ECONOMIA

L’energia della decrescita

Un dialogo con Maurizio Pallante: la proposte della decrescita. Felici tutti, ma con meno.
Intervista di Patrizia Morgante

Se vale ancora l’esempio un po’ didattico della torta per spiegare le asimmetrie economiche e sociali nel mondo, le soluzioni che ci troviamo davanti sono: aumentare la torta o diminuire la grandezza della fetta che alcuni prendono. Cosa propone il movimento della decrescita felice? Lo chiediamo a Maurizio Pallante.

Come sei arrivato a elaborare l’invito alla decrescita felice?
Partendo da un impegno ambientalista motivato eticamente, indirizzato soprattutto al tema energetico, intravedendo nei problemi creati dall’uso dell’energia la causa delle incognite poste al futuro dell’umanità. Faccio riferimento alle questioni globali e al rapporto umanità-ecosistema terrestre.
Ho avuto la fortuna di incontrare il vice-direttore del centro ricerche Fiat, un ingegnere con diversi brevetti internazionali, che impostava il discorso energetico in modo completamente diverso dagli ambientalisti: quest’ultimi parlano di sostituzioni delle fonti fossili con fonti rinnovabili; lui invece diceva che il problema non è la sostituzione, ma l’uso dell’energia.
Con la sostituzione non si mette in discussione il livello dei consumi. È necessario, invece, ridurre la domanda utilizzando tecnologie che ci consentano di aumentare l’efficienza. Se per soddisfare il bisogno energetico posso usare una tecnologia più efficiente, il focus del discorso è la decrescita.

È una proposta controcorrente nella nostra società. Anche la parola stessa “decrescita”, crea delle resistenze nelle persone: cosa ne pensi?
Ne suscita meno di quante ne immaginiamo.
Riporto due studi commissionati da una società della grande distribuzione commerciale, per rilevare come sono cambiate le scelte dei consumatori in conseguenza della crisi.
Nelle risposte degli intervistati compaiono con maggiore frequenza cinque parole che iniziano con 5 prefissi: il primo è de, quindi riduzione, il secondo è self, autoproduzione, il terzo è ri, riuso e riciclaggio, il quarto è co, collaborazione e cooperazione al posto di competizione, e il quinto è tele, innovazioni tecnologiche per far viaggiare le informazioni e non le persone, per ridurre il tempo di lavoro e l’impatto ambientale.
La seconda ricerca, invece, ha misurato la percentuale delle persone non ostili alla parola decrescita: è il 53%, mentre noi aspettavamo un 5-6%. La crisi ha accelerato un processo di consapevolezza.

Mi sembra però manchi una consapevolezza diffusa su ciò che la decrescita significhi: mi sbaglio?
Proviamo a vedere il panorama politico: le due proposte, centro destra e centro sinistra, sono due opzioni di crescita.
La differenza è sulla distribuzione monetaria prodotta dal flusso della crescita: per il primo questo ruolo è del mercato; per il secondo, se si lascia questo compito al mercato, i più forti prenderanno le fette più grandi e ai più deboli rimarranno quelle più piccole; quindi deve intervenire lo Stato per fare le parti giuste.
Penso ci sia uno spazio politico per una proposta di mutamento di stili di vita e di tecnologie, per una cultura diversa che recupera molto dal passato. Tutto questo oggi non ha un interlocutore politico. Quindi serve una proposta di decrescita che si articoli in progetti che vanno dall’edilizia ai sistemi di trasporto e ai beni collettivi.

Come si articola la proposta delle decrescita?
Si articola su 3 livelli: il primo è lo stile di vita, il recupero della sobrietà, del saper fare (autoproduzione), il recupero di forme di scambio non mercantili, basate sul dono e sulla reciprocità, sulla solidarietà reciproca, sul dono del tempo.
L’altro aspetto è quello dello sviluppo delle tecnologie della decrescita. Noi siamo contrari alle tecnologie della crescita che hanno un impatto devastante: le risorse vengono consumate in tempi e modalità non idonee a quanto impiegano per riprodursi in natura, quindi occorre intervenire sulla struttura della materia molecolare per accelerare i tempi e le quantità, si creano molti rifiuti e si usano tecnologie molto invasive nei confronti dell’ambiente.
Mentre le tecnologie della decrescita sono innovazioni che hanno come obiettivo quello di ridurre, a parità di produzione e di servizi forniti, tre cose: il consumo di energia, il consumo di materie prime e la produzione di rifiuti.
Il terzo livello è quello politico: è necessario fare politiche della decrescita. Il fatto di non riuscire ad accedere a posizioni di governo non rende meno efficace la nostra azione: si possono fare molte cose a livello locale, dove l’aspetto ideologico è meno importante; ciò che interessa però è risolvere i problemi.
Pensiamo a un regolamento edilizio di un comune che impone la costruzione di case che non consumino più di un terzo di quello che consumano le case attuali: per ottenere questo obiettivo è necessario sviluppare tecnologie adeguate, gli artigiani e le aziende devono muoversi in tal senso.

Da dove viene la parola Felice accanto a Decrescita? C’era sin dall’inizio?
Si, il primo libro si intitola La Decrescita felice. Alcuni pensano che abbiamo aggiunto questa parola per rendere più accettabile il concetto di decrescita. Perché diamo per scontato che decrescita e il suo de privativo sia negativa. Questo perché, culturalmente, diamo al concetto di crescita un’accezione positiva.
L’aggettivo felice ha un significato preciso e molto pregnante. Latouche ha usato serena; altri sostenibile, conviviale. Io credo che felice sia più specifico, non è un vezzo. Per capire a fondo questo concetto dobbiamo partire da una distinzione che per noi è molto importante tra merci e beni: la decrescita non è la semplice diminuzione del Pil, perché resterebbe come indicatore; la nostra idea è che il Pil venga tolto perchè la critica è più profonda.
Il Pil è un indicatore solo monetario, quindi può misurare solo le cose e i servizi che vengono scambiati attraverso il denaro, cioè le merci. Nelle nostre società avanzate siamo abituati a comprare tutto ciò che ci serve quindi confondiamo il concetto di merce con quello di bene.
Il bene è ciò che ci serve per soddisfare un desiderio e un bisogno, la merce è ciò che si compra. Non tutto ciò che si compra soddisfa un bisogno, non tutto ciò che soddisfa un bisogno si può comprare.
Esistono beni che non sono merci, e merci che non sono beni. Se le nostre case consumano più di 20 litri di gasolio all’anno, e per legge non ne possono consumare più di 7, vuol dire che 13 litri su 20 si sprecano, si disperdono, perché magari la casa è mal costruita. Se le pareti della nostra casa non sono ben coibentate e sono fredde, abbiamo bisogno di maggiore energia per sentire il benessere del calore. In una casa mal costruita le pareti sono sempre fredde anche con un riscaldamento molto alto. Se consumo meno, immetto nell’atmosfera anche meno anidride carbonica.
Questo contribuisce al benessere di tutti. Se ho la diminuzione di una merce che non è un bene, non ho nessuna diminuzione del benessere. Quindi ho una decrescita (consumo meno), pur conservando il medesimo risultato. Ci sono casi, poi, dove ho beni che non sono merci: le produco e le scambio per amore e non per denaro. Produco la verdura nel mio orto invece che comprarla, i nonni badano al nipote invece della babysitter: questi scambi fanno diminuire il Pil.
La decrescita quindi è la diminuzione di merci che non sono beni, e l’aumento di beni che non sono merci. Se fatto in questo modo è un aumento di felicità, non solo di chi compie queste scelte ma anche della collettività nel suo insieme. La felicità è intrinseca alla decrescita, ed è anche misurabile.

Tanti fanno i medesimi ragionamenti: riuscite a fare rete tra di voi per non disperdere energie?
È vero quello che dici. Ma il nostro è un movimento ancora all’inizio e quindi in questa fase è naturale una certa differenziazione. È anche una grande ricchezza, è il parallelo sul piano culturale della biodiversità! Nel tempo può darsi che queste differenze si attenueranno, facendo emergere la visione d’insieme.

Il vostro invito alla decrescita può essere in contraddizione con la piena occupazione?
L’occupazione è solo la parte del lavoro che serve a produrre merci. Consiste in una serie di azioni produttive, talvolta anche prive di senso, che non hanno a che fare con la soddisfazione di chi le compie. È un’azione per avere in cambio del denaro per comprare beni che soddisfano i nostri bisogni. Il lavoro che produce beni non è più considerato lavoro. Se guardiamo le statistiche dell’ISTAT, le casalinghe non sono considerate forza lavoro. Questo perché non ricevono un salario: producono beni che non sono merci.
Noi abbiamo una visione ampia del lavoro, non solo come occupazione. Nei Paesi avanzati la decrescita è l’unico modo di creare occupazione. La crescita non ha mai creato occupazione.
Dal dopoguerra in poi è aumentato vertiginosamente il Pil e ed è cresciuta la popolazione: l’occupazione non è aumentata in proporzione, ma in modo di molto inferiore. Questo perché in un regime di concorrenza è necessario abbattere i costi, e quindi far produrre sempre più cose a un numero sempre minore di persone.
Con le idee di decrescita, invece, si possono creare molti posti di lavoro. Pensiamo a quanta occupazione ci sarebbe se il governo decidesse di investire nella ristrutturazione delle case esistenti per aumentare l’efficienza energetica.
Dovremmo importare meno petrolio e quindi con il risparmio potremo pagare i salari di coloro che lavorano per le tecnologie della decrescita. Oggi si ignorano tecnologie che già esistono e che consentirebbero di utilizzare l’energia in modo più efficiente, senza sprechi. Invece incentiviamo l’uso delle automobili con le rottamazioni!

La descrescita è una proposta solo per il Nord del mondo?
Assolutamente no. Già il fatto di ridurre i nostri consumi di energia, vuol dire che ce ne sarebbe più per gli altri. Ci sentiamo dire: voi che siete sviluppati vi potete permettere di decrescere! Ma mi domando: gli altri devono crescere come noi? Gli altri devono superare la povertà per avere il necessario per vivere, però la crescita non misura il benessere ma la mercificazione. Se pensiamo che loro possono seguire il nostro modello... è prima di tutto razzista perché pensiamo di essere la guida o il faro per altri... Seguire il nostro modello di sviluppo non farebbe uscire dalla povertà, consentirebbe solo a poche fasce privilegiate di entrare nel consumismo, ma il resto della popolazione rimarrebbe nella miseria. Lo conferma l’ultimo rapporto della Fao...

Insomma hai speranza per un futuro di decrescita?
Non c’è disperazione senza un po’ di speranza, diceva Pasolini. Io non so se il nostro impegno potrà dare una svolta alla situazione, ma se si deve fare si fa. Le nostre azioni e scelte hanno valore anche indipendentemente dai risultati finali. E le motivazioni etiche sono giuste di per sé. Quando guarderò negli occhi i miei figli e i miei nipoti potrò dire che avrò fatto tutto ciò che potevo fare...

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