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Dalla Casa Bianca alla Exxon: la saga di Phil Cooney, il lobbysta che manometteva per Bush i rapporti sul clima

Come responsabile per il presidente delle analisi ambientali rimuoveva, aggiustava, cambiava dati scientifici e taceva allarmi. Scoperto dal Nyt si è dimesso. Ieri è stato assunto dal colosso petrolifero
17 giugno 2005
Sabina Morandi
Fonte: www.liberazione.it
17.06.05

, «Sono quattro anni che lavora duro e accumula ferie, e ora ha semplicemente deciso di passare l'estate con la famiglia. Si è dimesso per non pesare sui contribuenti, non certo per un articolo scandalistico del New York Times». Così dichiarava appena sabato scorso Dana Perino, portavoce della Casa Bianca cui era stato chiesto di commentare le dimissioni di Philip Cooney, funzionario di altissimo livello che venerdì notte ha lasciato improvvisamente l'importante carica di responsabile del Consiglio per la qualità ambientale dell'amministrazione Bush. Probabilmente l'atmosfera in casa Cooney non è così idilliaca se le vacanze in famiglia si sono concluse in meno di una settimana. Ieri mattina, infatti, l'ex funzionario è stato assunto dalla ExxonMobil, il più grande colosso petrolifero del mondo. Degna conclusione per una vicenda imbarazzante ma nient'affatto originale che dimostra, una volta di più, la disinvoltura con la quale il complesso petrolifero utilizza il sistema delle "porte girevoli", espressione americana coniata per descrivere il va e vieni degli uomini dell'industria, prestati agli incarichi governativi per curare gli interessi dei loro veri padroni, per poi tornare rapidamente all'ovile quando l'atmosfera si fa un po' troppo tesa.

Philip Cooney è un vero esperto di porte girevoli, come buona parte degli uomini - e donne - del clan Bush. Come il vicepresidente Cheney o la severa Rice, anche il suo passato puzza inequivocabilmente di petrolio. Avvocato senza alcuna preparazione scientifica, Cooney è stato fino al 2001 a capo del "climate team", la "squadra climatica" dell'American Petroleum Institute, benemerita associazione appositamente istituita per favorire gli interessi delle corporation del petrolio e, nel caso specifico, per frenare ogni iniziativa che possa limitare in qualunque modo le emissioni responsabili del riscaldamento globale. Le grandi industrie petrolifere statunitensi, infatti, non si limitano a contribuire direttamente al riscaldamento globale attraverso la produzione e la raffinazione dei combustibili fossili, ma accelerano la dinamica del cambiamento climatico in altri modi, per esempio utilizzando il loro potere politico ed economico per prevenire la trasformazione tecnologica e per mantenere lo status quo attraverso un'attiva campagna acquisti dei media, degli scienziati e perfino degli scrittori - come si spiega altrimenti la conversione di Crichton? Per capire come funziona questa virtuosa istituzione direttamente finanziata dai colossi degli idrocarburi, basta dare un'occhiata a un documento interno, datato 1998, nel quale veniva esplicitamente enunciata la strategia dell'American Petroleum Institute nei confronti del riscaldamento globale: «si tratta, in sostanza, di investire milioni di dollari per massimizzare l'impatto di visioni scientifiche favorevoli ai nostri interessi». E naturalmente Exxon, Shell, Chevron, BP e compagnia, hanno subito messo mano ai portafogli.

Nemico numero uno dell'American Petroleum Institute è l'Intergovernmental Panel on Climate Change delle Nazioni Unite, un gruppo di lavoro composto da centinaia di autorevoli scienziati di ogni paese che, dopo anni di prudenze e cautele, nel 2001 sono giunti a una categorica conclusione: per stabilizzare il C02 ai livelli attuali bisogna tagliare le emissioni del 60 per cento, cosa che si può fare soltanto bloccando il consumo di combustibili fossili e puntando decisamente sulle energie alternative. Alle dichiarazioni del Panel si sono aggiunte quelle delle più importanti società scientifiche del pianeta, dalla Royal Society britannica alla National Academy of Sciences statunitense, che hanno di fatto sottoscritto l'appello. Dopo gli scienziati è stata la volta della Banca Mondiale, o meglio del suo Extractive Industries Review, appositamente istituito per esaminare l'impatto ambientale e sociale dei combustibili fossili. Il rapporto è stato immediatamente seppellito in un cassetto quando è risultato chiaro che dava sostanzialmente ragione agli ambientalisti e ai movimenti delle comunità locali, che denunciano da anni l'impatto devastante dello sfruttamento petrolifero.

Visto che ai tempi del suo insediamento tirava una brutta aria, all'amministrazione più petrolifera del paese più inquinante del mondo serviva uno che se ne intendeva - non di clima né di atmosfera, intendiamoci, ma di trucchetti legali, pressioni, omissioni e relazioni con i media. Chi meglio del capo della squadra climatica dell'American Petroleum Institute, con alle spalle anni di esperienza nello smantellare o almeno nel ritardare ogni possibile misura all'interno delle Nazioni Unite? Dal punto di vista della junta petrolifera non c'era davvero nessuno più qualificato di Philip Cooney per revisionare i rapporti sulla qualità ambientale per conto della Casa Bianca. Così, nel corso del 2002 e del 2003, mister Cooney ci ha dato dentro a rimuovere, aggiustare, cancellare e ammorbidire i rapporti sul clima tagliando una frase qui, aggiungendo un "probabilmente" lì, e in sostanza utilizzando ogni artificio da azzeccagarbugli per trasformare una certezza scientifica ormai data per acquisita - il fatto che il riscaldamento globale è in pieno corso e viene alimentato dal consumo di combustibili fossili - in un'ipotesi teorica tutta da dimostrare. Scopo finale della manipolazione era, ovviamente, fornire uno straccio di giustificazione al rifiuto di Bush di mettere in atto qualsivoglia misura di risparmio energetico o di riduzione delle emissioni inquinanti.

La settimana scorsa, però, qualcosa è andato storto. Grazie al lavoro della Government Accountability Project, una piccola organizzazione nata per aiutare i pentiti dell'amministrazione a denunciare le malefatte governative, Rick S. Piltz è uscito allo scoperto e ha raccontato qual era il metodo per confezionare i documenti governativi utilizzato nell'ufficio di Cooney, dal quale si era dimesso nel marzo scorso. La ong, che fornisce assistenza legale alla "gola profonda", ha contattato il New York Times e, con l'approvazione del suo assistito, ha reso noto il notevole peso degli interventi editoriali di Philip Cooney, illustrandoli con tanto di note autografe. Naturalmente si trattava del segreto di pulcinella, visto che qualsiasi giornalista degno di questo nome avrebbe potuto risalire alle inesattezze e al colpevole confrontando i rapporti della Casa Bianca con quelli dei climatologi, ma vedere stampate nero su bianco correzioni e commenti, ovviamente, fa un certo effetto. Effetto che si è tradotto, come spesso in questi casi, nelle dimissioni "vacanziere" del funzionario di turno.

Il futuro di mister Cooney, comunque, non potrebbe essere più roseo. Il suo nuovo padrone - sempre ammesso che sia davvero nuovo, cosa tutt'altro che facile da dimostrare - è un mega-super-colosso da 210.392 milioni di dollari di profitti l'anno (dati del 2000, ora le cose vanno notevolmente meglio) nato dalla fusione della Exxon (ex-Standard Oil del New Jersey) e della Mobil (ex Standard Oil di New York). Se la corporation venisse inserita in un elenco comprendente anche i paesi sarebbe al ventunesimo posto fra le nazioni più ricche del mondo, con un Pil che supera di parecchie lunghezze quello della Turchia, dell'Austria e di Hong Kong. Inutile dire che la suddetta compagnia si distingue in negativo per l'impegno ecologico. Dopo avere rovinato le coste dell'Alaska negli anni Ottanta, ExxonMobil è quella che investe meno per la ricerca sulle fonti rinnovabili alla quale, sia pure soltanto per motivi d'immagine, le altre "sorelle" riservano almeno qualche spicciolo. E questo malgrado abbia raggiunto quest'anno profitti da record, grazie alle generose sovvenzioni governative, all'impennata dei prezzi del petrolio e alle guerre dell'amico Bush.

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