L'Europa, un sogno in comune

Rassegna sulle carenze del trattato che istituisce una Costituzione europea visto come un processo, sperabilmente, irreversibile, che richiede un lavoro presente e futuro che non ne accetti i limiti attuali come ineluttabili.
26 ottobre 2004
Carla Casalini
Fonte: Il Manifesto - 24 ottobre 2004

Facciamo tesoro di quel «sogno europeo» capace di tracciare una differenza nel mondo globalizzato, che ci viene accreditato come futuro possibile nelle nostre mani - da ultimo nelle parole fluenti di un liberal d'oltratlantico, Jeremy Rifkin. E non dimentichiamo l'ammonimento di Cervantes sul sogno, che se dal singolo fantasticare si traduce in qualcosa «sognato da tanti», in comune, allora indica l'inizio di un cammino di immaginazione e produzione di un'altra realtà. Ci serve, questa bisaccia da viaggio, per guardare con occhi aperti il paesaggio disegnato dal Trattato per una Costituzione europea, che i leader dei governi nazionali si apprestano a firmare a Roma venerdì prossimo. Non ci sono passioni di futuro a innervare il testo prodotto a Bruxelles. Una Carta indigeribile, che riconsegna dunque il compito politico di un sogno di trasformazione da far agire nel terreno d'Europa ai suoi «cittadini», ai protagonisti delle organizzazioni sociali, dei movimenti, a un'opposizione capace di confliggere per aprire un'altra strada. Abbandonando quella sorta di contemplazione rassegnata della sua inevitabilità, così presente nelle esortazioni di commentatori, intellettuali e politici - pur consapevoli e critici dei suoi limiti.

Forse sarebbe più utile, non che felicitante, tentare di rifiutarne fin d'ora con energia il rischio che venga accreditata come una Costituzione compiuta: consideriamola in progress, una via aperta, proponiamoci da subito i percorsi, i conflitti necessari per modificarla - consigliano piuttosto, saggiamente, voci non sparute di pur convinti «europeisti». Così come si suggerisce che, a modificare la Carta, una volta approvata, servirebbe anche la capacità e l'immaginazione di forme che ha caratterizzato la storia del costituzionalismo europeo, a partire dalla cancellazione di quel che nel testo è previsto per eventuali processi di «revisione»: lasciati saldamente nelle mani dei governi nazionali. E invece pensare come rendere pregnante quella breccia sul piano formale aperta dal testo quando indica la possibilità «su iniziativa di almento un milione di cittadini dell'Unione» di «invitare» la Commissione a presentare proposte ritenute necessarie «ai fini dell'attuazione della Costituzione».

Eppure sarebbe non l'Europa degli Stati, bensì l'«Europa dei cittadini», quella che la Carta pretende di definire: a disvelarne la realtà sotto le parole di principio, basta constatare che la «cittadinanza europea» è declinata come puro prolungamento della cittadinanza «nazionale», escludente perciò i milioni di «residenti» che pure da anni abitano i paesi europei, essendovi approdati da altre terre. E vani sono stati i tentativi di far cambiare questa definizione, pur presenti fin dalla discussione sull' elaborazione del Trattato.

La figura del «migrante» è, in tutto il testo, prova di verità delle pretese dei «valori di civiltà», «democrazia», che la Carta presume connaturati all'Europa - vi si pretende una sorta di principio di superiorità, che conclude nel compito di «esportare» tali valori (parole che oggi possono suonare sinistre).

Esclusi per definizione dal titolo di «cittadini europei», i migranti sono destinatari piuttosto delle politiche di «sicurezza» dell'Unione, evocando un movimento di esclusione, sia all'interno degli stati nazionali - titolo di cittadino di serie B -, sia alle «frontiere» d'Europa. Smentite, nella lettera della Carta, sono le ambizioni di disegnare un'Europa come identità-crocevia, per altro suggerita dalla sua stessa storia - dove le «frontiere» sono state continuamente mobili e ridefinite, ovviamente, da decisioni politiche.

Smentito perciò, al momento, come suggerisce tale impianto, anche l'intento di una traccia europea differente proiettata nel travagliato orizzonte della globalizzazione. La pace già vi compare pallida, non sostenuta da quel «ripudio della guerra», pur suggerito, ma non accolto nel testo. E alla pace come «obiettivo» si accosta la legittimazione di missioni anche di carattere «militare» - già sancita la creazione di un'Agenzia per gli armamenti - di «prevenzione» dei conflitti, lotta al terrorismo e altri fini , «anche sul territorio di stati terzi».

Viceversa nessuna concreta predisposizione di una politica che nella «cooperazione internazionale» si volga a obiettivi di «giustizia» nel mondo segnato da povertà vecchie e nuove, emarginazione di milioni di persone. Anzi, la «cooperazione» deve servire a difendere nel mondo gli «interessi dell'Unione», e qui la Carta segue semplicemente la pratica concreta già agita dall'Unione europea in seno ad esempio all'Organizzazione mondiale del commercio.

D'altra parte l'impianto liberista è il filo che lega le «politiche» disegnate nella III Parte della Carta, messe a vincolo della «operatività» dei principi enunciati nelle prime due parti. Il principio cardine esplicitato è «l'economia di mercato aperta alla libera concorrenza», e solo se ad esso compatibili possono prevedersi alcune garnazie di tutela sociale. Il che ha fatto osservare maliziosamente a Etienne Balibar: «Il Progetto di Costituzione presenta in questo una analogia con le vecchie costituzioni delle 'democrazie popolari': la volontà di costituzionalizzare uno specifico regime economico-sociale».

Secondo il «principio cardine», perciò, gli Stati devono perseguire «stabilità dei prezzi», una «finanza» sostenibile, cui necessita che siano messi «sotto controllo i costi unitari del lavoro». L'occupazione si definisce obiettivo raggiungibile tramite «una forza lavoro adattabile», e i mercati del lavoro devono essere in grado di rispondere alla «competitività. L'integrazione dei diversi si stemi sociali è ridotta alle soglie «minime», come si può intuire: i «servizi» di «interesse generale non mercantile», come salute, scuola, comunicazione, protezione sociale, così come si è visto per i diritti del lavoro, non sono contemplati, ne consegue, come «priorità».

Una predisposizione incrudelita dopo l'allargamento, sol che si pensi alle condizioni diseguali dei nuovi stati membri nell'Europa centro orientale. Ma tant'è, quel che si perde è il nesso di libertà/eguaglianza, su cui tanti hanno riflettuto, scavando, nella costruzione di quel «modello sociale europeo» sorto dalla cultura e dal pensiero politico che ne ha individuato la sostanza democratica. Basta questa rassegna sui «punti» della Carta,per indicare che il processo di costruzione europea, ormai e sperabilmente irreversibile, richiede un lavoro presente e futuro che non ne accetti i limiti attuali come ineluttabili.

Note: http:\\www.ilmanifesto.it

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