Chi ha paura degli Stati Uniti d'Europa ?

Riflessione sul futuro dell'UE. Nonostante il no irlandese al Trattato di Lisbona l'opinione pubblica europea è sempre in attesa di un progetto che sia all'altezza del momento.
7 luglio 2008
Michele Ballerin (segretario Mfe Cesenatico)

Da qualche tempo si può riscontrare, anche in seno ai movimenti europeisti e persino federalisti, un certo vago timore a parlare di statualità europea. Dal momento che il tema di quanto "stato europeo" sia desiderabile appare ancora sfumato e sostanzialmente irrisolto, potrebbe essere utile rituffarsi per un momento nelle sorgenti del pensiero federalista e in particolare nelle pagine del Federalist - questo splendido saggio del limpido esprit settecentesco -, il testo che tenne a battesimo la neonata costituzione degli Stati Uniti d'America e i cui tre autori (Alexander Hamilton, John Jay e James Madison) vi teorizzarono per la primissima volta la necessità e il funzionamento di uno stato federale. Le argomentazioni del Federalist appaiono ancora oggi convincenti perchè, in primo luogo, non vi si temono le parole. Il discorso hamiltoniano consiste infatti nel fugare le inutili riserve dei sostenitori della confederazione "debole", cioè di chi a suo tempo avrebbe voluto, per le tredici colonie americane, l'unione senza le conseguenze dell'unione, o viceversa: i vantaggi della federazione senza le strutture e i vincoli federali. Ora io credo che la questione del grado di coesione che può e deve avere un'Europa politica possa essere impostata in termini, dopo tutto, molto semplici. Se si riconosce che determinate politiche in Europa devono essere comuni - se si riconosce all'Europa il compito storico di contribuire in misura determinante a gestire la globalizzazione affinché i singoli stati non siano obbligati a subirla, come oggi avviene, e se ci si rende bene conto di cosa questo significhi in concreto - allora si è già ammesso che ciò che si vuole è un governo europeo efficace. Ma un simile governo non può appartenere a uno stato debole o parziale. Al contrario: non può che essere parte costitutiva di uno stato quanto mai solido e compatto. La politica è certo anche l'arte delle nuances e delle cautele: pure, l'adagio secondo cui la prudenza non è mai troppa non le si applica. Non si può essere vaghi su questo punto. Conviene persuadersi che non saranno i governi europei, come non saranno i loro cittadini o qualsivoglia osservatore esterno a decidere quanto stato federale occorra in Europa: sarà il tipo di politica che le circostanze richiedono. Le circostanze richiedono con ogni evidenza una politica energica... Dunque serve uno stato che sia indubitabilmente tale, e che possa esprimere un governo in grado di agire - e di agire, quando verrà il momento, con forza e tempestività.

Io credo che non solo l'Europa abbia bisogno di istituzioni federali, ma che le occorrano istituzioni particolarmente robuste. Non si dimentichi che quando si parla di "stato europeo" si parla sempre e soltanto di stato di diritto, cioè di stato democratico e liberale. L'equazione "stato uguale Leviathan" non ha fondamento, e può essere lasciata ai fraintendimenti del pensiero anarchico. Chi a questo punto si intimidisce di fronte al paragone con il modello americano non ha ben chiari, temo, i termini del problema. Gli Stati Uniti sono il grado minimo della statualità che occorre per gestire problematiche globali. Non soltanto l'Europa dovrà essere in grado di fare politica quanto gli Stati Uniti, ma addirittura più e meglio di essi. Tale almeno dev'essere la posizione di chi resta persuaso che l'Europa abbia ancora, e più che mai, una missione storica - ed è superfluo specificare in quale accezione laica, "mazziniana" si usi qui questo termine, che pare fatto anch'esso per suscitare timori in chi è facile al timore. E' innegabile che le nazioni europee si sentono ancora troppo "nazioni" per sposare una simile prospettiva, per accettare l'idea degli Stati Uniti d'Europa. Ma se i cittadini europei si inquietano di fronte ad essa, è un'inquietudine che non dev'essere necessariamente condivisa, e tanto meno da chi ha chiari i termini della questione europea: sempre che non si finisca per preferire, dopo tutto, il rassicurante ruolo della retroguardia. Forse è giunto il momento di rivolgersi all'opinione pubblica europea e sottoporle, senza sconti e mezze parole, il seguente dilemma: vogliamo un governo che non possa governare? una politica senza un governo per attuarla? vogliamo la soluzione dei nostri problemi senza gli strumenti per realizzarla? vogliamo mezzo governo - un terzo di governo - un quarto - quanto dunque? Perchè a tanto governo dovrà corrispondere tanto stato. Se siamo in vena di interrogativi amletici quello che in definitiva dovremmo porci è semplice: quale e quanto stato sarebbe occorso per gestire vent'anni fa la crisi dei Balcani? quale e quanto per la recente vicenda kosovara? La risposta a questi interrogativi sarà anche - precisa quanto si può desiderare - la soluzione del nostro problema. E' bene non dimenticare che una porzione consistente dell'opinione pubblica è pur sempre in attesa di un progetto che sia all'altezza del momento: rivolgersi ad essa parlando a voce alta e chiara, non mormorare a mezza voce per rassicurare i pavidi, è ancora e sempre il compito di chi ha compreso bene e a fondo la necessità dell'unità europea e ne ha fatto la propria battaglia politica.

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