Latina

Brasile: Dietrofront Lula dopo le lacrime Il Brasile si divide

4 settembre 2005
Guido Piccoli
Fonte: Il Mattino



«Non mi suiciderò e nemmeno mi dimetterò». Dopo le lacrime che accompagnarono il mea culpa di un mese fa quando chiese perdono alla nazione per la corruzione del suo governo, per Luis Ignacio da Silva, detto Lula, è arrivato il momento della riscossa. «Avrò pazienza, pazienza e ancora pazienza fino a che la verità prevalga» ha detto il presidente durante un dibattito televisivo. La sua è sembrata comunque una sicurezza forzata. E questo nonostante abbia incassato la solidarietà della Confindustria, della Conferenza Episcopale e una sorta di tregua da parte dell'opposizione: nessuno in Brasile sembra volere la sua destituzione (l'economia, decisamente in ripresa, ne soffrirebbe troppo). E nonostante nelle strade delle grandi città, sfilino le prime manifestazioni in suo favore organizzate da un blocco sociale, che raggruppa persino l'Mst, i Sem Terra, che non hanno risparmiato accuse e critiche per la moderazione dell'ex leader sindacale. «Che legittimità ha un Congresso, dichiaratamente corrotto, di giudicare un Presidente per corruzione?» hanno gridato i leader sindacali durante comizi non particolarmente affollati. Tra i partecipanti molti inalberavano cartelli con la scritta «che se ne vadano tutti», uguali a quelli visti durante le proteste degli anni scorsi in Argentina. La paura diffusa nelle organizzazioni popolari è che dopo Lula ritornino «quelli di prima o quelli di sempre». Previsione più che probabile, suffragata dai sondaggi che danno Lula in calo di popolarità e perdente, se si tenessero adesso le elezioni presidenziali previste per l'ottobre prossimo, rispetto a Josè Serra, candidato socialdemocratico e attuale sindaco di San Paolo. La crisi del governo e del Partito dos Trabalhadores (PT) appare inarrestabile. Dal giorno in cui, due mesi fa, la televisione mostrò un video dove un dirigente delle poste intascava una mazzetta per favorire alcuni appalti, la valanga degli scandali è cresciuta con episodi di corruzione quasi quotidiani. Dalle denunce degli esponenti dei partiti governativi circa l'abitudine del PT di assicurarsi il loro voto con bustarelle mensili di trentamila real (circa diecimila euro) si è arrivati alla scoperta di conti segreti nelle isole Bahamas, passando per confessioni di truffe, sperperi, tangenti e vari altri delitti. La spirale di accuse e sospetti ha travolto tutto lo staff di Lula, provocando le dimissioni di Josè Dirceu, il suo superministro più vicino, oltre al presidente, il segretario e il tesoriere del PT, e arrivando a sfiorare il potente e ultramoderato ministro delle Finanze, Antonio Paolocci. La difesa di Lula, che giura di essere all'oscuro del marcio che gli stava intorno, non convince affatto l'opposizione, che ha chiesto, per bocca dell'ex presidente Fernando Cardoso, come possa «un cieco dirigere un paese come il Brasile». Ma neppure la popolazione: quella ricca, che non si è mai fidata di lui e aspetta di vederlo bruciare a fuoco lento, e la stragrande maggioranza povera, che non ha visto mantenuta quasi nessuna delle promesse che Lula fece nel 2002. «Che i nuovi governanti abbiano rubato è quasi meno grave del fatto che abbiano tradito la speranza di una societa diversa» ha scritto l'analista Hanz Dieterich. Non è un caso che ad essere preoccupati della crisi brasiliana, siano anche i dirigenti delle istituzioni finanziarie internazionali e delle multinazionali che hanno avuto in Lula un alleato e un esecutore fidato e puntuale. Dopo tre anni del suo governo, il miglioramento dei dati macro-economici (inflazione, saldo commerciale, prodotto interno lordo e indebitamento statale) ha portato ben pochi benefici alle classi popolari. I programmi «fame zero» o «tre pasti al giorno» si sono arenati quasi subito, mentre la riforma agraria è rimasta un'utopia, per la quale combattono isolati, e muoiono sotto il fuoco dei gorilla dei latifondisti, i contadini del Mst che tentano di occupare le terre abbandonate: basti pensare che durante nessun anno di governo del PT è avvenuta una distribuzione della terra pari a quella dell'ultimo anno del governo Cardoso. Il realismo di Lula si è spesso trasformato nell'accettazione passiva dei principi neo-liberali, basati sull'apertura dei mercati e le privatizzazioni, arrivando a capitolare sugli accordi di libero commercio e accettando persino l'introduzione nell'agricoltura delle produzioni transgeniche. Da ogni parte ci si chiede se correggerà la rotta per uscire dalla crisi e riavere la speranza di essere rieletto l'anno prossimo. Il primo segnale che ha dato è negativo. «Non prenderò alcuna misura populista» ha affermato Lula alcuni giorni fa, negando la firma all'aumento deciso dal Senato del salario minimo, fissato per ora in 122 dollari. Ovvio quindi che l'appannamento della sua figura faccia brillare ancora di più, in tutto il continente, come leader latinoamericano della sinistra e dei movimenti che si oppongono alla politica americana, Hugo Chávez Frias. Nonostante la guerra fredda con Washington e il gelo del mondo finanziario, il presidente venezuelano non soffre alcuna crisi di popolarità. Sarà per il petrolio a prezzi record, sarà per il controllo assoluto dell'esercito o per essere riuscito a sopravvivere ad ogni genere di tentativo per esautorarlo o eliminarlo. O sarà, magari, per avere cominciato a realizzare varie riforme sociali, che nei paesi ricchi si è presa l'abitudine di definire «populiste».


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