Negare i funerali a Welby? E i mafiosi?

10 dicembre 2007 - Rosario Giuè

Come mai la Chiesa cattolica italiana concede la celebrazione dei funerali religiosi ai capi della mafia e ai capi della camorra e li ha negati a Pier Giorgio Welby? Come mai concede la preghiera pubblica a favore di persone responsabili, direttamente o indirettamente, di decine di morti barbaramente ammazzati e la neghi a persone come Welby, un credente praticante che ha chiesto soltanto nell’esercizio della sua responsabilità di non prolungare artificialmente la fase terminale della sua dolorosa e lunga sofferenza?
Questa domanda franca (mi) hanno posto i volontari provenienti dalla Toscana che a Corleone hanno svolto un campo di lavoro sulle terre confiscate alla mafia, ospitati in una casa confiscata alla famiglia Provenzano. A questa domanda secca come cristiani si ha il dovere di dare una risposta: non una risposta pre-confezionata ma ragionevole. Non sul piano della politica, bensì sul piano dell’etica.
In effetti, non è giustificabile agli occhi di molti che si concedano i funerali pubblici ai capi mafia e si neghino ad una persona inerme come Welby. Non è giustificabile che si concedano i funerali ai responsabili di comportamenti che hanno arrecato dolore e morte, che hanno violato la convivenza civile ed umana, e si neghino ad una persona che non ha ucciso nessuno. Non è giustificabile che non si accolga una persona che ha deciso di non spiritualizzare o di non mistificare il dolore, di dare ad esso un fine pedagogico intendendolo come “il purgatorio sulla terra, perché Dio ci vuole più bene”: una spiritualità figlia di un’immagine distorta di Dio, non biblica, che l’uomo e la donna moderni poco comprendono
Si accoglie in chiesa nei nostri paesi e città la salma del capo mafia o della ‘ndrangheta che si è mostrata, insieme, una persona religiosa ma che ha decretato la morte per accumulare potere e denaro sulla sconfitta e l’umiliazione di molti. E non si fa entrare in chiesa un uomo «colpevole» di avere scelto soltanto di non prolungare artificialmente la propria esistenza, «colpevole» di avere assunto la responsabilità di una morte per lui più dignitosa senza che ciò lo facesse sentire separato dalla fedeltà al Dio di Gesù crocifisso.
Perché? Welby è stato dichiarato «colpevole» di non avere rispettato la sua vita come dono di Dio. In verità, Welby forse ha pensato che la vita è per volontà di Dio anche «compito» dell’uomo e che in quella scelta difficile il Dio di Gesù, forse, gli era accanto come alleato compassionevole. Dal suo punto di vista, forse, Welby ha rifiutato la coercizione di un prolungamento artificiale della vita, convinto che le grave ed irreversibili malattie non possono essere intese come mandate da Dio o come frutto del destino divino. Forse ha pensato che la «fine stabilita» da Dio non potesse coincidere meccanicamente con la riduzione della vita umana ad una vita biologica. Ma ciò ha procurato alla sua famiglia il rifiuto del funerale per il loro congiunto.
Al contrario, per i capi mafiosi e camorristi che dispregiano la vita come dono di Dio, il problema di negare i funerali nemmeno è stato sollevato da nessuno in seno alla Conferenza episcopale italiana. Se il mafioso pluriomicida ritiene che la vita degli altri è, per volere di Dio, a propria disposizione e che la vita dei nemici-ostacoli vale meno di nulla, non è stato considerato un problema così grave tale da prevedere una sanzione individuale pubblica. Se il capo mafia sente di avere ricevuto da Dio un potere di vita e di morte, se egli non esita a pregare ed invocare Dio ed a recitare l’Ave Maria prima di commettere l’ennesimo omicidio, questa «colpa» non sembra contare molto, almeno non quanto la «colpa» di Welby o di altri nella sua situazione.
Come si può giustificare una così vistosa disparità di trattamento? Non basta dire: “Welby ha deciso per l’«eutanasia», perciò ha peccato, con l’aggravante che ha preteso di praticare quella via facendone un caso pubblico; pertanto era giusto che la Chiesa italiana disapprovasse privandolo del funerale e della preghiera pubblica comunitaria”. E il capo mafia che desidera morire da mafioso, che pretende di essere riconosciuto e circondato dall’alone del “prestigio” mafioso, senza pentimento e ripudio pubblico del male commesso, fino alla fine: quello non è peccato? Per quel comportamento non c’è sanzione?
Oggi le persone ragionano con la propria testa, ascoltano in televisione opinioni diverse, vanno a scuola, leggono, si fanno una propria visione delle cose, dal basso. Non stanno in alto, dentro i palazzi circondati da persone che dicono sempre sì e che non hanno il coraggio di dirti che stai sbagliando. Oggi tanti e tante non seguono la Chiesa italiana sulla strada della doppia morale, del doppio binario. Oggi molti vorrebbero incontrare una Chiesa più umile e più coerente al Vangelo, più aperta, più in ascolto del dolore umano, lontana da furori ideologici.

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