AMERICA CENTRALE

Tutti i diritti per tutti

Con questo obiettivo il 1° gennaio 1994 si sollevarono gli indigeni del Chiapas.
Samuel Ruiz ci racconta i 15 anni della rivoluzione popolare più imponente degli ultimi tempi.
Intervista a cura di Alberto Vitali

Da poche ore avevamo festeggiato l’inizio del nuovo anno – il 1994 – quando ci giunse inaspettata la notizia che, in un angolo remoto e quasi sconosciuto del Messico, un gruppo d’indigeni si era sollevato in armi, per difendere i propri diritti contro l’entrata in vigore (in quello stesso giorno) del Trattato di Libero Commercio tra Canada, Stati Uniti e Messico. Lì per lì non vi prestammo grande attenzione: forse perché ci appariva come una delle tante crisi locali o piuttosto perché il Messico non rientrava ancora nel nostro immaginario della violazione dei diritti umani. In poche settimane però quella data, ma soprattutto quella terra e la sua gente sarebbero diventate un punto di riferimento imprescindibile per la nostra esperienza, personale e collettiva, nella lotta per il riconoscimento e la difesa dei diritti umani. Chi invece già da trentaquattro anni accompagnava quelle popolazioni, valorizzando le loro culture e parlando le loro lingue... e perciò contraccambiato dal riconoscimento, unico, d’essere chiamato “Tatic” (padre), era don Samuel Ruiz, vescovo – ora emerito – di San Cristóbal de Las Casas, antica capitale del Chiapas. 

Don Samuel, sono passati quindici anni dall’inizio dell’insurrezione zapatista: cosa ricordi di quei primi momenti? 

All’inizio non mi resi bene conto di quanto stesse succedendo. A una persona che mi telefonò per dirmi: “Signor vescovo, ci sono uomini incappucciati con fucili, ai bordi della città” risposi: “Non preoccuparti, staranno festeggiando il nuovo anno”. Al mattino però, quando tutta San Cristóbal era ormai occupata, fu chiaro che non si trattava di una festa mascherata. A sorprenderci non fu l’insurrezione in sé, ma le sue dimensioni: avevamo, infatti, avuto sentore della gestazione di un movimento armato in tutti gli angoli della diocesi e per questo c’eravamo in qualche modo preparati a offrire la nostra opera di mediazione, qualora l’avessero chiesta. Quello che stava succedendo però andava oltre ogni previsione. Vivemmo quindi con grande angoscia gli episodi bellici, di cui non sapremo mai l’ammontare reale delle vittime, perché in questi casi le dichiarazioni dei contendenti rispondono sempre e soltanto a logiche di propaganda. Da parte nostra, sebbene l’esercito negasse le proprie perdite, vedemmo un elicottero atterrare continuamente, per giorni interi, in un accampamento improvvisato a San Cristóbal, per portar via cadaveri avvolti in sacchi di polietilene. Sapevamo quindi che le perdite erano pesanti da entrambe le parti; forse soprattutto nelle fila dell’esercito che, a differenza degli insorti, non conosceva bene le montagne e i possibili ripari. Infatti, essendo preparato per la guerra normale, ma non a quella di guerriglia, nei primi giorni l’esercito cadde in molte trappole.  

Come reagiste a questa situazione?

Il Chiapas è diviso in tre diocesi. I tre vescovi di allora, mons. Felipe Arizmendi, vescovo di Tapachula (oggi mio successore a San Cristóbal), mons. Felipe Aguirre, vescovo di Tuxla Gutiérrez e io pubblicammo, dopo appena tre giorni, un comunicato, nel quale descrivevamo la situazione per quello che era. Senza giustificare evidentemente la violenza, dicevamo però chiaramente che le ragioni avanzate dagli zapatisti erano giuste e che in tal senso non avevamo nulla in contrario, pur opponendoci alla violenza dei mezzi che utilizzavano per farle valere. Per questo ci offrimmo come possibili mediatori. In realtà poi, sebbene l’insurrezione riguardasse l’intero Stato, l’esercito zapatista era di fatto stanziato nel territorio della mia diocesi: per questo la mediazione si concentrò nella mia persona, anche per la familiarità guadagnata, nel corso della lunga presenza come vescovo, con le popolazioni indigene. Fu così che i dialoghi avvennero nella cattedrale di San Cristóbal. 

La Cattedrale della Pace, appunto, come fu nominata. Furono però dialoghi particolari... soprattutto il genere di mediazione e più ancora il mediatore. Generalmente a un mediatore si chiede di essere sopra le parti, “neutrale”: beh, non era certo il tuo caso. Come fu possibile e che genere di mediazione operasti?

Fu possibile perché tutti riconoscevano che non solo io ma l’intera diocesi, oltre a rivestire un ruolo istituzionale, camminavamo da più di trent’anni a fianco di quelle popolazioni. La tipologia di mediazione te la spiego con un semplice esempio: quello del “niño gordo e del niño flaco”. Se due bambini vogliono giocare sulla “bilancia”, ma uno è grasso e l’altro magro, per aiutarli non devi sederti nel mezzo, sul fulcro, perché il tuo contributo sarebbe nullo. Devi invece metterti dalla parte del bambino magro, così l’altalena si solleverà e potranno divertirsi. Fuori metafora: quando i rapporti sono impari, il mediatore non può essere imparziale, pena l’inutilità della sua mediazione: deve mettersi dalla parte dei più deboli e di coloro le cui ragione ritiene legittime; solo così la situazione potrà equilibrarsi e tutti ne trarranno beneficio.    

Non a caso, un attento osservatore e accompagnatore di questo processo, Giulio Girardi, commentando il I Congresso indigeno, tenutosi per tua iniziativa nel 1974, commentò: “Il 12 ottobre arrivarono a San Cristóbal 2000 delegati democraticamente eletti dalle loro comunità: per la prima volta in cinque secoli si trovarono riuniti. Dibatterono per tre giorni sui temi da loro scelti... analisi della situazione di oppressione, rivendicazione dei propri diritti, prospettive di unità di lotta unitaria. Esistono profonde affinità tra le rivendicazioni avanzate nei documenti del congresso e quelle che vent’anni dopo presenterà l’EZLN (Esercito zapatista di liberazione nazionale)”. Nonostante tanto credito però e gli sforzi fatti, quella mediazione fallì...

Sì, purtroppo: nonostante il prestigio nazionale e internazionale che godeva quell’azione di mediazione, a un certo punto dovemmo costatare che non vi era una reale volontà di trovare una soluzione pacifica al conflitto. Il governo giocò su due piani: da una parte partecipava al dialogo, dall’altro aumentava la pressione, mandando l’esercito a occupare il territorio. La contraddizione arrivò all’estremo quando, in totale mala fede e in piena sessione di dialogo, nel febbraio 1995, le autorità sostennero di aver scoperto che l’EZLN stava progettando una guerra totale e mandarono ad arrestare i suoi dirigenti, nella casa in cui li avevano convocati per un appuntamento con il segretario del ministero dell’Interno. Non ci riuscirono soltanto perché fiutarono la trappola. In seguito, anche la diocesi fu colpita da una serie di calunnie e l’espulsione di alcuni missionari, ingiustamente accusati di appoggio alla guerriglia. Le comunità allora reagirono in maniera nonviolenta, con veglie di preghiera per la pace, digiuni e penitenze. Io stesso, in un’occasione, decisi di compiere un atto pubblico di penitenza, un digiuno. Non fu uno sciopero della fame, come alcuni malevolmente sostennero, ma fu un atto religioso, compiuto nella cattedrale, rivestito dei miei paramenti episcopali, per mostrare così che stavo agendo da vescovo e non come semplice mediatore, sebbene lo fossi.    

Che cosa successe allora?

Il dialogo non riprese fino al 1996, quando con la Commissione Parlamentare per la Concordia e la Pace (COCOPA) fu possibile elaborare una legge che permise alle comunità di partecipare in maniera attiva al processo. Si arrivò perciò agli Accordi di San Andrés, che dovevano rappresentare la prima di sei o sette tavole di negoziati progettate. Di fatto restò l’unica perché, con la scusa che la seconda aveva come titolo: “Giustizia e democrazia”, il governo bloccò tutto, sostenendo che tali argomenti andassero trattati per vie più ufficiali. Capimmo allora che la nostra Commissione Nazionale di Intermediazione (CONAI) veniva semplicemente strumentalizzata dal governo per rendere credibile la propria volontà di dialogo, mentre in realtà cercava di indebolire il suo avversario, per ottenere una resa al prezzo più basso possibile. Decidemmo, quindi, di sciogliere la CONAI e lo annunciai pubblicamente in una cerimonia nella cattedrale. Ne mantenemmo però la struttura, perché dovemmo rispondere a tre avvenimenti quasi simultanei. Il primo fu un’imboscata del gruppo paramilitare Paz y justicia, durante una visita pastorale, mia e di mons. Raul Vera, in cui rimasero ferite tre persone. Il secondo fu un reportage televisivo sui profughi di Chenalhó, quando di fronte alle condizioni tremende in cui versavano quelle persone, il telecronista scoppiò in un pianto incontenibile e la cosa ebbe grande ripercussione in Messico e in tutto il mondo. Il terzo fu il massacro in Acteal, il 22 dicembre del 1997, che trasformò la pace in Messico in una preoccupazione internazionale. Di fatto continuammo a operare per la pace a titolo ecclesiale. 

E adesso?

Io ho guidato la Chiesa di San Cristóbal a fianco delle giuste rivendicazioni delle popolazioni indigene fino al 2000. Ora continua il mio successore, mons. Felipe Arizmendi. Anch’io però continuerò a camminare – finché Dio me lo permetterà – insieme ai miei fratelli indigeni, che congedandomi mi hanno nominato loro rappresentante nel mondo. Inoltre, presiedo ancora il Centro dei Diritti Umani “Fray Bartolomé de Las Casas” (FRAYBA) di San Cristóbal.  

A distanza di quindici anni da quella sollevazione che volle essere un appello a tutte le donne e gli uomini del mondo perché si unissero in una “internazionale della speranza, contro l’internazionale del denaro, per l’umanità contro il neoliberalismo”, come vedi e giudichi la situazione attuale. 

L’anno scorso, con un gruppo di persone preoccupate per la situazione che vive il nostro paese, abbiamo pubblicato un documento dal titolo “Appello alla nazione messicana” (novembre 2007, a cura del Gruppo Pace con Democrazia, ndr). In esso denunciavamo che il Messico sta costantemente subendo un processo di occupazione, mediante riforme costituzionali e disposizioni di fatto. Tale processo, dalle caratteristiche neoliberiste, è riuscito a trasformare il paese in una zona “transnazionalizzata”, dipendente ed escludente, in cui si legittima e legalizza lo sfruttamento. I diversi governi e grandi impresari e azionisti, capeggiati dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale, ne hanno beneficiato a danno dell’immensa maggioranza. Questo processo di occupazione sta avvenendo in tutti i settori sociali e ha provocato una degradazione profonda della politica e uno svuotamento della democrazia rappresentativa. Allo stesso modo, il neoliberismo rafforza le proprie funzioni e istituzioni repressive, trasformandole in garanti della stabilità sociale e di controllo della forza lavoro, della cittadinanza organizzata e della società civile. Intanto criminalizzano le proteste sociali, violano i diritti umani, garantiscono l’impunità (vedi i casi irrisolti di Acteal, Aguas Blancas e El Charco), “applicano il diritto” a proprio arbitrio, quando addirittura non lo invocano per giustificare atti violatori della Costituzione e delle leggi. Lentamente introducono nel nostro ordinamento giuridico un “diritto di eccezione” Le forze armate, preparate dagli Stati Uniti, per la “guerra interna” e la contro-insurrezione, sono diventate veri eserciti di occupazione in vaste regioni del paese e in tutte le regioni indigene. 

Ma allora c’è ancora motivo per sperare?

Certamente. La mia condizione di vescovo emerito mi spinge a continuare a prestare attenzione alla voce dei poveri, condividendo al tempo stesso il mio pensiero di fede, alimentato a sua volta dalla parola delle comunità, delle organizzazioni e delle persone la cui azione è stata centrale nel processo storico di cui siamo parte. Già s’intravede una società la cui unità non avrà un carattere monolitico, come lo impone la globalizzazione, ma pluralista, dove si comprenderà ed eserciterà il diritto a essere soggetti della propria storia e saranno accettate le identità specifiche; così come l’autonomia delle nazioni e dei popoli originari, con le loro diversità. Questo è il kayros, l’ora di grazia della forza – carica di speranza – degli esclusi, che non accettando che questo sistema sia definitivo, ne additano già un altro, in cui risplendano come possibili la verità e la giustizia; fondato non sulla concentrazione, ma sulla distribuzione e in cui regni non l’individualismo egoista ma la dimensione comunitaria e il rispetto della dignità umana. 

 

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