Aspettando Godot

Il caso Moro, tra approssimazione e verità
12 maggio 2008 - Giovanni Bianco (docente universitario di Dottrina dello Stato)

1. Il “caso Moro” sollecita sempre la memoria collettiva. Esso è attuale, diversi si cimentano, anche con approssimazione o con ricostruzioni storiche discutibili, ad approfondirlo, senza mai poter giungere alla completa chiarificazione di tutti i suoi misteri.
Quindi “Godot”, quell’entità indeterminata della “piéce” teatrale di Samuel Beckett (che ciascun lettore ha sempre identificato con i più vari “grandi concetti”), nel caso di specie è “la verità”.
Ricostruire il puzzle del “caso Moro” pezzo per pezzo è impresa ardua ed appassionante: Dario Fo, in una tragedia scritta nel 1979, intitolata appunto “Il caso Moro”, paragona Aldo Moro all’eroe greco Filottete, tradito ed impietosamente abbandonato da Ulisse e dai suoi stretti compagni.
Il mito greco attualizzato ci consente di rivivere in una luce letteraria e drammatica la “via crucis” di Moro: Filottete è diventato un peso per i suoi compagni e, dunque, viene abbandonato. I maggiori esponenti della DC gli girano intorno come ombre con il volto mascherato e sullo sfondo si intravede il nesso con sfere di potere lontane, che cospiravano affinché Moro morisse.
Fuor di metafora: il rapimento e l’uccisione dello statista pugliese, dopo trent’anni, è un argomento ricco di zone d’ombra ed ambiguità ed appartiene, tuttora, alla “cronaca” e non alla “storia”, perché non è ancora possibile sceverare pienamente la miriade di intrecci, di tasselli e di connessioni.
Tuttavia,e pure il recente libro di Ferdinando Imposimato, “Doveva morire”, lo conferma, emerge sempre più una verità scomoda ed inquietante, in cui recondite connivenze di potere e di “potere occulto” – gli “arcana imperii”- portano nella direzione di legami torbidi e terribili.
Quindi, la versione ufficiale, di comodo, tranquillizzante, scontata, che di tanto in tanto anche Andreotti e Cossiga ci propinano, traballa inesorabilmente, non corrisponde alla realtà dei fatti.
2. Vengono subito in mente alcuni quesiti, che già trent’anni addietro, pochi mesi dopo
l’assassinio di Moro, Leonardo Sciascia sollevò: chi sono stati i veri e propri mandanti dell’omicidio Moro?; chi aveva interesse ad abbandonarlo al suo destino?; com’è stato l’operato del ministero degli interni durante i giorni del sequestro?
Moro fu rapito ed ucciso dalle Brigate rosse. Siffatta certezzaè soltanto la drammatica cornice di eventi ben più complessi, nei quali, comunque, ed è bene sottolinearlo, non si deve sottovalutare il ruolo svolto dai terroristi e la loro efferatezza.
Esiste, infatti, un’altra dimensione della vicenda, in buona parte inesplorata, quella dei retroscena e delle “intelligenze” che si celavano dietro le BR.
Il dibattito ancora in corso sul punto si è arenato: la tesi che le BR fossero, in parte, eterodirette, non è stata mai, purtroppo, dimostrata.
Al riguardo, si deve, ad esempio, citare un dimenticato volume, pubblicato nel 1978 dal POE (Partito operaio europeo), dall’emblematico titolo “Chi ha ucciso Aldo Moro”. In esso si cercò di inserire l’assassinio di Moro nella contrapposizione tra due grossi “partiti trasversali”, “l’oligarchico” ed “il repubblicano”, e quest’ultimo andava riferito all’insieme delle forze che si riconoscevano nei valori dello Stato nazionale e democratico espressi dalla Costituzione.
Siffatto scontro, e questo è uno degli elementi di estremo interesse, non era nazionale, bensì costituiva il portato degli opposti poli d’attrazione di un conflitto di dimensione planetaria: da un lato le forze che sostenevano l’idea del “Grande Disegno”(il dossier del POE parlava di “alleanza tra Stati capitalistici, Stati socialisti e paesi emergenti del Terzo mondo per promuovere lo sviluppo economico universale”), dall’altro “l’oligarchia internazionale”, il cui punto di riferimento principale veniva individuato nel Fondo Monetario Internazionale, contrario allo sviluppo solidale e difensore degli interessi dei gruppi economici più forti.
Quest’ultima oligarchia, e tale idea era per l’epoca molto innovativa, si annidava dietro spezzoni della “destra” e della “sinistra”.
Così come nello stesso rapporto si fa riferimento ad “uno scenario terrorista britannico” che utilizzò il Ministro degli interni dell’epoca come una pedina fondamentale.
Per ricordare altri “misteri”, si può menzionare un molto equivoco personaggio, tal Steve Pieczenick, esperto di terrorismo, collaboratore di Herry Kissinger, inviato dal Dipartimento di Stato americano, su espressa sollecitazione di Cossiga, per aiutare le autorità italiane, all’interno del “Comitato di crisi” nominato dal Ministro degli interni, al fine di coordinare le indagini per la liberazione di Moro.
Ebbene, quest’ “oscuro” signore, in un’intervista in lingua inglese all’ “Italy Daily”, del 2001, ha letteralmente dichiarato che “Moro doveva morire. La mia missione non fu mai quella di salvargli la vita, la mia missione…era di stabilizzare l’Italia”.
E che dire poi del “Comitato di esperti” o di “crisi” composto da Cossiga il 16 marzo 1978? Diversi suoi componenti sono, in seguito, risultati essere iscritti alla P2 e quanto nel 1992 la Commissione parlamentare stragi chiese l’acquisizione dell’intera documentazione della gestione del “caso Moro”, l’allora Ministro degli interni Vincenzo Scotti rispose che non esisteva alcuna documentazione sull’attività degli anomali Comitati composti da Cossiga, neppure materiale da cui potevano essere desunti con sicurezza i nominativi dei partecipanti alle riunioni (alle quali pare, talvolta, presso il Ministero della marina mercantile, fosse presente anche Licio Gelli).
L’elenco delle “deviazioni” potrebbe continuare, estendersi a presenze sospette in Via Fani il giorno del rapimento dello statista, a morti misteriose (tra cui l’assassinio di Pecorelli) legate al ritrovamento del “Memoriale”, redatto da Moro durante la prigionia, a “Gladio” ed alla sua “struttura estera”.
A trent’anni dalla morte di Aldo Moro resta, in definitiva, un “buco nero”, una voragine profonda.
Cosicché quella “tela del ragno” richiamata da Sergio Flamigni nel suo maggior contributo sul tema è ancora inesplicata: ciò con riferimento a tutta una serie di coperture, sicuramente non richieste, che accompagnarono l’azione brigatista nei cinquantacinque giorni del rapimento.

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