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Il pianeta si scalda, ma i parecchi segnali evidenti di crisi non scoraggiano i più spudorati cementificatori dello sprawl.

Voci che negano nel deserto

9 aprile 2007
Mike Davis

L’orso polare sul suo blocco di ghiaccio galleggiante che si assottiglia è diventato l’icona simbolo dell’urgenza riguardo all’irreversibile mutamento climatico e riscaldamento globale. Anche i personaggi di basso profilo della Casa Bianca adesso riconoscono che i magnifici orsi potrebbero essere condannati all’estinzione col mare di ghiaccio che si scioglie e l’Oceano Artico che si trasforma per la prima volta da milioni di anni in un azzurro mare aperto. Il “grande esperimento geofisico” dell’umanità, come l’ha tratteggiato l’oceanografo Roger Revelle nella curva in brusca ascesa delle emissioni di anidride carbonica, ha strappato la natura alle sue fondamenta del Neocene, nelle zone attorno al circolo polare.
Ma non è soltanto l’Artico ad essere teatro di spettacolare e indubitabile cambiamento climatico, né gli orsi polari unici araldi della nuova era del caos. Vediamo per esempio alcuni lontani parenti dell’ Ursus maritimus: gli orsi neri che si abbuffano felici quanto minacciosi nelle fantastiche Chisos Mountains del Big Bend National Park in Texas. Potrebbero essere i messaggeri di una trasformazione delle Borderlands quasi altrettanto drastica di quella che sta avvenendo in Alaska o Groenlandia.
Camminando sulla via dello Emory Peak in una giornata innaturalmente calda del gennaio 2002, quando nei pensieri ancora incombevano le immagini apocalittiche del precedente [11] settembre, ho fatto la casuale conoscenza di un buffo e innocuo giovane orso in un campo di sosta. Le apparizioni degli orsi sono sempre un pochino magiche, e al momento ho pensato che si trattasse della conferma di una natura selvaggia ancora in gran parte intatta. In realtà, come ho ascoltato sorpreso da un ranger il giorno dopo, quel giovane orso era, per così dire, un mojado: progenie di recenti immigrati clandestini dall’altra sponda del Rio Grande.
Gli orsi neri erano comuni nelle montagne Chisos quendo queste erano la quasi mitica fortezza naturale degli incursori Apache Mescalero e Comanche fra il XVI e XVII secolo, ma gli allevatori li hanno senza posa cacciati sino all’estinzione, all’inizio del XX secolo. Poi, quasi miracolosamente nei primi anni ‘80, gli orsi sono ricomparsi fra le madrone e i pini di Emory Peak. Biologi esterrefatti hanno ipotizzato che fossero immigrati dalla Sierra del Carmen a Coahuila, attraversando a nuoto il Rio Grande e poi sessanta chilometri di deserto arroventato come una fornace, per raggiungere i Chisos, terra promessa di inoffensivi cervi e abbondante spazzatura.

Come i giaguari che si sono ristabiliti recentemente nelle montagne di confine dell’Arizona, o per altri versi il succhiasangue chupacabra del folklore ispanico che si dice sia stato avvistato nei sobborghi di Los Angeles, gli orsi neri fanno parte di una epica migrazione, di vita selvaggia così come di esseri umani, al otro lado. Anche se nessuno sa esattamente perché orsi, grossi felini e leggendari vampiri si stiano spostando a nord, un’ipotesi plausibile è che stiano adattando le proprie posizioni e popolazioni a una nuova era di siccità fra il nord del Messico e il sud-ovest degli USA.
La questione umana è definite in modo piuttosto netto: i ranchitos abbandonati e le città quasi fantasma in Coahuila, Chihuahua e Sonora testimoniano l’ininterrotta sequenza di annate di siccità – a partire dagli anni ’80, ma con vera intensità catastrofica alla fine dei ’90 – che ha spinto centinaia di migliaia di poveri delle campagne verso le fabbriche del lavoro nero di Ciudad Juárez e i barrios di Los Angeles.
Nel giro di qualche anno, la “siccità eccezionale” ha avvolto tutte le pianure dal Canada al Messico; in altri anni, le grandi macchie scarlatte sulle carte meteorologiche sono strisciate giù lungo la Costa del Golfo fino alla Louisiana o hanno scavalcato le Montagne Rocciose per raggiungere l’interno nord-occidentale. Ma gli epicentri quasi fissi sono rimasti i bacini del Colorado e del Rio Grande, e il nord del Messico.
Nel 2003, ad esempio, il lago Powell era calato di 25 metri in tre anni, e altri bacini essenziali lungo il Rio Grande erano ridotti a poco più di pozzanghere fangose. Contemporaneamente, l’inverno del 2005-2006 nell’area del sud-ovest è stato uno dei più secchi mai registrati, e a Phoenix non è caduta una goccia di pioggia per 143 giorni. Le rare interruzioni in questa siccità, come quel diluvio universale della scorsa estate (in alcune zone di El Paso sono caduti incredibilmente novanta centimetri di pioggia), non sono state sufficienti a ricaricare adeguatamente le falde o a riempire i bacini, e nel 2006 sia Arizona che Texas hanno riportato le peggiori perdite nelle colture e allevamenti di tutta la loro storia (complessivamente 7 miliardi).
La siccità costante, come il ghiaccio che si scioglie, riorganizza rapidamente gli ecosistemi e trasforma interi paesaggi. Senza umidità sufficiente a produrre la linfa protettiva, milioni di ettari di conifere pinyon e ponderosa sono stati devastati dalle invasioni degli scarafaggi della corteccia; le foreste morte, a loro volta, hanno provocato gli enormi incendi che si sono estesi sino ai sobborghi di Los Angeles, San Diego, Phoenix e Denver, distruggendo anche parti di Los Alamos. In Texas sono bruciate le praterie – quasi 800.000 ettari solo nel 2006 alone – e con la crosta superficiale di terra soffiata via dal vento, la prateria si trasforma in deserto.

Alcuni climatologi non esitano a definire tutto questo una “mega-siccità”, addirittura la “peggiore da 500 anni”. Altri sono più cauti, non ancora sicuri che l’attuale aridità del West abbia superato le famigerate soglie degli anni ’30 (la Dust Bowl nelle pianure meridionali) o degli anni ’50 (la devastante siccità del sud-ovest). Ma forse il dibattito non coglie esattamente la questione: Le ricerche più recenti e autorevoli rilevano come il “ rosso di sera all’ovest” (per evocare lo straordinario sottotitolo del libro di Cormac McCarthy, Blood Meridian) non sia un caso di siccità episodica, ma il nuovo “tempo normale” della regione.
In una sconvolgente testimonianza resa al National Research Council lo scorso dicembre, Richard Seager, geofisico esperto al Lamont Doherty Earth Observatory della Columbia University, ha avvertito che tutti i principali operatori di modelli climatici del mondo stavano ricavando i medesimi risultati dai propri computer: “Secondo i modelli, nel sud-ovest una condizione climatica simile a quella della siccità degli anni ’50 diventerà il nuovo clima corrente, nel giro di qualche anno, o decennio”.
Questa straordinaria previsione – “l’imminente prosciugarsi del sud-ovest USA” – è un prodotto collaterale del monumentale sforzo di elaborazione costruito da diciannove singoli diversi modelli climatici (come quelli simbolo di Boulder, Princeton, Exeter e Amburgo) per il Quarto Rapporto dello Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC).
Lo IPPC, naturalmente, è la corte suprema delle scienze del clima, istituito dalle Nazioni Unite e dall’Organizzazione Meteorologica Mondiale nel 1988 per valutare le ricerche sul riscaldamento del pianeta e i suoi impatti. Anche se adesso riconosce riluttante che come afferma lo IPCC l’Artico si sta rapidamente sciogliendo, il Presidente Bush probabilmente non ha ancora recepito la possibilità che il suo ranch di Crawford possa qualche giorno trasformarsi in una duna di sabbia.

I climatologi che studiano gli anelli di crescita delle piante e altre forme di archivi naturali, sono da tempo ben consapevoli che il sistema del trattato Colorado River Compact del 1922, distributore di acque verso le oasi in corso di urbanizzazione del sud-ovest, si basa su un rilievo del flusso del fiume di 21 anni (1899-1921) che, lungi dal rappresentare una media, in realtà è un’anomalia per eccesso d’acqua da almeno 450 anni. Più recentemente, si è cominciato a capire come continue Niñas (episodi di freddo nel pacifico equatoriale orientale) possano interagire con correnti calde nel Nord Atlantico subtropicale, a generare siccità nelle pianure e nel sud-ovest che possono durare per decenni.
Ma, come ha sottolineato Seager a Washington, le simulazioni dello IPCC indicano qualcosa di molto diverso dai soli episodi catalogati nel Lamont's North American Drought Atlas (compendio aggiornato di registrazioni dagli anelli di crescita degli alberi, dal 2 a.C. ad oggi). In modo inatteso, è la base climatica stessa, non solo alcune perturbazioni, che si sta modificando.
In più, questo brusco passaggio a un nuovo clima più estremo (“diverso da qualunque altro nello scorso millennio e probabilmente nell’Olocene”) non scaturisce da fluttuazioni nelle temperature degli oceani, ma da “schemi modificati circolazione atmosferica e movimenti di vapore acqueo, che si verificano come conseguenza del riscaldamento dell’atmosfera”. In sintesi estrema, i territori aridi diventeranno ancora più secchi, le zone umide ancora più umide. E il prosciugarsi del West si accompagnerà a temperature da fornace: il nuovo rapporto IPCC contiene l’incredibile previsione secondo cui le temperature nell’ovest americano aumenteranno in media di 9 gradi Fahrenheit entro la fine di questo secolo.
Gli eventi Niña, aggiunge Seager, continueranno a influenzare le precipitazioni piovose nelle Borderlands, ma nascendo da una base più arida esse potrebbero produrre i peggiori incubi per il West: siccità delle dimensioni delle catastrofi medievali che hanno contribuito al noto collasso delel società Anasazi a Chaco Canyon e Mesa Verde nel XII secolo (a peggiorare ulteriormente le cattive notizie che ci arrivano dai super-computer, si prevede una maggiore aridità anche per Mediterraneo e Medio Oriente, dove le forti siccità sono storicamente ben noto sinonimo di guerra, grandi migrazioni di popolazione e sterminio etnico).

E pure il semplice annuncio scientifico, anche col rombare unanime del tuono di 19 modelli climatici, probabilmente non sarà causa di molto turbamento sui campi da golf suburbani di Phoenix, dove uno stile di vita lussuoso consuma 2.000 litri d’acqua pro capite al giorno. Né fermerà le ruspe che danno forma alle mostruose fasce urbanizzate suburbane di Las Vegas (si prevedono 160.000 nuove abitazioni) lungo la statale 93 su tutto il percorso fino a Kingman, Arizona. Né, nonostante il possibile esaurimento per prelievo della grande falda di Ogallala, riserva d’acqua sotterranea che comprende otto stati nelle Grandi Pianure, si impedirà al Texas di raddoppiare la propria popolazione entro il 2040.
Anche se di recente si lanciano molti slogan su “ smart growth” e uso attento delle acque, i costruttori del deserto continuano a sfornare a raffica lottizzazioni “ dumb” nel modo ambientalmente inefficiente che ha devastato la California meridionale per generazioni. La carta vincente del pensiero liberista del sud-ovest, tra l’altro, è che la gran parte dell’acqua immagazzinata dai sistemi del Colorado e Rio Grande è ancora usata per alimentare l’agricoltura.
Anche se il “picco di disponibilità idrica” se ne è già andato da un pezzo, lo sprawl del deserto si può sostenere nel medio termine uccidendo cotone e alfalfa, e i grandi coltivatori si arricchiscono vendendo la propria acqua sovvenzionata dal governo federale agli assetati suburbi. Un prototipo di questo tipo di ristrutturazione si può vedere nella Imperial Valley, dove San Diego ha acquisito in modo molto aggressivo dei diritti idrici. Come ha notato un attento viaggiatore aereo di recente, il risultato è che sono in aumento grandi quadri essiccati e morti, nella scacchiera di smeraldo della valle composta da alfalfa e meloni.
E guardando ancor di più al futuro, c’è anche l’opzione “saudita”. Steve Erie, professore della Università della California di San Diego che ha molto scritto sulle politiche per l’acqua nella regione, mi ha raccontato che i costruttori del deserto del sud-ovest e di Baja California confidano di poter sostenere il boom demografico con una buona fornitura d’acqua convertendo quella del mare. “Il nuovo mantra degli organismi di controllo idrico naturalmente è quello di incentivare conservazione e recupero, mai rapaci costruttori stanno puntando i loro avidi occhi sull’Oceano Pacifico, e all’alchimia della dissalazione, senza badare alle più perniciose conseguenze ambientali”.

In ogni caso, sottolinea Erie, mercati e politica continueranno a sostenere il medesimo modello di suburbanizzazione rampante ad alto impatto che ora asfalta e ricopre di centri commerciali migliaia di chilometri quadrati di fragile deserto nel Mojave, Sonora e Chihuahua. Stati e città, ovviamente, si faranno una concorrenza ancora più aggressiva sulla distribuzione dell’acqua, “ma, complessivamente, queste macchine della crescita hanno il potere di strappare l’acqua ad altri usi”.
L’acqua diventa più cara, e il peso dell’adeguamento al nuovo regime climatico e idrogeologico ricade su gruppi subalterni come i lavoratori agricoli (posti di lavoro persi per trasferimenti delle risorse idriche), i poveri delle città (che potrebbero facilmente vedere le bollette aumentare di 100-200 dollari al mese), piccoli allevatori (compresi molti nativi americani) e, specialmente, le popolazioni rurali in pericolo del Messico settentrionale.
In realtà, la fine dell’era dell’acqua a buon mercato nel sud-ovest – specialmente se coincide con quella dell’energia a basso costo – accentuerà livelli già elevati di disuguaglianza sociale e razziale, oltre a spingere altri emigranti a giocarsi la vita nella pericolosa traversata dei deserti di confine (non ci vuole molta fantasia per immaginarsi il prossimo slogan dei Minutemen: “Vengono a rubare la nostra acqua!”).
I politici conservatori di Arizona e Texas si faranno ancora più avvelenati ed etnicamente prevenuti, sempre che sia possibile. Il sud-ovest ha già seminato ovunque un violento “nativismo” che si può soltanto definire come proto-fascismo: nelle siccità future, potrebbe essere l’unico seme destinato a germinare.
Come indica Jared Diamond nel suo recente successo editoriale Collapse, gli antichi Anasazi non sono stati spazzati via semplicemente dalla siccità, ma dall’impatto di un clima arido non previsto, su un ambiente già supersfruttato, abitato da persone poco pronte a fare sacrifici rispetto al proprio “costoso stile di vita”. Alla fine, hanno preferito divorarsi gli uni con gli altri.

Note: Versione originale:
Mike Davis
Fonte: http://www.thenation.com
Link: http://www.thenation.com/doc/20070416/davis_2
03.04.2007

Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
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