Boicottiamo Tel Aviv

Contro l'escalation di violenza a Gaza occorre un movimento analogo a quello che ha sconfitto l'apartheid in Sudafrica. L'appello della scrittrice canadese.
6 febbraio 2009
Naomi Klein
Boicotta Israel È ora. Anzi, è già tardi. La strategia migliore per porre fine a un'occupazione sempre più sanguinosa è organizzare nei confronti di Israele un movimento globale di tipo analogo a quello che ha finito per sconfiggere l'apartheid in Sudafrica. Nel luglio 2005 una vastissima coalizione di gruppi palestinesi ha concepito un piano in questo senso, facendo appello a "chiunque abbia coscienza nel mondo, per imporre contro Israele boicottaggi su vasta scala e iniziative di disinvestimento, sul modello delle misure adottate contro il Sudafrica nell'era dell'apartheid". È nata così la Campagna per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni, nota con la sigla Bds. Ogni giorno il martellamento israeliano su Gaza fa affluire nuovi adepti alla causa Bds e lentamente il sostegno alla campagna si sta facendo strada anche tra gli ebrei israeliani. Nel pieno dei bombardamenti circa 500 israeliani, tra cui varie decine di noti studiosi e artisti, hanno inviato una lettera, con timbro postale di Israele, agli ambasciatori stranieri, chiedendo "l'adozione immediata di misure restrittive e sanzioni" e tracciando un chiaro parallelo con la lotta anti-apartheid. "Il boicottaggio del Sudafrica", hanno scritto, "si è dimostrato efficace. Mentre per Israele si usano guanti di velluto. Questo sostegno internazionale deve cessare". Molti però non se la sentono di aderire a questa posizione, per ragioni emotive, complesse e comprensibili. Ma anche non pertinenti. Nell'arsenale delle armi nonviolente le sanzioni economiche sono tra le efficaci, perciò rinunciare a usare questi strumenti rasenta la complicità attiva. Ecco i quattro principali argomenti contro la strategia Bds, seguiti dalle relative risposte: 1. Le misure punitive servirebbero solo ad alienarsi gli israeliani, che invece vanno conquistati alla causa. Dal 2006 si registra una continua esclalation dei comportamenti criminali di Israele: l'espansione degli insediamenti dei coloni, una guerra tracotante contro il Libano, la punizione collettiva del brutale embargo imposto a Gaza. Eppure contro Israele non si sono adottate sanzioni di nessun tipo, anzi, è avvenuto il contrario. Il pubblico in generale è al corrente delle forniture d'armi e degli aiuti, circa 3 miliardi di dollari l'anno, inviati dagli Usa a Israele. Meno noto è invece lo straordinario sviluppo dei rapporti diplomatici, culturali e commerciali di Israele con tutta una serie di altri Paesi alleati. Ad esempio, nel 2007 Israele è stato il primo Paese non latinoamericano invitato ad associarsi a Mercosur, il mercato comune dell'America meridionale. Nei primi nove mesi del 2008 le esportazioni israeliane in Canada sono aumentate del 45 per cento e si sta concludendo un nuovo accordo commerciale con l'Unione Europea per il raddoppio delle esportazioni di prodotti dell'industria alimentare israeliana. Infine, l'8 dicembre Israele ha ottenuto il potenziamento (upgrading) dell'accordo di cooperazione euro-israeliano (Eu-Israel Association Agreement), al quale anelava da tempo. È in questo contesto che i leader israeliani hanno scatenato la loro ultima guerra, confortati dalla certezza di non andare incontro a costi significativi. Una previsione che finora si è rivelata esatta. Di fatto, a poco più di sette giorni dall'inizio della guerra, l'indice della Borsa di Tel Aviv ha registrato un rialzo del 10,7 per cento. Il mondo ha tentato la via di quello che generalmente si definisce 'impegno costruttivo', ma ha fallito in pieno. No War 2. Israele non è il Sudafrica. No di certo. Ma il modello sudafricano è pertinente, in quanto dimostra l'efficacia di una tattica di pressione specifica quando altre misure meno incisive (come le proteste, le petizioni o le pratiche di lobbying) rimangono senza effetto. Detto questo, esistono tra i due paesi molti paralleli profondamente sconfortanti: i documenti di identità e di viaggio color-coded, l'abbattimento delle case a colpi di bulldozer, i trasferimenti forzati, le strade riservate ai coloni. Ronnie Kasrils, un autorevole politico dell'African National Congress, ha riferito di aver constatato nel 2007, in Cisgiordania e a Gaza, un'architettura della segregazione "infinitamente peggiore dell'apartheid". 3. Perché prendersela solo con Israele quando gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e altri paesi occidentali fanno le stesse cose in Iraq e in Afghanistan? Il boicottaggio non è un dogma, è una tattica. La strategia Bds va tentata contro Israele per ragioni pratiche, dato che in un Paese così piccolo e dipendente dagli scambi commerciali, ha buone probabilità di rivelarsi efficace. 4. Il boicottaggio blocca la comunicazione. Abbiamo bisogno di incentivare il dialogo, non di soffocarlo. A questo argomento vorrei rispondere con un aneddoto personale. Per quasi nove anni i miei libri sono stati pubblicati in Israele da una casa editrice commerciale, la Babel. Ma quando ho pubblicato 'The Shock Doctrine' ('La dottrina dello shock') ho deciso di rispettare il boicottaggio e su parere degli attivisti Bds, ho preso contatto con una piccola casa editrice, la Andalus, profondamente coinvolta nel movimento contrario all'occupazione. Si tratta, tra l'altro, del solo editore israeliano che si dedichi in via quasi esclusiva alla traduzione di testi arabi in ebraico. In base al contratto che abbiamo stipulato, tutti i proventi del libro saranno devoluti alla prosecuzione dell'attività della Andalus. A me non andrà neppure un centesimo. In altri termini, ho deciso di boicottare l'economia israeliana, non gli israeliani. Per portare avanti questo piano, decine di telefonate, di e-mail e di messaggi sono stati scambiati tra Tel Aviv, Ramallah, Parigi, Toronto e Gaza City. Ecco il punto: non appena si incomincia a porre in atto una strategia di boicottaggio, il dialogo si intensifica in modo impressionante. Nulla di più naturale: la costruzione di un movimento richiede infiniti scambi di comunicazioni, come ricorderanno bene molti di coloro che hanno partecipato alla lotta anti-apartheid. L'idea che il boicottaggio produca isolamento è quanto mai peregrina, data anche l'enorme disponibilità di tecnologie dell'informazione a basso costo e a portata di mano. Siamo addirittura sommersi dagli infiniti modi per inondarci di parole al di là dei confini nazionali. Nessun boicottaggio è in grado di fermarci. Su questo punto, sento già qualche fiero sionista cogliere lo spunto polemico per rivendicare che quei giocattoli high tech provengono in buona parte proprio dai centri di ricerca israeliani, leader mondiali nella tecnologia dell'informazione. D'accordo: in buona parte, ma di certo non tutti. Alcuni giorni dopo l'inizio dell'attacco israeliano contro Gaza, il manager di una delle società della British Telecom, Richard Ramsey, ha inviato a un'azienda del settore tecnologico israeliano, la MobileMax, la seguente e-mail: "In conseguenza della recente azione del governo di Israele non siamo più in condizioni di intrattenere rapporti d'affari con la vostra azienda, né con altre imprese israeliane". Contattato in proposito dalle autorità nazionali, Ramsey ha spiegato che le sue motivazioni non erano affatto politiche: "Non possiamo permetterci di perdere clienti. La nostra è una decisione difensiva e puramente commerciale". Vent'anni fa è stato proprio questo tipo di calcolo affaristico a indurre molte imprese a ritirarsi dal Sudafrica. Ed è precisamente in questo tipo di calcolo che riponiamo le nostre più realistiche speranze per portare finalmente alla Palestina una giustizia a lungo negata.

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