Educare alla legalità

L’ATTUALITA’ DEL DOCUMENTO DEI VESCOVI A 18 ANNI DALLA SUA PUBBLICAZIONE
13 gennaio 2010 - Michele Illiceto

Già nel 1991 i vescovi italiani prendevano posizione contro la mafia e la criminalità organizzata, pubblicando un documento dal titolo “Educare alla legalità”. A diciotto anni di distanza quel testo manine tutta la sua attualità.

In primo luogo, la criminalità va combattuta perché costituisce una minaccia alla democrazia , in quanto instaura un clima di paura che impedisce a ciascuno l’esercizio della propria libertà. Mentre la società civile, infatti, tratta le persone come cittadini, la mafia e la criminalità li trasformano in sudditi, creando dipendenza e omologazione, impedendo tra l’altro anche l’esercizio del pensiero critico. Chi aderisce alla mafia non deve pensare con la propria testa, ma diventa semplice esecutore di comandi decisi dai capi.

In secondo luogo la criminalità arreca un grave danno all’economia del paese, in quanto crea sottosviluppo e favorisce la povertà, ruba risorse alla collettività. Non bisogna vedere la povertà come causa della mafia e della criminalità organizzata, ma, al contrario, bisogna considerarla come un suo effetto. Infatti la criminalità non nasce dove vi è povertà, ma al contrario è essa stessa che la produce, creando quasi l’illusione che di essa si abbia bisogno.

Ma oltre alle vecchie forme di organizzazioni criminose, i vescovi in quel documento denunciavano l’emergere di una nuova forma di criminalità: quella dei “colletti bianchi”, che impongono tangenti a chi chiede loro ciò che gli è dovuto per diritto e non per compromesso clientelare, che usano l’autorità di cui sono investiti per fare profitti illeciti violando la legge.

Sono diversi i fattori che possono favorire la criminalità organizzata. Fra questi, i vescovi sempre nel citato documento, annoverano “la crisi della politica”, quando questa “perde il suo obiettivo primario che è la ricerca, la tutela e la promozione del bene comune”. Oppure se, piuttosto che essere centri di rappresentanza sociale di tipo popolare, si lasciano manipolare da poteri occulti di varia natura o da lobbies esterni che antepongono i loro particolarismi al bene collettivo. O ancora quando si preoccupano di raccogliere il consenso popolare usando le promesse di lavoro come ricatto, trattando il diritto al lavoro come merce di scambio, e non come diritto garantito dalla Costituzione. O, ancora, se si appiattiscono in una “gestione puramente pragmatica del potere, senza essere più capaci di ascoltare i bisogni reali della gente”.
Ma un altro importante fattore va rintracciato nella “frammentazione individualistica della vita sociale”. Tale individualismo è il retroterra culturale che favorisce l’attecchire delle organizzazioni mafiose e criminali. Questo significa che la crisi del senso di legalità è da intendersi come una crisi dello spazio sociale, che va a rompere i legami di appartenenza del singolo alla propria comunità. Una comunità divisa al suo interno, che lascia soli i propri membri, diventa facile preda di una criminalità che apparentemente promette sicurezza e benessere, ma al prezzo della perdita della libertà. Infatti, dicono ancora i vescovi, “l’illegalità si nutre di un tessuto sociale sfilacciato dove relazioni disgregate isolano le persone”. La forza della criminalità è tutta nella lacerazione dei legami sociali che fanno della comunità una chimera, e non una realtà a cui di fatto si appartiene.
Altri fattori che la favoriscono sono ad es. l’assuefazione, che ci fa credere che l’illegalità e la criminalità fossero un “male inevitabile”. Poi ci sono la paura, l’omertà, la rassegnazione e la sfiducia nelle istituzioni. Tutto ciò genere un senso di impotenza.
Ma allora come combattere la criminalità organizzata?
Oltre ad una maggiore attività di controllo da parte delle forze dell’ordine che già svolgono in modo encomiabile il loro compito, è necessaria quella che i vescovi, in questo documento del ’91, chiamavano una “mobilitazione delle coscienze”. Ciò esige nuove forme di partecipazione, evitando la delega facile, o il compromesso spicciolo, rivitalizzando il senso di cittadinanza. La partecipazione da un lato evita che le regole siano soltanto subite, dall’altro genera fiducia. Ci vuole una nuova cultura della norma che riesca a far vedere che dietro le regole ci sono valori. Insomma non ci può essere legalità senza una nuova eticità che vada ad investire le microrelazioni e le macrorelazioni. Ci vuole una nova etica sociale per una rifondazione del senso della legalità.
In altri termini dobbiamo riprenderci la città, consapevoli che la città ha il volto di chi la abita, riceve forma dal lavoro di chi vi opera, prende respiro dai sentimenti di chi l’attraversa, si nutre del calore che proviene dai focolari familiari che la costellano.
Ha il ritmo della danza dei giovani che la animano, i colori del festoso chiasso dei bambini che vi giocano per strada, ha la calma e la quiete di tanti anziani che, con il loro andare lenti, ci insegnano a usare il tempo con saggezza e sobrietà.
Come il grembo delle madri ci ha partoriti, così la città è il grembo politico che ci custodisce, ci accompagna, dopo la nascita biologica, verso la seconda nascita: quella sociale. Chi non si occupa della città è come se fosse rimasto alla sola nascita biologica, e non ancora ha vissuto la nascita sociale. E’ come se non fosse mai nato. E’ come se dovesse ancora nascere. Come diceva già Pericle, nel suo elogio alla democrazia, riportato da Tucidite, chi non si occupa delle cose della città non va considerato innocuo, ma inutile.

Vivere la legalità è possibile solo se ognuno di noi riscopre questo amore alla propria città, se ci rendiamo conto del cordone ombelicale che ci unisce ad essa come ad una nostra seconda madre, e che, tramite essa, ci unisce l’uno all’altro. La città è di ciascuno e di tutti: è di tutti perché è di ognuno, ed è di ognuno perché è di tutti. Non c’è spazio per la delega, per la apatia, per la indifferenza. Questi atteggiamenti rischiano di lasciarla nella mani dei potenti di turno che finiscono per deturparla e per portacela via. Essa invece è nelle nostre mani. Ci appartiene, e noi apparteniamo ad essa. Per questo a ciascuno, a modo suo, è affidato un pezzo di città, ed essa sarà ciò che tutti avranno deciso debba essere. E’ come se ognuno si portasse dentro un pezzo della sua città, come essa ci porta dentro di lei.

Infatti, la città nasce dentro di noi, e anche se si concretizza fuori di noi, alla fine si compirà solo dentro ciascuno di noi, solo tramite ciò che di suo ciascuno ci avrà messo dentro.

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