Tempo di guerra

In quali nuovi scenari stiamo vivendo? Come sono cambiate le armi, il modo stesso di intendere la guerra, di far decollare o naufragare un negoziato?
Fabio Mini (Generale, ex Capo di stato maggiore delle forze Nato del Sud Europa, già comandante della missione Nato-Kfor nel periodo 2002-2003)

L’incertezza nei rapporti internazionali dell’ultimo decennio non ha consentito previsioni attendibili per il futuro della sicurezza. Né sono stati d’aiuto i vari analisti che non sono riusciti a prevedere fenomeni drammatici e globali come il crollo del sistema sovietico, le grandi crisi economiche degli anni Novanta in Russia, Asia e Sudamerica e lo stesso attacco terroristico dell’11 settembre. Tutti gli scenari delineati agli inizi degli anni Novanta si sono dimostrati accademici come il mondo stratificato in tre fasce economiche in concorrenza dei Toffler (Alvin e Heidi Toffler, “War and Anti-War”, Boston,1993), lo scontro di civiltà lungo le faglie culturali di Huntington (Samuel Huntington, “The clash of civilization?”, Foreign Affairs, 1993) e il mondo diviso in due, con i Paesi sviluppati minacciati da un submondo in sviluppo con Stati disintegrati, corruzione e violenza, come diceva Kaplan (Robert D. Kaplan, “The coming Anarchy”, The Atlantic Monthly, 1993). 

Oggi tra questi scenari se ne inseriscono altri fino a concepire lo scenario dei “futuri multipli”, che in sostanza non dà alcuna indicazione a chi deve predisporre gli strumenti per affrontare il futuro. L’incapacità di previsione ha determinato sempre situazioni di “sorpresa” e oggi la principale sensazione è l’insicurezza che tutti percepiscono e che spesso viene esagerata e strumentalizzata ricorrendo alla paura. Le vere sfide globali, come le migrazioni, la criminalità, il degrado ambientale, la povertà, le minacce alla libertà e ai diritti umani e lo stesso terrorismo, potrebbero essere affrontate con razionalità se non prevalessero gli interessi di chi ha investito nella paura: chi ricorre al terrorismo e chi trae profitto materiale e politico dall’intolleranza, dall’estremismo e dalla violenza. 

In quest’ambito d’incertezza, la guerra è cambiata, ma paradossalmente è diventata l’unica certezza per il futuro. Non è più la guerra per l’ordine territoriale degli Stati, fra gli Stati, per cambiare i confini o per annettere territori. È sovente una guerra all’interno degli Stati, fra etnie e gruppi religiosi o fra mafie d’interessi; ma la guerra più devastante e subdola, che coinvolge le nazioni più potenti della Terra o intere culture è quella condotta per imporre alcuni sistemi politici ed economici, idee e ideologie. La guerra non è più controllata dagli Stati ed è tornata a essere “confessionale”, come le guerre di religione e le crociate. Gli eserciti regolari degli Stati non sono più i soli a esercitare la forza: ci sono eserciti privati, compagnie di mercenari e ci sono strumenti economici e sociali altrettanto micidiali dei bombardamenti a tappeto. La guerra non è più lo scontro tra sistemi paritetici e simmetrici, ma è lotta asimmetrica negli scopi, nelle forze, nelle armi e nei livelli d’intervento. 

Alle armi tradizionali si sono affiancate quelle non convenzionali, quelle di distruzione di massa e le “non-armi”: vale a dire elementi familiari (come aerei di linea, automobili, battelli, biciclette, ecc. ) che vengono trasformati in strumenti di terrore e distruzione. Una minaccia militare può essere contrastata con guerre “non militari” come quella dell’informazione, della manipolazione psicologica e quella dei simboli. Per contro molti sono convinti di dover affrontare una semplice crisi economica o sociale con i carri armati e le bombe nucleari. I combattenti possono essere tutti, militari e civili, uomini, donne, bambini e perfino animali, vivi o morti.

In Iraq e Afghanistan sono stati riempiti di esplosivo e “trappolati” carcasse di animali e gli stessi corpi dei caduti in combattimento in modo da colpire chi volesse rimuoverli. Con gli attacchi suicidi si è forse raggiunta la massima espressione dell’asimmetria, ma altrettanto asimmetrico è l’attacco di chi, speculando sui mercati finanziari, riesce a far crollare le economie di Paesi deboli facendo più vittime di una battaglia

Una guerra permanente

La politica militare ha rinunciato a tutti gli strumenti “soft” dell’uso della forza, come la deterrenza, la dissuasione, la cooperazione e la rassicurazione e non è più ancillare di quella estera: tende a sostituirsi ad essa. Con le cosiddette operazioni umanitarie, con le operazioni di risposta alle crisi e, soprattutto, con la lotta al terrorismo e agli Stati canaglia la guerra è stata elevata al rango di unico mezzo per ogni azione di politica internazionale: compreso il negoziato. La guerra, perciò, non è più neppure l’ultima risorsa alla quale si è costretti a ricorrere quando tutte le iniziative politiche e diplomatiche falliscono: è diventata preventiva, non perché previene un prevedibile danno, ma perché anticipa l’uso della forza rispetto alla stessa manifestazione di un avversario o della crisi. E il nemico può essere chiunque, ma quello “giusto” e legale è scomparso. Ci sono soltanto “criminali” che sono tali non perché hanno già commesso crimini o violazioni, ma perché potrebbero commetterli in base a previsioni soggettive, pressioni e perfino provocazioni. La guerra, da fenomeno eccezionale e contenuto nel tempo, nello spazio e nei mezzi è così diventata totale, asimmetrica e permanente. Si va delineando la fine degli eserciti che rispondono alle leggi, all’etica e ai costumi di guerra per lasciar posto a corpi armati che rispondono a leggi e logiche proprie e dei committenti di turno. Tutte queste aberrazioni e alterazioni della guerra tradizionale sono giustificate in nome della pace e della libertà, ma in realtà le ostacolano negando i diritti e le ragioni degli altri e negando la stessa legittimità dell’avversario. Semmai, esse dimostrano l’impotenza della politica e della diplomazia, inquinate dall’ideologia e dal fanatismo, nella ricerca di un nuovo ordine mondiale più sereno e tollerante. Oggi stiamo vivendo, a livello globale e per la prima volta nella storia umana, il “tempo della guerra”: la stagione in cui la guerra, come atteggiamento mentale e in tutte le sue forme visibili e invisibili, sembra rappresentare la sola risposta ai problemi di relazione tra gli uomini. Mai come oggi sono stati studiati e analizzati con una sorta di nostalgia, ma ignorando le particolarità dei singoli contesti e le conseguenze, i grandi condottieri del passato e quegli imperi che imposero la “loro” pace con la forza militare: Alessandro Magno, Roma, Islam, Genghis Khan... In questo sforzo di razionalizzazione della guerra permanente si parla essenzialmente inglese perché la politica e l’evoluzione tecnologica degli armamenti sono guidate dalla superpotenza americana. Così la Information Warfare, la Netwar, la Network Centric Warfare, le Rapid Decisive Operations, le Effects Based Operations, la Swarm Warfare  prendono atto dello sviluppo dei sistemi informatici di comando e controllo, della rete, di nuove armi come le microtestate nucleari, le bombe termobariche e le armi non-letali. Altre elaborazioni strategiche e tattiche sono dettate da scopi e ambienti diversi: come la guerra preventiva, che anticipa se stessa, e la nuova “guerra urbana”, un tempo accuratamente evitata, che si basa sulla necessità di combattere nei centri abitati contro avversari tecnologicamente inferiori, ma padroni del territorio. Senza un ritorno al primato della politica, al rispetto reciproco – anche fra avversari – e all’eccezionalità della guerra, in futuro, come oggi, ci saranno “guerre senza limiti” (Qiao Liang e Wang Xiangsui, Guerra senza limiti, LEG, Gorizia 2001) fra diverse culture della guerra e perciò asimmetriche; guerre fatte in ogni parte del pianeta e in ogni luogo d’elezione dell’arma o non-arma prescelta da una delle parti. Gli attori, i promotori o i provocatori delle “nuove” guerre saranno sempre più spesso le istituzioni sopranazionali economiche e finanziarie, le organizzazioni non governative, le corporazioni multinazionali o nazionali, gli organi d’intelligence, le mafie, le compagnie di sicurezza, i club e i gruppi di pressione privati. La cosiddetta guerra al terrorismo continuerà indefinitamente perché, così com’è iniziata, non affronta le cause del terrorismo e perché, in un mondo a economia stagnante, fatto di disparità e paura, si sta rivelando come un eccellente motore in grado di mobilitare e bruciare più risorse di qualsiasi guerra mondiale.

Ora tanti Paesi con problemi infiniti di sopravvivenza umana e politica parlano ormai lo stesso linguaggio di potenza degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e dell’Europa. Anch’essi intendono partecipare al vero e unico business del nostro tempo: la guerra in sé, che ormai comprende tutto ciò che precede e che segue i conflitti armati. Il cambio di dirigenza politica negli Stati Uniti sollecita nuove speranze per un cambiamento radicale di paradigma nell’uso della forza e la concomitante crisi economica impone una moderazione nell’impiego delle risorse. Sono due opportunità uniche, ma pericolosamente contingenti. Le buone intenzioni di un presidente possono naufragre sugli scogli delle lobby industriali e sulle aberrazioni ideologiche, mentre la crisi può durare più o meno a lungo in relazione a quanto si riesce a far credere all’opinione pubblica e quanto si riesce a far pagare ai deboli per salvare i forti.

 

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