboliti, si tratta di dati che impongono ulteriori studi.

E le piante Bt fanno diminuire l’uso di pesticidi? La tecnologia Bt è applicata a mais, cotone e colza, ma è il mais Bt ad occupare le estensioni di terreno di gran lunga maggiori. Secondo i produttori, le piante Bt dovrebbero far diminuire i trattamenti con insetticidi. Non si tiene però conto del fatto che solo una minima frazione del mais convenzionale è sottoposta a trattamenti antipiralide, trattamenti che di solito vengono fatti solo in caso di infestazione, cioè un anno su cinque negli USA e un anno su tre nell’Ontario. La pianta Bt, invece, esprime di continuo una tossina del Bacillus thuringiensis [da cui Bt] che, ingerita dalla larva del parassita insieme al tessuto vegetale, ne causa la morte. Come stimato da Benbrook in base ai dati USDA, l’enorme diffusione delle varietà Bt non ha portato a una riduzione nell’uso degli insetticidi.

Ma la continua produzione di tossina Bt da parte della pianta ha come conseguenza lo sviluppo di insetti resistenti. Il fenomeno è particolarmente grave perché le tossine Bt, finora utilizzate per pochi trattamenti nell’arco dell’anno, sono molto efficaci e poco tossiche per l’uomo e per l’ambiente. Con lo sviluppo delle resistenze, la perdita di efficacia di questo agente costringerà ad utilizzare composti più tossici. Questo aspetto ci introduce direttamente al problema dei

Rischi ambientali

Come più volte sollevato anche nel dibattito su Nature, uno dei rischi ambientali più prevedibili, e più altamente probabili, connessi con le piante GM è il diffondersi di resistenze negli insetti e nelle piante [per quanto riguarda le piante, vedere Le promesse sono state mantenute?].

Selezione di insetti resistenti Per il mais Bt, la strategia dei rifugi – raccomandata sia dagli enti governativi che dalle ditte produttrici – dovrebbe diluire nelle popolazioni di insetti i geni per la resistenza alle tossine Bt. A parte il dato che molti agricoltori sono riluttanti a dedicare ai rifugi almeno il 20% dei loro campi [i primi anni si consigliava il 5%, poi si è passati al 10%, oggi al 20% e in qualche caso addirittura al 40%] perciò non applicano tale direttiva, va detto che questa strategia è basata su alcuni assunti che si stanno rivelando infondati: (a) i geni per la resistenza sarebbero rari nelle popolazioni di insetti. Uno studio (xiii) sulla tignola dei cavoli, una delle otto specie già divenute resistenti, ha dimostrato che la resistenza alle tossine Bt non è rara, bensì 10 volte più frequente di quello che si pensava. (b) I geni per la resistenza sarebbero recessivi. Da un lavoro (xiv) pubblicato su Science, appare invece che nella piralide questi geni sono dominanti, quindi si manifestano in ogni generazione. (c) I rifugi coltivati a piante non-Bt dovrebbero fornire individui sensibili alla tossina Bt per l’accoppiamento con quelli resistenti. Oltre al già citato problema della dominanza che di per sé vanifica questo stratagemma, vi è il fatto che gli insetti cresciuti mangiando piante Bt manifestano un ritardo dello sviluppo, che fa sì che raggiungano la maturità riproduttiva in un momento diverso rispetto agli individui sensibili, per cui non riuscirebbero comunque ad accoppiarsi (xv).

Nel cotone Bt, il livello di espressione delle tossine è così modesto da consentire al 10-40% dei parassiti di sopravvivere; per controbilanciarli con grandi popolazioni di insetti sensibili sarebbe necessaria un’estensione enorme dei rifugi, cosa che quasi tutti gli agricoltori si rifiutano di fare.

E’ stato stimato che l’applicazione rigorosa della strategia dei rifugi permetterebbe alle piante Bt di mantenere la propria efficacia per una decina d’anni; in caso di fallimento della strategia, l’efficacia si ridurrebbe a cinque anni (ormai quasi trascorsi(xvi) ). L’inevitabile effetto collaterale, come già ricordato, sarebbe quello di vanificare completamente l’uso delle tossine Bt come antiparassitari.

Tossicità per gli insetti utili Uno dei punti più dibattuti, e controversi, è la possibilità che le piante GM siano tossiche non solo per i parassiti, ma anche per gli insetti utili, o comunque non nocivi. Secondo i risultati ottenuti da un gruppo di ricerca della Swiss Federal Research Station for Agroecology and Agriculture, tra le forme immature di Chrysoperia carnea (un insetto predatore di numerosi parassiti, tra cui la piralide) allevate a piralidi nutrite a loro volta di mais Bt, la mortalità era quasi il doppio (57%, contro una mortalità normale del 30%) di quella riscontrata per gli insetti nutriti con prede che avevano mangiato mais non-Bt. (Gray nel suo intervento nel dibattito critica questo lavoro senza peraltro approfondirne le ragioni, al di là di affermare che si tratta di uno studio di laboratorio, le cui conclusioni non sono perciò applicabili meccanicamente alle situazioni reali, e che non è mai stato ripetuto.) Va detto, inoltre, che la tossina espressa nelle piante Bt non è uguale a quella naturale. Infatti, nella versione ingegnerizzata la tossina ha una forma troncata e più attiva, che non ha bisogno per la sua attivazione del succo gastrico fortemente alcalino degli insetti sensibili. Ciò significa che la versione GM della proteina è molto meno selettiva e può agire su uno spettro più ampio di specie non-target(xviii).
Risultati indicativi di potenziale tossicità sono emersi anche da uno studio condotto da un istituto di ricerca scozzese, lo Scottish Crop Research Institute(xix), su un coccinellide (Hippodamia convergens) che si nutre di afidi. I coccinellidi che avevano mangiato afidi nutriti a patate ingegnerizzate con la lectina GNA (una proteina del bucaneve) deponevano meno uova e avevano un tempo di vita più breve di quelli nutriti con afidi che non avevano mangiato la patata GM. Se questi studi saranno confermati, ciò significherebbe che le piante GM hanno un forte impatto sui predatori naturali degli insetti nocivi. La riduzione dei predatori naturali, oltre a far perdere un’importante forma di controllo naturale dei parassiti - e quindi portare inevitabilmente a un uso maggiore di insetticidi chimici - costituirebbe anche una grave perdita di biodiversità, con ripercussioni su molte catene alimentari.

Un articolo pubblicato da Nature sul finire del 1999 riporta il lavoro di un gruppo di ricercatori della New York University(xx), dal quale emerge che le radici del mais Bt producono essudati contenenti le tossine. Gli essudati penetrano nel terreno e vi persistono a lungo, con effetti ancora del tutto inesplorati sulle comunità di insetti che qui vivono e svolgono funzioni importantissime, rispetto all’aerazione del suolo e alla decomposizione di piante e di animali morti.

Tossicità per gli insetti in generale Nel maggio del 1999 suscitò grande scalpore la pubblicazione(xxi) su Nature del lavoro di un gruppo di ricerca della Cornell University, uno studio di laboratorio dal quale emergeva che il polline del mais Bt, cosparso sulle foglie di cui si nutre la farfalla monarca (Danaus plexippus), si era rivelato tossico per l’insetto. Quell’articolo sollevò un’ondata di preoccupazione e di proteste, da un lato, e dall’altro fiere critiche per come l’esperimento era stato condotto, cioè in condizioni di laboratorio che non avrebbero riprodotto le condizioni in natura. Ma nel settembre del 2000, due entomologi della Iowa State University hanno pubblicato i risultati di un esperimento simile(xxii)(cercando di correggere i difetti rilevati in quello precedente), dal quale hanno ottenuto risultati del tutto analoghi. Le larve che si erano nutrite per 2-6 giorni di piante cosparse – tramite il vento - di polline Bt proveniente da campi di mais GM avevano tassi di mortalità significativamente più alti degli insetti di controllo, che non avevano mangiato polline Bt. Questo lavoro è stato criticato dalla BIO (BioIndustry Organization) americana, affermando che si tratta di un’arbitraria estensione di dati ottenuti in laboratorio. Dal canto suo, l’EPA (l’agenzia della protezione ambientale americana) ha rinnovato il permesso di coltivazione per il mais Bt, dichiarando che "alcuni autori sono del parere che la coltivazione di piante Bt può avere effetti ecologici positivi, in confronto alle alternative più probabili" e che il rischio a cui le farfalle monarca sono esposte a causa del mais Bt "non è tale da sollevare preoccupazioni, del tutto ingiustificate(xxiii)". Ma alcuni ricercatori non sono dello stesso avviso. Il gruppo di monitoraggio in campo Monarch Watch, che coinvolge numerosi scienziati di molte università americane, si è posto il problema di verificare se la fase di riproduzione della farfalla e quella di diffusione del polline Bt coincidono nel tempo. "Contrariamente a quanto assume l’EPA, le farfalle utilizzano i campi di mais in tutte le fasi di crescita della pianta, sia quando è bassa che quando è alta. Ciò aumenta le probabilità che la monarca si riproduca nei campi di mais proprio durante la fase di diffusione del polline tossico(xxiv)."

E la diatriba continua. La cosa veramente certa, a questo punto, è che il mais Bt è stato immesso in campo e coltivato in milioni di ettari prima che ne fossero accertati su solide basi scientifiche gli effetti sull’ambiente e sulle catene alimentari.

Perdita di biodiversità "La tendenza a creare grandi mercati internazionali per un singolo prodotto crea le condizioni per l’uniformità genetica dei territori rurali. Inoltre, le norme che regolano il brevetto e la protezione della proprietà intellettuale, e che impediscono ai coltivatori di conservare e riutilizzare i semi di piante GM, aprono una prospettiva in cui poche varietà domineranno il mercato dei semi."(xxv) Benché un certo grado di uniformità delle colture possa comportare un vantaggio economico, esso ha due importanti aspetti negativi dal punto di vista ecologico. In primo luogo, la storia ha dimostrato che grandi estensioni coltivate a un unico tipo di pianta sono molto esposte al rischio di infezione e distruzione ad opera di un nuovo parassita. In secondo luogo, vi è il problema della perdita di diversità genetica. "L’omologazione tecnica dei sistemi agro-alimentari ha condotto al punto che oggi meno di 30 piante soddisfano il 95% del fabbisogno nutritivo mondiale! Si stima che in 50 anni siano scomparse dal pianeta circa 300 000 varietà vegetali, al ritmo di una ogni sei ore. Tale ritmo si è intensificato negli ultimi tempi: circa un quinto delle specie animali e vegetali viventi non vedrà il prossimo millennio."(xxvi) A questi rischi si associano quelli già ricordati dell’alterazione di catene alimentari, collegati alla possibile diminuzione di specie di insetti.

Rischi genetici

Inquinamento genetico Il rischio del trasferimento orizzontale dei transgeni è il punto su cui forse insistono maggiormente un po’ tutti gli interventi del dibattito iniziale su Nature. Si sa qualcosa di più, a due anni di distanza? Si sa abbastanza da consentire ad organismi come l’inglese ACRE (Advisory Committee on Releases to the Environment)(xxvii) di suggerire le linee guida che costituirebbero "la migliore pratica" nel rilascio di OGM: (1) le piante dovrebbero essere manipolate in modo da minimizzare il rischio di flusso genico, mediante impollinazione crociata(xxviii), verso altre varietà coltivate o selvatiche affini. (2) Bisognerebbe addizionare alle piante la minore quantità possibile di DNA. (3) I geni addizionati alla pianta dovrebbero essere espressi solo quando e dove sono necessari, cioè in tessuti specifici (ad esclusione del polline e dei frutti) e solo al momento in cui servono. Ciò ridurrebbe la non necessaria esposizione di organismi non–target. I transgeni potrebbero, ad esempio, essere addizionati al DNA dei cloroplasti mediante ricombinazione omologa. In questo modo, oltre a ridurre la dispersione genetica, sarebbe possibile controllare esattamente la posizione in cui il nuovo gene si inserisce. (4) E’ ragionevole scegliere come specie ricevente una pianta sessualmente incompatibile. Si potrebbero sfruttare tempi di fioritura diversi, fiori che non attraggono gli insetti, e il cosiddetto sistema Terminator per produrre semi sterili. (5) "Un modo per minimizzare la dispersione del transgene consiste nel non introdurre la pianta nell’ambiente; nel caso di piante che producono composti di valore (ad esempio, farmaci), la serra potrebbe essere uno strumento di contenimento efficace." (6) L’espressione dei transgeni (o la fertilità della pianta) potrebbe essere regolata e indotta da specifici agenti chimici. (7) Sarebbe opportuno non usare come marcatori geni per la resistenza agli antibiotici, bensì geni reporter, o di altro tipo.

Nessuno di questi accorgimenti è adottato per le piante GM attualmente coltivate (senza entrare nel merito delle nuove direttrici di sviluppo del transgenico, qui presentate, che aprono alcuni scenari inquietanti).

La Aventis, una multinazionale di base europea produttrice di OGM, ha posto fine alle prove in campo di una varietà GM di barbabietola resistente al glifosinato, dopo avere scoperto che alcune piante contenevano anche un gene per la resistenza al glifosato [Roundup]. E’ il primo caso accertato in Europa di trasferimento accidentale di un transgene mediante impollinazione crociata.

Il potere ricombinogeno dei vettori, i necessari anelli intermedi nella costruzione degli OGM In natura lo scambio genetico orizzontale avviene in molti modi, mediato soprattutto da batteri e virus tramite processi di ricombinazione (per ricombinazione si intende la creazione di nuove combinazioni di materiale genetico(xxix)) . Il trasferimento orizzontale di geni ha giocato un ruolo importante nell’evoluzione di tutte le specie, ma in natura "questo traffico è regolato da limitazioni interne agli organismi, in risposta alle condizioni ecologiche(xxx)". Di solito il materiale genetico estraneo viene degradato all’ingresso nell’organismo ricevente che poi lo utilizza per il suo metabolismo, ma i virus ed altri "parassiti" genetici - come i plasmidi e i trasposoni - riescono, grazie a speciali caratteristiche, a sfuggire alla degradazione. Non solo; una volta entrati, "i parassiti genetici possono incorporare e trasportare geni, divenendo i vettori del loro trasferimento orizzontale(xxxi)".

A partire da quelli naturali, l’ingegneria genetica produce vettori artificiali specificamente progettati per attraversare le barriere di specie, e costruiti in modo da farlo con un’efficienza molto superiore a quella dei vettori naturali. Nella manipolazione genetica il ricorso ai vettori è necessario, poiché sono l’unico mezzo per moltiplicare (clonare) il gene estraneo, per poi inserirlo in un organismo diverso. Questi vettori sono prodotti di alta ingegneria: sono infatti mosaici di elementi genetici di vario tipo e di diversa provenienza (ovvero, sono composti da tutti quegli elementi che servono a far funzionare i geni, anche fuori dal loro contesto-DNA abituale: promotori, terminatori, sequenze per proteine, sequenze ricombinogene, siti di taglio per enzimi, ecc., derivati da DNA di qualsiasi origine). La loro struttura altamente chimerica fa sì che questi vettori presentino molte somiglianze di sequenza col materiale genetico di "parassiti genetici" (virus, plasmidi e trasposoni) presenti in molte specie, di tutti i Regni; ciò facilita il trasferimento orizzontale e la ricombinazione. E’ noto, inoltre, che i DNA transgenici (cioè con geni estranei) sono strutturalmente instabili, ovvero hanno la tendenza a rompersi per poi ricongiungersi in modo scorretto o con altro DNA. Da ciò dipende il noto fenomeno dell’instabilità delle linee transgeniche e, di nuovo, l’aumentata possibilità del trasferimento orizzontale di geni.

Il promotore è un elemento simile a un interruttore ON/OFF, che accende e spegne il funzionamento del gene. Uno dei promotori più usati in ingegneria genetica viene dal virus del mosaico del cavolfiore (CaMV), che funziona con molta efficienza in tutte le piante, nelle alghe, nei lieviti e persino in Escherichia coli, un componente della flora batterica intestinale dell’uomo e di altri animali. Le somiglianze con altri promotori e la presenza di "punti caldi" per la ricombinazione permettono ai vettori col promotore del CaMV di superare facilmente le barriere di specie e di ricombinare col DNA di molti ospiti, sfuggendo alle limitazioni cui sono invece sottoposti i "parassiti genetici" naturali. Quali rischi può comportare questa aumentata facilità di scambio tra DNA di organismi diversi? Oltre ai sospetti di cancerogenicità, vari studi hanno dimostrato che virus vegetali possono acquisire geni virali da piante transgeniche. Ad esempio, una ricerca ha dimostrato in Nicotiana bigelovii la ricombinazione tra il virus CaMV intatto e il transgene VI; almeno uno dei virus ricombinanti era più virulento del tipo selvatico (quello naturale(xxxii)). Da questa ricerca sembra quindi emergere che il promotore del CaMV comporti anche un altro rischio potenziale: la creazione di "nuovi patogeni attraverso la ricombinazione con geni silenti, inattivi o inattivati, presenti in tutti i genomi, vegetali e animali, senza eccezioni(xxxiii)". Questo è un importante anello di congiunzione con il problema dei

Rischi per la salute umana

Che cosa è emerso di nuovo a questo riguardo? Sappiamo qualcosa di più, ad esempio, dei possibili effetti allergenici dei cibi GM?

A questo proposito, negli USA da settembre(xxiv) è in atto una caccia senza tregua per ritirare dal mercato tutte le Taco shell (snack al mais prodotte da Kraft, da Kellogg e da altri grandi gruppi alimentari), in cui per errore è stata utilizzata una varietà di mais Bt - lo StarLink, brevettato dalla Aventis - approvato nel 1998 dall’EPA solo per il consumo animale e non per quello umano. Infatti, la peculiare tossina Bt di questo mais si è rivelata resistente alla cottura e ai succhi gastrici, due caratteristiche che ne fanno presumere un elevato potenziale allergenico. La caccia dell’Aventis alle partite di mais che sono andate a finire nelle Taco shell continua a tutt’oggi, mentre Giappone ed Europa chiedono di sapere se siano potute arrivare fino ai loro paesi. L’Aventis è riuscita a scoprire che la maggioranza degli agricoltori non era informata delle limitazioni imposte allo StarLink e che molti lo hanno mescolato in fase di raccolta con il mais destinato al consumo umano(xxxv). L’EPA, dal canto suo, ha ammesso davanti al Senato americano che è stato un errore approvare una varietà GM per il solo consumo animale; a ottobre ha ritirato il permesso di coltivare mais StarLink(xxxvi).

Uno degli episodi che hanno avuto maggior risonanza riguardo all’impatto degli OGM sulla salute umana è quello che ha visto coinvolto il dr. Arpad Pusztai, il quale, dopo un paio di interventi alla TV inglese in cui esponeva i risultati delle sue ricerche, ha perso il lavoro e i suoi dati gli sono stati sottratti. Questa gravissima "censura" non ha precedenti nell’ambiente scientifico, quindi merita di essere analizzata e capìta nel contesto delle ricerche svolte da Pusztai.

Prima di tutto questo, il quasi settantenne dr. Pusztai era uno scienziato molto stimato, con alle spalle una decennale carriera e centinaia di pubblicazioni specializzate, ed era considerato una delle maggiori autorità a livello mondiale nel campo delle lectine. Pusztai, che lavorava al Rowett Institute scozzese, stava svolgendo una ricerca - come egli stesso ha affermato - sugli effetti che la patata modificata con la lectina GNA (la stessa dello studio sui coccinellidi) può avere "sulla morfologia della mucosa intestinale dei mammiferi". A questo scopo Pusztai ha fatto qualcosa che, sulla base del principio della sostanziale equivalenza (confrontare l’intervento di Gasson del ’98 e il prossimo paragrafo) non era mai stato fatto prima, ovvero ha condotto i suoi test su uno dei modelli per eccellenza dei mammiferi: il ratto. Egli ha trovato che i ratti nutriti con patate GM presentavano una riduzione della risposta immunitaria e delle dimensioni di fegato, cuore e cervello rispetto al gruppo di controllo. Un terzo gruppo di ratti, che aveva mangiato patate non-GM ma cosparse di lectina GNA, presentava un quadro simile, però meno grave. Secondo le conclusioni ipotizzate da Pusztai, questi effetti erano attribuibili, più che alla lectina, alla manipolazione genetica stessa (il costrutto contiene il promotore del CaMV, sotto il cui controllo si trova l’espressione del transgene per la lectina). All’indomani delle sue dichiarazioni in TV sulla sospetta tossicità della patata transgenica, Pusztai è stato allontanato dal laboratorio e dal lavoro. Il Rowett Institute e la Royal Society (equivalente inglese dell’Accademia delle Scienze) hanno duramente criticato tutta la procedura sperimentale e il comportamento di Pusztai, che ha reso pubblici risultati non provati e ritenuti di scarsa validità scientifica. I dati di Pusztai, fino a quel momento non ancora resi noti alla comunità scientifica in generale, sono stati pubblicati dalla rivista scientifica The Lancet (xxxvii) quando ormai il ‘caso Pusztai’ era scoppiato con grande clamore su tutti i media. La rivista si è trovata così al centro di aspre critiche, prima fra tutte quella di avere fatto una scelta irresponsabile, cedendo al sensazionalismo giornalistico e venendo meno al dovere dell’accuratezza scientifica. Nel replicare a queste critiche, R. Horton, il direttore di The Lancet, afferma (xxxviii) che "il lavoro di Ewen e Pusztai è stato pubblicato in base a considerazioni di merito scientifico, oltre che di interesse pubblico. Quattro dei sei referee incaricati della revisione scientifica del lavoro, dopo averlo esaminato ne hanno raccomandato la pubblicazione, uno ne ha messo in dubbio l’interesse pubblico e il sesto si è dichiarato contrario. Di fronte a questa chiara disposizione favorevole, la cosa davvero… ‘irresponsabile’ sarebbe stato decidere di non pubblicare il lavoro." A parere di Horton, sarebbe stato ingiusto che la condanna della Royal Society passasse senza che fossero noti i dati originali, o che i due autori potessero replicare nel merito delle critiche loro rivolte. Se per alcuni scienziati, come l’ex-presidente della British Society of Allergy and Environmental Medicine, "i risultati del dr. Pusztai come minimo sollevano il sospetto che il cibo geneticamente modificato possa danneggiare il sistema immunitario(xxxix)", per altri i suoi risultati restano più che dubbi; ne discende che le sue conclusioni sono tuttora molto controverse (x1). Senza voler entrare qui nel merito scientifico di questa controversia, appare però chiaro che, se quei risultati fossero confermati, ciò vorrebbe dire che gli attuali cibi GM sono nocivi, dato che il promotore del CaMV - il sospetto responsabile degli effetti osservati sui ratti - è usato in tutti i cibi transgenici oggi in commercio. La domanda che viene spontanea è: c’è qualcuno che sta ripetendo quegli esperimenti decisivi? Se non c’è, perché?

Il 7 ottobre del 1999 Nature ha pubblicato un interessante articolo, dal titolo "Oltre la ‘sostanziale equivalenza’", sottotitolo: Dimostrare che un cibo geneticamente modificato è chimicamente simile al suo corrispondente naturale non è una prova adeguata del fatto che sia sicuro per il consumo umano (xli). I tre autori ripercorrono la storia di questo principio, in base al quale sono stati approvati tutti gli OGM attualmente sul mercato. Essi affermano: "Noi riteniamo che questo approccio dovrebbe essere abbandonato in favore di uno che comprenda test biologici, tossicologici e immunologici, anziché test meramente chimici… Il concetto di sostanziale equivalenza [s.e.] non è mai stato definito con precisione… Proprio questa vaghezza rende il concetto utile per l’industria, ma inaccettabile per il consumatore." L’adozione di questo principio liberò le ditte produttrici dall’obbligo di valutare l’ADI (Acceptable Daily Intake, assunzione giornaliera accettabile), quindi di condurre test tossicologici adeguati, che "avrebbero ritardato di almeno 5 anni l’immissione degli OGM sul mercato e ne avrebbero fortemente limitato le quantità."

"Sfortunatamente, gli scienziati non sono ancora in grado di prevedere con una certa esattezza gli effetti biochimici o tossicologici di un cibo GM, unicamente in base alla conoscenza della sua composizione chimica… I risultati di Arpad Pusztai… restano ancora controversi, ma la sua ipotesi di partenza era che vi fosse sostanziale equivalenza tra le patate GM e non-GM. Secondo l’interpretazione data da Pusztai, i suoi …risultati indicavano effetti biochimici e immunologici avversi delle patate GM, effetti che non potevano essere previsti in base a quanto si sapeva della composizione chimica. Gli esperimenti da lui condotti non sono richiesti dalle regolamentazioni in vigore, quindi di solito non vengono eseguiti prima di introdurre un cibo GM nella catena alimentare." (Segue un racconto, molto interessante, su come il principio della s. e. fu utilizzato dalla Monsanto al fine di ottenere l’autorizzazione a commercializzare la sua soia RR. Si scopre così che i test chimici della s.e. vennero condotti su semi di soia mai irrorati col glifosato– come invece sono quelli che entrano nei nostri cibi – benché fosse noto da anni che il glifosato altera in modo significativo la composizione chimica della soia. Quindi "furono valutati semi GM che non sarebbero mai stati mangiati, mentre quelli che realmente si mangiano non furono sottoposti a valutazione.")

Gli autori concludono: "La sostanziale equivalenza è un concetto pseudo-scientifico, perché in realtà si tratta di un principio commerciale e politico mascherato da scientifico… Inoltre, è un principio nella sua sostanza antiscientifico… perché appositamente concepito per evitare che fossero condotti test biochimici o tossicologi. Esso serve quindi a scoraggiare e inibire la ricerca scientifica potenzialmente informativa…. Se si vuole fornire ai consumatori un’adeguata protezione e garantire una reale sicurezza, è necessario che chi ha in mano le leve delle decisioni abbandoni il principio della s. e., perché semplicemente correggerlo non è sufficiente."

Conclusione

Per concludere, vediamo in sintesi i temi principali emersi da questa rassegna della letteratura scientifica degli ultimi due anni.

Si può dire che quelli che nel dibattito su Nature del ’98 apparivano come i punti più controversi, lo sono anche oggi. Da una parte sembrano attenuarsi le prospettive di maggiore produttività e di grandi profitti per i coltivatori che le piante GM parevano promettere. L’analisi di dati recenti pubblicati dal Dipartimento dell’Agricoltura americano (USDA) mette in evidenza che le colture GM hanno una produttività per lo meno uguale, se non inferiore, alle colture convenzionali. I vantaggi dei primi anni (fortemente collegati al tipo di agricoltura americano, ad alto input tecnico su vaste estensioni) sembrano declinare abbastanza rapidamente sotto i colpi del diffondersi di piante e di insetti resistenti agli erbicidi e ai pesticidi, per i quali le piante GM portano inserita nel DNA una specifica resistenza. Tutto ciò sta togliendo efficacia ed utilità ad agenti, come le tossine Bt, finora ritenuti fra i meno tossici per l’uomo e per l’ambiente. Inoltre, ciò sta aggravando il trend all’uso sempre più intenso di pesticidi e diserbanti, uso che le piante GM dovevano invece fare diminuire.

Gli indizi di un impatto ambientale negativo delle piante GM si vanno facendo numerosi. La probabile tossicità per gli organismi non-target è evidenziata ormai da molti studi. L’eventuale conferma di questi risultati apre gravi scenari di effetti sul lungo periodo. La riduzione delle specie utili di insetti, oltre ad aggravare di riflesso il problema dei pesticidi (conseguente alla diminuzione dei naturali predatori dei parassiti), rappresenta un grave pericolo per la biodiversità e può portare ad alterazioni delle catene alimentari, con effetti ancora del tutto inesplorati e imprevedibili (tra i possibili aspetti da verificare, la diminuzione dell’avifauna; l’alterazione dei fragili ecosistemi del terreno; la distruzione di ecosistemi autoctoni da parte di "specie aliene").

Negli interventi del ‘98 il rischio più spesso citato era quello della trasmissione orizzontale dei transgeni, cioè della loro diffusione tramite impollinazione crociata alle specie affini presenti nell’ambiente naturale. Il recente caso dell’Aventis, che ha sospeso la sperimentazione della sua barbabietola ingegnerizzata perché ha trovato che alcune piante possedevano anche la resistenza al glifosato (il carattere inserito nelle piante Roundup Ready), è più che eloquente a riguardo.

Il trasferimento orizzontale dei transgeni, associato col maggiore potere ricombinogeno dei vettori che li veicolano, apre tutto un panorama di rischi sul medio e lungo periodo molto difficili da valutare. Quali conseguenze potrà avere il diffondersi dei transgeni fra i parenti selvatici delle piante GM? Si creeranno superinfestanti resistenti agli erbicidi? Che cosa accadrebbe se una nuova "cassetta genetica" (il gene estraneo, veicolato da un vettore chimerico) andasse a inserirsi in un altro DNA transgenico (come poteva verificarsi nella barbabietola della Aventis); che tipo di organismo si formerebbe? E, problema connesso a questo, come si può superare con l’ingegneria genetica il problema delle nuove resistenze, forse aggiungendo altri geni estranei a una pianta già transgenica? Con quali nuovi organismi e con quali combinazioni di capacità avremmo poi a che fare? E con quali conseguenze? La ricombinazione tra le sequenze virali presenti nei costrutti transgenici e i virus "quiescenti" nei genomi di piante e di animali potrà dare origine a nuovi patogeni, per i quali – proprio perché nuovi - non avremmo mezzi di difesa? Alcuni studi sembrano già dire di sì. Sappiamo tutto quello che può succedere quando una nuova cassetta va ad inserirsi in un contesto-DNA con il quale non ha in comune una storia di millenni, se cioè manca quella storia coevolutiva che invece caratterizza il genoma degli esseri "convenzionali" attualmente esistenti? No, non lo sappiamo. La biologia moderna non ha ancora modelli per spiegare le interazioni fra tutti i geni che costituiscono un genoma, né per spiegare in che modo l’ambiente circostante interviene nella regolazione del genoma, questo insieme complesso che funziona sulla base di un delicato equilibrio dinamico. Tutto ciò richiama a un’estrema cautela, senza fughe in avanti dell’applicazione in campo rispetto ai tempi della scienza (xlii).

Quali dati nuovi sono emersi rispetto all’impatto dei cibi GM sulla salute umana? E’ di questi giorni la caccia in tutti gli Stati Uniti (e forse anche fuori) ai Tacos prodotti col mais StarLink, una varietà GM sospettata di essere potentemente allergenica e per questo approvata per il solo consumo animale e non per quello umano. Questo episodio sta mettendo in piena luce a che cosa può portare la sottovalutazione dei rischi: l’impossibilità di un vero controllo sia dell’immissione in campo che della filiera alimentare. Inoltre, le centinaia di milioni di dollari che tutto ciò sta costando all’Aventis e alle industrie alimentari fanno pensare che le preoccupazioni circa il potere allergenico di questi cibi siano piuttosto fondate.

Per quanto riguarda il rischio connesso con geni per la resistenza agli antibiotici che Gasson ricordava nel ’98, non più tardi del 13 giugno 2000 il prof. Falaschi, direttore del Centro internazionale di ingegneria genetica e biotecnologia di Trieste, dichiarava alla XII Commissione della Camera dei Deputati italiana (xliii): "si è già accennato alla diffusione di geni di resistenza agli antibiotici…, che sono in fase di dismissione ma la cui completa eliminazione richiederà un po’ di tempo. A tale proposito si osserva una certa inerzia da parte delle ditte produttrici, sulla quale sarebbe bene soffermarsi."

Rispetto alla sicurezza alimentare in generale, da più parti orami si ritiene che il principio della "sostanziale equivalenza" debba essere sostituito con un principio che metta al primo posto la sicurezza e i diritti del consumatore. Per questo si va affermando la tendenza ad applicare il Principio di Precauzione, sviluppato nell’ambito del diritto ambientale internazionale, a tutta la gamma delle problematiche connesse con gli OGM.

Il principio di precauzione è stato sancito dalla Dichiarazione di Rio su Ambiente e Sviluppo del 1992 ed è il cardine del Protocollo della Biosicurezza approvato a Montreal nel gennaio 2000, col quale si regola il trasferimento e l’uso di LMO (Living Modified Organisms). Secondo il principio di precauzione, un paese ha il diritto, in assenza di certezza scientifica, di assumere misure precauzionali, anche quando siano in contrapposizione con gli accordi commerciali (GATT) per la libera circolazione delle merci. Un’applicazione più generale di questo principio sovvertirebbe il concetto che finora ha ispirato l’immissione in campo di OGM. Attualmente, infatti, si assume che gli OGM siano sicuri fino a quando non viene dimostrato il contrario, con l’onere della prova a carico di chi mette in dubbio l’assunto fondamentale di non pericolosità. Adottando il principio di precauzione, i paesi hanno il diritto di astenersi dall’utilizzo di un OGM, fino a che non sia dimostrato con ragionevole certezza che non causa danni gravi e, non va dimenticato, irreversibili agli ecosistemi naturali e all’uomo.


Note: i Nature debate, visibile nel sito Internet http://helix.nature.com/debates/gmfoods/gmfoods_contents.html

ii Scheffler J. A., Dale P. J., Opportunities for gene transfer from transgenic oilseeed rape (Brassica napus) to related species. Transgen.. Res. 3, 263-278. (1994).

iiiJames C., Global status of Transgenic Crops in 1997. In ISAAA Briefs n.5, (ISAAA, Ithaca, N.Y., 1997).

ivMikkelsen T.R., Andersen B., Jorgensen R.B., The risk of crop transgene spread. Nature 380, 31 (1996).

v Bergelson J., Purrington C. B., Wichmann G., Promiscuity in transgenic plants. Nature 395, 25 (1998).

vi Oplinger et al. (1999), citato in Ann Clark "Ten reasons why farmers should think twice before growing GE crops", visibile nel sito Internet wwww.oac.uoguelph.ca/www/CRSC/faculty/eac/10reasons.htm

vii Citato in Ann Clark, op. cit.

viii Sears M., Schaafsma A., Responsible deployment of Bt corn technology in Ontario. (1998) http://www.cfia-acia.agr.ca/english/plant/pbo/btweb2e.html

ix Benbrook C., Evidence of the magnitude and consequences of the Roundup Ready yield drag from university-based varietal trials in 1998. AgBiotech InfoNet Technical Paper #1, July 13, 1999.

x Hartzler B., Are Roundup Ready weeds in your future? Iowa State University Weed Science Report. Nov. 3, 1998.

xi Reschke P. Era of Roundup Ready likely to change the weedscape. Ontario Farmer, Feb. 23, 1999.

xii Intervento di G. Tamino (biologo dell’Università di Padova e membro del Comitato nazionale per la Biosicurezza e le Biotecnologie) alla XII Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati. Indagine conoscitiva sulla sicurezza alimentare. Roma, 13 giungo 2000. Visibile nel sito Internet http://www. rfb.it
articolo originale:
Hardell, L. and M. Eriksson. 1999. A case-control study of non-Hodgkin lymphoma and exposure to pesticides. Cancer 85(6):1353-1360

xxii-bis Acquavella, J., D. Farmer, and M. R. Cullen. 1999. Correspondence: A case-control study of non-Hodgkin lymph-oma and exposure to pesticides. Cancer 86(4):729-730.

xxiii Tabashnik B. E., Y-B. Liu, Finson L., Masoson L., Heckel D.G., One gene in diamondback moth confers resistence to four Bacillus thuringiensis toxins. Proc. Nat. Acad. Sci. USA 94, 1640-1644, 1997.

xiv Huang F., Buschman L. L., Higgins R.A., McGaughey W.H., Inheritance of resistence to Bacillus thuringiensis toxin (Dipel ES) in the European corn borer, Science 284, 965-967, 1999.

xv Clark A., op. cit.

xvi Union of Concerned Scientists. Now or Never: Serious new plans to save a natural pest control.. UCS, Washington. Sito Internet: http://www.ucsusa.org/

xvii Hilbeck A., Baumgartner M., Fried P. M., Bigler F. Effects of transgenic Bacillus thuringiensis corn fed prey on the mortality and devolpment time of immature Chrysoperia carnea (Neuroptera, Chrysopidae). Environ. Entom. 27(2). 480-487, 1998.

xviii Hilbeck A. et al., Toxicity of Bacillus thuringiensis Cry1 Ab Toxin to the predator Chrysoperia carnea (Neuroptera, Chrysopidae). Environ. Entom. 27(5), 1255-1263, 1998.

xix Birch A. N. E. et al., Interactions between plant resistence genes, pest aphid populations and beneficial aphid predators. Scottish Crop Research Institute Annual Report, pp.68-72, 1998.

xx Saxena D. et al., Insecticidal toxin in root exudates from Bt corn. Nature 402, 480, 1999.

xxi Losey G.E. et al., Transgenic pollen harms monarch larvae, Nature 399, 214, 1999.

xxii Hansen Jesse L., Obrycki J., Field deposition of Bt transgenic corn pollen: lethal effects on the monarch butterfly", compare in Oecologia, visibile nel sito Internet www.link.spinger-ny.com/, citato in BINAS News: Bt Butterfly Concerns Take Flight Again, Settembre 2000, visibile nel sito http://binas.unido.org/

xxiii l rapporto dell’EPA è visibile per esteso nel sito www.epa.gov/scipoly/sap/

xxiv BINAS News: Novembre 2000. …But Bt Concerns Linger On. Visibile nel sito http://binas.unido.org/

xxv Altieri M. A., The environmental risks of transgenic crops: an agroecological assessment. Visibile in BINAS 1999. Sito Internet citato.

xxvi C. Nardone. Cibo biotecnologico. Hevelius Edizioni, Benevento, 1997, p.69.

xxvii BINAS News: Novembre 2000. ACRE Spells Out How to Reduce Gene Flow. Sito Internet citato.

xxvii BINAS News: Novembre 2000. Aventis Reports GM Gene Transfer. Sito Internet citato.

xxix Mae-Won Ho. "Horizontal Gene Transfer – The Hidden Hazards of Genetic Engeneering". Visibile nel sito Internet http://www.i-sis.org/

xxx Jain R., Rivera M., Lake J. A., Horizontal gene transfer among genomes: The complexity hypothesis. Proc. Nat. Acad. Sci. USA 96, 3801-3806, 1999. Citato in Mae-Won Ho op. cit.

xxxi Mae-Won Ho. Op. cit.

xxxii Wintermantel W.M., Schoelz J. E., Isolation of Recombinant Viruses Between Cauliflower Mosaic Virus and A Viral Gene in Transgenic Plants Under Conditions of Moderate Selection Pressure. Virology 23, 156-164, 1996.

xxxiii Mae-Won Ho, Op. cit.

xxxiv Union of Concerned Scientists. UCS News: Illegal, Potentially Allergenic Altered Corn Found in Taco Shells. 18 Settembre 2000. Visibile nel sito Internet: www.ucsusa.org

xxxv BINAS News: StarLink Recalls Continue in USA, Novembre 2000. Visibile nel sito Internet citato.

xxxvi BINAS NEWS: Many US Grain Elevators Received Starlink Maize, Novembre 2000. Sito Internet citato.

xxxvii Ewen S., Pusztai A., Effects of Diets Containing Genetically Modified Potatoes Expressing Galanthus nivalis Lectin on Rat Small Intestine. The Lancet 354, n. 9187, 16 ottobre 1999.Visibile nel sito Internet "Genetically Manipulated Plants Used for Food": http://plab.ku.dk/tcbh/Pusztaitcbh.htm

xxxviii R. Horton, in "‘GM Food debate’ Several Letters re: the Pusztai ed Ewen publication". The Lancet 354, n. 9191, 13 novembre 1999. Visibile nel sito Internet "Genetically Manipulated Plants Used for Food": http://plab.ku.dk/tcbh/Pusztaitcbh.htm



xxxix Lean G., How I told the truth and was sacked. Indipendent, 8 marzo 1999. Riportato in Clark A., Genetic Engineering in Field Crops: Ethics and Academia, visibile nel sito www.oac.uoguelph.ca/www/CRSC/faculty/eac/ethics.htm

xl Masood E., Nature 398, 98, 1999.

xli Millstone E., Brunner E., Mayer S., Beyond ‘substantial equivalence’. Nature 401, 525-526, 1999.

xlii Vedere a questo proposito l’intervento del Prof. M. Buiatti (Dipartimento di biologia animale e genetica dell’Università di Firenze) alla XII Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati. Indagine conoscitiva sulla sicurezza alimentare. Roma, 13 giungo 2000. Egli afferma, tra l’altro, "…bisogna interferire con il metabolismo della pianta, non inserire geni dal di fuori, ma modulare i geni dall’interno…. Cambiare il metabolismo della pianta però è difficile, perché il metabolismo, sia quello delle piante che quello dell’uomo, è una rete molto equilibrata che si è coevoluta, di azioni e reazioni e così via…Ciò significa che se un ingegnere genetico immette tutto a un tratto dentro una pianta un gene completamente nuovo o blocca una parte del metabolismo, si ha una ripercussione molto pesante sul metabolismo della pianta…. Dietro tutto ciò, a mio avviso, vi è quindi anche una strategia di ricerca sbagliata….". Visibile nel sito Internet http://www. rfb.it

xliii A. Falaschi (membro del direttivo del CNR e direttore dell’ICGEB di Trieste), intervento alla XII Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati. Indagine conoscitiva sulla sicurezza alimentare. Roma, 13 giungo 2000. Visibile nel sito Internet http://www. rfb.it


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