In marcia per la pace

Dopo 25 anni, la Marcia della pace di fine anno organizzata da “Pax Christi” è ritornata a Palermo. Commenti a margine dell’evento, per una Chiesa rinnovata e aperta al mondo.
8 gennaio 2009 - Rosario Giuè
Fonte: La Repubblica /Pa, martedì 30 dicembre 2008 (prima pagina)

Dopo 25 anni, la Marcia della pace di fine anno organizzata da “Pax Christi” ritorna a Palermo. Giunta quarantunesima edizione, partirà domani alle 17,30 da largo dei Picciotti, vicino al luogo dove fu ucciso dalla mafia don Puglisi. Come è noto, essa si tiene in coincidenza con la Giornata mondiale della pace. Il messaggio scelto da Benedetto XVI per quest’anno è “Combattere la povertà, costruire la pace”. Quando Paolo VI il primo gennaio del 1967 indisse per la prima volta questa celebrazione, il mondo guardava alla Roma cattolica con speranza. E aveva trovato motivo di speranza guardando papa Giovanni XXIII che nel Discorso di apertura del Concilio Vaticano II (11 ottobre 1962) aveva programmato “opportuni aggiornamenti” nella dottrina e nella vita della Chiesa e che si sentiva egli stesso ferire l’orecchio da “suggestioni di persone, pur ardenti di zelo, ma non fornite di senso sovrabbondante di discrezione e di misura” le quali, “nei tempi moderni esse non vedono che prevaricazione e rovina”.
Con lui la primavera ecclesiale del Concilio aveva aperto le finestre della Chiesa chiuse da secoli al mondo moderno. Ora, spinta dallo Spirito, la barca di Pietro si metteva in ascolto dei processi sociali fino a convincersi che “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo” (“Gaudium et spes”).
In effetti dal Concilio, pur tra compromessi, usciva una Chiesa che gettava le basi per un ampio rinnovamento. A cominciare dalla riforma liturgica, dall’introduzione delle lingue nazionali nella messa, dal comprendere la Chiesa come Popolo di Dio (almeno teoricamente), dalla ripresa del tema della collegialità nella conduzione della stessa Chiesa (anche questo, purtroppo, solo teoricamente), dall’abolizione dell’Indice dei libri proibiti.
Quella del Concilio era la Chiesa della “Pacem in terris” (1963), l’enciclica con la quale Giovanni XXIII si rivolgeva, non soltanto ai cattolici, ma anche a tutti “gli uomini di buona volontà” in forza della fatica e del destino comuni di ogni uomo e dell’intera comunità umana. Quella era la Chiesa dei poveri del vescovo brasiliano Helder Camara, la Chiesa di Medellin (1968, America Latina) che invitava tutta la cattolicità a fare dei poveri la “scelta preferenziale” (teologia della liberazione).
In quel clima, da Roma Paolo VI nel 1967 poteva spingersi a indire autorevolmente una giornata di riflessione mondiale per la pace, nella consapevolezza di essere ascoltato con rispetto.
Che il futuro cammino della Chiesa uscita dal Concilio non sarebbe stato tutto lineare e liscio lo si era visto già quando lo stesso Paolo VI aveva pubblicato l’enciclica “Humanae Vitae” (1968) con la quale si proibiva l’uso dei mezzi artificiali agli sposi cattolici: un documento che avrebbe lasciato smarrita l’opinione pubblica mondiale. Tuttavia la credibilità di Roma con quell’atto non era ancora perduta. Ma oggi come appare agli occhi del mondo contemporaneo la Chiesa cattolica? Agli occhi di molti uomini e donne il suo messaggio spesso non appare come messaggio di speranza, come buona notizia. Anzi, a molti la Chiesa appare, spiace riportarlo, come un gruppo di pressione, un’istituzione che mette al centro se stessa: la coerenza con sé stessa (tradizionalismo) più che la fiducia nel Vangelo.
Oggi a molti uomini e donne la Chiesa non appare tanto “esperta in umanità” quanto “fredda in umanità”. Come se avesse smarrito la pietà, la compassione. La Chiesa a costoro appare come la Chiesa dei divieti, la Chiesa dei no. Una Chiesa della paura più che della fiducia, legata al passato invece che protesa con lo sguardo verso il futuro. Una Chiesa che allontana più che avvicinare. In Italia per molti il caso Englaro è emblematico.
In questo clima anche la Giornata per la pace, al di là della bontà dei temi proposti, non ha spazio o risonanza nelle coscienze e nell’opinione pubblica. E il messaggio per la pace si perde tra le numerose di notizie riportanti divieti e richiami.
Ora è chiaro: non è che i problemi mondiali, la questione della pace e della povertà, siano spariti. Sono lì più crudi che mai. Eppure, osserva coraggiosamente il grande teologo svizzero Hans Küng: “Come può essere onesta ed efficace la battaglia delle Chiese in favore della pace mondiale se la mancanza di pace tra le Chiese (dentro le Chiese, mi permetto di aggiungere ) continua a provocare così numerose tensioni e lacerazioni?”. L’annuncio della pace chiede una riforma del mondo. Può la Chiesa chiedere la riforma del mondo senza riformare se stessa?
Purtroppo chi parla con lealtà come Küng non viene ancora ascoltato. C’è da chiedersi quanto deve durare questo tempo. E c’è da chiedersi se il silenzio di altri non sia una responsabilità.

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