Latina

Santiago, lettera dall'altro 11 settembre

13 settembre 2007
Alessandro Portelli
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

L'altro 11 settembre a Santiago sembra una giornata come tutte le altre. C'è il sole, è quasi primavera. Un giornale dice che per sicurezza le università più turbolente oggi stanno chiuse. Ma per chilometri e chilometri nelle strade commerciali del centro la gente va per fatti suoi, negozi e passeggiate. Non ci sono manifesti né altri segni. Si avvicina il 18 settembre, grande festa nazionale, e lungo weekend di ponte.
A tre isolati dalla Moneda, il palazzo del governo dove fu assassinato Allende, incrocio un piccolo corteo: bandiere rosse, della pace, arancioni, slogan (uniti possiamo, uniti vinciamo). Dietro di loro, la polizia chiude le transenne: non si passa, alla Moneda non si può avvicinare nessuno. Polizia dappertutto, dovunque transenne. Intorno, zona pedonale e negozi, ordinaria amminsitrazione.
Faccio il giro e sbuco sulla larga avenida O'Higgins, e mi trovo in pieno stato d'assedio. Furgoni militari che paiono enormi, camionette, blindati, plotoni schierati, poliziotti a cavallo, e gruppetti di ragazzi con passamontagna e maschere antigas. Faccio qualche foto, registro qualche slogan. Sembra che non stia succedendo niente, non c'è corteo. Improvvisamente i ragazzi prendono a correre come se avessero visto qualche cosa. Ho i riflessi meno pronti e resto solo io al bordo dell'avenida. Prima di fare in tempo a girarmi mi investe un getto di acqua intrisa di lacrimogeni e mi ritrovo per terra, accecato e bagnato fino al midollo. Mi pare che passi un tempo lunghissimo prima di sentire voci intorno a me, gli occhi non li riesco ad aprire, poi qualcuno mi aiuta a tirarmi su, sono preoccupatissimo che la caduta e l'acqua mi abbiano rovinato il prezioso registratore, mi passano scottex e limone e finalmente ricomincio a vedere. Qualcuno ritrova i miei occhiali - con gli occhi accecati non mi ero neanche accorto di non averli addosso. SEGUE A PAGINA 2
Sono l'unico che è stato beccato: forse perché i ragazzi sono scappati prima, forse perché quello che gli dava più fastidio era una persona dall'apparenza normale che li fotografava. Come che sia, sono circondato da decine di registratori, macchine fotografiche, telecamere, taccuini: ero venuto con l'idea di intervistare, finisco intervistato. Comunque, sanno quasi tutti che cos'è il manifesto.
Ricomincio ad andare in giro, gli occhi tornano a posto, basta non strofinarli (la ragazza dell'internet point dove vado a scrivere, come entro, dice: «Che è questa cosa acre?» (la puzza del lacrimogeno ce l'ho ancora addosso, due ore dopo), mi avvicino alla Moneda, circondata da tre file di soldati, poi dietro le transenne un'altra fila di cavallerizzi da guerra. Vedo tre signore coi fiori rossi in mano, a colpo sicuro gli chiedo se sanno dov'é il monumento ad Allende (non c'era ancora l'altra volta che sono stato qui). Ma non si passa. Provano a negoziare coi militari, mostrano non so che tesserini, niente da fare. «Siamo in dittatura» dice la più giovane. Esagera parecchio, ma insomma certe cose te le tirano. Certo che se per commemorare il golpe e il potere militare volevano darci un'idea di che cosa succedeva in quelle strade quel giorno, un poco ci sono riusciti.
Rifaccio il giro, con un gruppetto di sbandati incalzati dai soldati a cavallo: «Circolare, circolare!». Torno alle transenne dall'altra parte adesso che il corteo è passato la polizia è un po' più rilassata. Faccio il turista ingenuo che non sa dove si trova e mi fanno passare. Il monumento è coperto di fiori e di inserti floreali con le insegne dei partiti e delle organizzazioni. La cerimonia ufficiale c'é stata la mattina, quindi adesso siamo poco più di un capannello. La statua non è bellissima, d'altra parte come si fa a fare un monumento a un'icona dell'antiretorica? Due signore conversano: «Ti ricordi quant'era bello? Nessuno aveva fame, eravamo tutti coinvolti» «E la cultura? E la musica? Adesso la democrazia c'é, ma non è quella di allora, e non è quella che sognavamo». Partono gli slogan, echi di un altro tempo, el pueblo unido jamas serà vencido, rituale di resistenza e memoria, se siente, se siente, Allende està presente. Cantano un po' stonati una solenne canzone patriottica. Si alzano pugni chiusi. Le due signore compagne mi danno appuntamento a Villa Grimaldi, luogo storico della repressione, dove i pinochettisti hanno torturato e ammazzato migliaia di persone, ci sarà una cerimonia con discorsi e musica; poi allo Stadio Nazionale, ad accendere candele.
Villa Grimaldi non è facile da trovare (provarci coi mezzi è un'odissea) persino a pochi isolati di distanza la gente dice di non averla mai sentita nominare. Alla fine mi affido a un tassista peruviano che neanche lui sa dov'è ma almeno sa che cos'è e simpatizza. Arrivo e la gente sta entrando alla spicciolata. La Villa Grimaldi è un posto bellissimo, verde, ampio. Adesso è un parco della pace e della memoria. Steli bianche portano i nomi delle vittime, sovrastate da una frase di Mario Benedetti: l'oblio è pieno di memoria. Parole sante. C'è un gran silenzio, anche se la gente continua ad arrivare, e il silenzio è sottolineato dalle candele che a mano a mano si vengono accendendo. Vedo una famiglia, con due bambini che reggono candele, che si avvicina al muro curvo dove pure sono incisi i nomi - mi domando se hanno qualcuno lì. A mano a mano che scende la sera le candele e il silenzio crescono, attorno alla piccola sala della memoria con una parete di fotografie e cassetti aperti con gli oggetti ritrovati di alcune delle vittime. È un silenzio intenso come un momento sacro, anche se non ci sono segni religiosi. La musica non è niente di speciale, ma le persone l'ascoltano assorte, sedute intorno con le candele in mano.
Il tassista peruviano mi ha detto di non restare da queste parti dopo le otto, è pericoloso, e mi ha dato appuntamento. Sono troppo stanco e sbattuto per andare allo Stadio Nazionale, e chiudo così questo altro 11 settembre.
Questo è quello che ho visto. Poi mi alzo la mattina, leggo i giornali: scontri tutta la notte nelle poblaciones povere della periferia, assalti ai commissariati, un poliziotto ferito grave, morirà più tardi (saccheggi, sparatorie, vetrine e macchine sfasciate). Par che la polizia sia stata sorpresa dal livello di organizzazione, anche se dicono i giornali che negli anni precedenti era peggio. Insomma tutto si può dire meno che si tratti di una città pacificata e tranquilla.
Un cardinale ieri ha benedetto il sacrario che l'esercito sta erigendo a Pinochet. Il compagno che mi era venuto a prendere all'aeroporto la mattina mi aveva detto: nonostante tutto, nel profondo di questo paese, Pinochet non è stato sconfitto.

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