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Il Sud dominato dall'estetica del brutto abusivo

Le responsabilità cominciano, certo, a partire da chi governa, da chi guida questi processi; ma poi si estendono a tutti, perché nascono da una mentalità diffusa.
29 settembre 2004
Marcello Veneziani

Appena nomini il Sud ti vengono in mente immagini dolenti: sudisti, sudditi, sudati, sudici. Sporchi e perdenti. L'infinito Sud del mondo dove abitano gli accaldati pezzenti dell'umanità: il Sud America dove si agitano i pacchiani coinquilini del piano di sotto degli States; il Sudest asiatico dove imperversano guerre, dispotismi e catastrofi; il Sud mediterraneo che coincide con la convulsa e infida arretratezza dei suk; il Sud Europa greculo, illirico e levantino dove abbondano i poveri, i basilischi e i disoccupati. E il Sud nostrano, detto Mezzogiorno perché divorato dal sole e dall'inerzia che ne consegue. Ma si è sempre meridionali rispetto ad altro; perfino l'estremo Nord d'Italia passa per Sud Tirolo e la Padania è la regione meridionale della Mitteleuropa, una specie di terronia austro-germanica. Il Sud a volte si vergogna di essere Meridione, vorrebbe togliersi dagli occhi e dalla pelle il marrone color terra che l'avvolge, fino a sognare di essere un Settentrione in via di sviluppo; vede l'Europa come il piano nobile verso cui arrampicarsi, l'attico da cui si vede meglio il mondo e il tempo, abitato da modelli e figure da imitare. Ma soprattutto come il luogo in cui affrancarsi dello statuto di vinto, che attiene al Sud.
Erano meridionali i Vinti secondo la letteratura. I vinti di Verga erano gente del Sud profondo; siciliani, poveri pescatori in cerca di fortuna in alto mare o al Nord, donne vestite di nero che aspettavano i loro mariti perduti nell'ignoto e nella tempesta, vecchi e giovani sconfitti, gli uni dal tempo che avanza e gli altri dal luogo che non avanza; e poi nobili decaduti e borghesi mai riusciti a compensare con la ricchezza la buona sorte di un'ascesa. Sconfitti dalla modernità, dal processo unitario, dal cambiamento. Entrati di malavoglia, è il caso di dire, nel presente. Cent'anni di letteratura dopo l'Unità d'Italia hanno rafforzato l'immagine del Sud come la terra dei vinti. Da Verga a Rocco Scotellaro, da De Roberto a Carlo Levi, da Tomasi di Lampedusa a Sciascia ed Alianello. Cristo si è fermato a Eboli ma si è arreso in tutte le strade del Sud; e i meridionali, signori stanchi come gattopardi o sudditi spremuti come uva puttanella, si rassegnavano al loro destino di vinti. Quelle pagine che cantavano la disfatta del Sud, il buio a Mezzogiorno, procedevano parallele all'emigrazione e al banditismo, al divario crescente dal Nord e al travaglio di una modernizzazione difficile, dove l'acquisto della ricchezza procedeva insieme all'impoverimento delle radici, quasi a segnare una fatale incompatibilità tra svi-luppo e cultura. Se vuoi vincere divieni ciò che non sei, sussurrano gli oracoli del Sud.

Ma quel Sud postunitario è solo la metafora di un pro-cesso più lungo nella storia e più largo nella geografia. Già Leopardi, prima dell'Italia unita, raccoglieva un'opinione consolidata nei tempi notando che la civiltà va progredendo da Sud a Nord. Ovvero si sposta l'asse della civiltà sempre più a settentrione. Dall'antico Egitto e Mesopotamia alla Grecia e poi a Roma, dopo a Madrid, quindi a Parigi e Londra, infine a New York. L'epicentro della civiltà si ritira verso il Nord. (...)
Il Sud è una terra schiacciata tra il fato e l'anarchia. Si osservano le leggi del Fato ma non quelle dello Stato. Così quando i terremoti o il fango, come accadde tra Sarno e Quindici, hanno sommerso centinaia di corpi e di case, la reazione è stata la maledizione contro la matrigna terra che il destino ha loro assegnato e contro il governo ladro, proverbiale responsabile delle piogge, remoto potere da cui si attendono solo soprusi o favori, mai regole e garanzie. Dio e lo Stato ci hanno abbandonato, è il lamento antico del Sud ad ogni sconfitta. Da qui fatalismo e rivolta più che organizzazione e prevenzione.

A me fa male, da uomo del Sud senza vergogna, dover ammettere che le calamità naturali si accumulano alla calamità meridionale: la convinzione che si debba costruire la propria vita a scapito del resto, dell'ambiente, delle leggi, degli altri, eccetto i propri famigliari e affini. Pereat mundus, purché ci salviamo noi. Questa è la malattia del Sud, la disperata speranza dei vinti che vogliono scaricare la sconfitta su ciò che li circonda, credendo in tal modo di affrancarsene. Questa mentalità non riguarda solo l'uso selvaggio del territorio, le costruzioni e le attività abusive, l'indole parassitaria e la richiesta petulante di provvidenze. Ma si allarga al modo di vivere e di crescere a spese dell'ambiente che ci ha generati: emanciparsi a Sud vuol dire costituirsi parte civile contro la madre terra. Certo, vi sono ammortizzatori pubblici e sociali per il Sud che servono per non gettare nella disperazione o nella criminalità migliaia di famiglie, anche se poi disperazione e criminalità spesso orientano queste distribuzioni di protezioni e sostegni. Ma è la filosofia che le anima ad essere bacata: salvare l'uomo, la famiglia, la tribù mandando in rovina l'habitat; scaricando sul contesto il peso della sconfitta o della disgrazia.

L'avanzata di questa mentalità ha un suo vistoso e mostruoso biglietto da visita: il dominio estetico del brutto, anzi il brutto edificato con contributo pubblico o con pubblica omertà; oltreché il brutto abusivo, alle spalle della collettività. Nella convinzione che il brutto sia più economico e più funzionale, mentre la bellezza sarebbe un lusso inutile. Primum vivere. Che importa degli alberi e del paesaggio; è più comodo, più pratico il plexiglas e il cemento. E invece il bello non è sempre e solo un lusso inutile, risponde ad un'armonia fondata sull'equilibrio con l'ambiente, sul rispetto di alcune leggi di natura, che non si possono eludere impunemente come quelle dello Stato. Perché sono più inflessibili, più inesorabili, ricadono su chi le viola. Il bello è perfino un deterrente contro la criminalità, non c'è degrado urbano che non faccia da grembo del degrado umano.

È arrivata una cattiva modernità al Sud, nel Sud d'Italia e del mondo. Una modernità schizoide, impiantata sulla miseria arraffona. Comfort e ignoranza. Il contadino o il marinaio, benché vinto, viveva inserito in un ecosistema, che in fondo rispettava perché si sentiva parte di un circuito cosmico, di una catena vitale e alimentare. La coltura implica la coltivazione, che non solo per modo di dire somiglia alla cultura e che stabilisce un'osmosi con l'origine, con il seme, con il grembo della terra. Ma quando il contadino per smettere di perdere smette di coltivare e vuol subito sfruttare, e passa di colpo dalla preistoria pasoliniana alla modernità, senza gradualità e anticorpi, senza acquisire un rapporto urbano con il territorio, senza attrezzarsi di una cultura adeguata a quel passaggio, allora il suo impatto diventa devastante. Nasce la peggiore barbarie, che non è l'arretratezza ma l'uso selvatico della modernità e dei suoi attrezzi, delle sue potenzialità; senza relazione con il tessuto di provenienza. Il cemento innalzato sul fango, le costruzioni raffazzonate, i lavori inesistenti, la sostituzione degli alberi con le antenne paraboliche. Come i poveri affamati di una volta che morivano d'indigestione o di strafocamento quando avevano la possibilità di abbuffarsi in un'occasione speciale.

Le responsabilità cominciano, certo, a partire da chi governa, da chi guida questi processi; ma poi si estendono a tutti, perché nascono da una mentalità diffusa. La classe dirigente del Sud di oggi ha fatto rimpiangere l'antico notabilato meridionale, pur gonfio di difetti, privilegi e storture. Ha demolito l'equilibrio di un sistema feudale, che confinava con il padrinato e sconfinava a volte nell'onorata società, edificando un non sistema peggiore del precedente, fondato su due ingredienti: servilismo clientelare verso il potere e liberismo selvaggio verso il proprio habitat, ridotto a terra di nessuno. Controllo sociale, non controllo territoriale. Controllo sulle persone e sul loro consenso, non sul paesaggio e sugli assetti urbani; rapporto di dipendenza e provvidenza, non di coltivazione e creazione. Col risultato di far rinascere su altre basi, più dispotiche, le vecchie forme di feudalesimo e di associazioni a delinquere.
Questo è il Sud, una corda tesa tra Maastricht e Sarno. E in mezzo l'abisso. Italoshima, direbbe Ceronetti, descrivendo la catastrofe ambientale del Paese con le parole di Teognide: «L'abbandono dei limiti e dei freni è il primo male che un dio manda all'uomo che vuole annientare». L'hybris nasce dall'albero dei vinti che pensano di salvare le foglie e i rami tagliando il tronco. Il Sud perde quando non è comunitario.

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