Biosostenibili

Un clima di guerra globale permanente. Quali ipotesi di lavoro sul nesso tra conflitti e risorse naturali?
Francesco Martone

Nel 2004 fece scalpore la pubblicazione, da parte del Pentagono, di un rapporto sui mutamenti climatici. Nel 2007, il Regno Unito promosse un inedito dibattito sul clima nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, duramente criticato dai Paesi in Via di Sviluppo, che non accettavano l’idea di una discussione di tale importanza in un consesso dove la maggior parte dei Paesi “inquinatori” tuttora detengono il potere di veto. Da allora il tema è diventato oggetto di nuove elaborazioni e proposte che hanno contribuito a costruire un approccio che oggi si definisce “environmental” o “sustainable security”. 

Si calcola che almeno un quinto delle guerre nel pianeta abbiano a che fare con le risorse naturali e con l’ambiente. Secondo il rapporto “Sustainable Security for the XXI Century” dell’Oxford Research Group, i mutamenti climatici sono, assieme alla competizione su risorse naturali e strategiche scarse, una delle cause di futuri conflitti, insieme alla corsa agli armamenti nucleari e la marginalità sociale causata dalle politiche neoliberiste. Anche il percorso di elaborazione verso la conferenza sul clima di Copenhagen ha visto delle partecipazioni inedite, con generali in pensione, scienziati e analisti, riuniti nel Military Advisory Council, che si sono interrogati sul possibile impatto del clima sulle nuove guerre dal punto di vista strategico e di riconfigurazione delle dottrine di sicurezza. Si calcola che i mutamenti climatici potrebbero causate conflitti violenti in almeno 46 Paesi, impattando su una popolazione di 2,7 miliardi di persone. A fronte del fallimento della Conferenza di Copenhagen, il quadro relativo alle prospettive ecologiche globali continua a essere allarmante. Il dramma dei rifugiati ambientali rischia di raggiungere dimensioni catastrofiche, non solo nei paesi insulari (si pensi solo a Tuvalu, Comore, Maldive, e altri Stati minacciati nella loro stessa esistenza), ma anche in zone caratterizzate dalla scarsità di risorse essenziali quali terra, acqua e cibo, esagerando conflitti latenti o causandone di nuovi. A fronte di questo enorme debito ecologico già accumulato risalta la quasi inesistente volontà politica dei Paesi del nord globale di sganciare il loro modello produttivo ed economico dai combustibili fossili, o da soluzioni rischiose quali gli agrocombustibili. In questo quadro risulterà ineludibile affrontare il tema del clima e dell’energia dal punto di vista dell’equità e della sicurezza, elaborando un approccio che possa contrapporsi e disinnescare quello che intende la sicurezza attraverso la lente del controllo militare delle fonti di approvvigionamento scarse o a rischio. Questa è la filosofia di fondo perseguita dalla NATO che, riprendendo una delle “mission” approvate in seguito alla revisione del suo concetto strategico fatta a Washington nel 1999, ipotizza addirittura l’uso delle sue forze di intervento rapido per assicurare la continuità dell’approvvigionamento energetico. Armi e soldati verrebbero inviati a vigilare sulle rotte di petroliere, o per proteggere gasdotti o oleodotti. E non è un caso che l’ex-presidente esecutivo della Shell sia oggi – assieme a Madeleine Albright – a capo del gruppo di lavoro attualmente incaricato dell’ulteriore revisione del concetto strategico della NATO. Come non è un caso che un altro ex-presidente della Shell e poi consulente della CIA era tra gli autori del rapporto del Pentagono del 2004. Le guerre per il petrolio hanno un altro lato oscuro, derivante dagli effetti devastanti delle operazioni di estrazione come nel Delta del Niger o in Darfur. Quest’ultimo, che la vulgata interventista vorrebbe poter definire un genocidio, è stato, invece, definito dalle Nazioni Unite il primo conflitto causato dai mutamenti climatici e ciò a conferma della complessità del problema e dell’inutilità di ricorrere a definizioni che rischiano di aprire la strada a false soluzioni. La vera causa del conflitto in Darfur è la competizione su risorse scarse, (terra e acqua) tra popolazioni nomadi e stanziali, messe a dura prova dalla desertificazione causata dai mutamenti climatici. Il paradosso è che quelle popolazioni risentono doppiamente della dipendenza dai combustibili fossili che caratterizza il modello di sviluppo dominante. Soffrono una guerra causata dalle rivendicazioni delle zone di periferia a un equo accesso alle royalties derivanti dal petrolio estratto da imprese multinazionali, e dalle ricadute socio-ambientali dell’estrazione del petrolio e della sua combustione attraverso i mutamenti climatici. Esiste, quindi, un grande paradosso, che si ripete altrove in Africa, laddove le mire di controllo strategico di imprese transnazionali si intrecciano con quelle delle élite di governo, con l’iniquità nella redistribuzione dei profitti derivanti dall’estrazione del petrolio, e con l’impatto socio-ambientale della stessa. A ciò si aggiunga che, pur essendo grande produttore ed esportatore di petrolio, il Sudan vive una grave penuria energetica che verrebbe in parte soddisfatta dal rilancio dell’energia idroelettrica. Questa eventualità introduce un nuovo elemento di criticità rappresentato dai movimenti popolari di resistenza generati dallo scontento causato dalla costruzione di due dighe a Nord, percepite dalle popolazioni locali come una minaccia alle loro culture tradizionali. La geopolitica dell’acqua è altro tema chiave nell’analisi del nesso tra risorse naturali e conflitti. Basti ricordare il caso della Palestina, o l’uso strategico delle grandi dighe fatto dal governo Turco per colonizzare e controllare il Kurdistan, con l’esempio evidente della diga di Ilisu. L’elemento interessante in questo contesto riguarda la possibilità che attraverso accordi di uso collettivo e transfrontaliero delle acque si possano costruire progetti di pace e riconciliazione tra i popoli. Già nel 2005 il Worldwatch Institute riportava i dati di una ricerca svolta dall’Università dell’Oregon che sfaterebbero in buona parte il mito delle “guerre per l’acqua”. Gli ultimi 50 anni avrebbero, infatti, visto solo 37 conflitti per l’acqua con ricorso alla forza, 30 dei quali tra Israele e uno dei Paesi confinanti. 507 sono stati i casi di confitti politico-diplomatici tra Paesi per il controllo o la gestione delle acque, mentre ben 1228 sono gli eventi che hanno portato alla conclusione di accordi di cooperazione. Pertanto, piuttosto che essere fattore di guerra o per lo meno concausa nell’aggravarsi di condizioni che poi sfociano in conflitti, l’acqua può essere strumento per la costruzione della pace. Non è, però, solo nel serbatoio della nostra automobile che si materializza un anello della catena che lega i nostri modelli di sviluppo alla distruzione dell’ambiente e alla competizione su risorse naturali scarse, ambientali e di attuali o possibili conflitti armati.

Lo zaino ecologico

Anche dentro i circuiti di un cellulare, ad esempio, si nasconde l’ultimo anello di un’economia di guerra, alimentata dall’estrazione illegale di coltan, minerale strategico presente in Congo venduto per acquistare armi con le quali combattere le guerre che insanguinano l’Africa. Sono guerre alimentate dall’estrazione illegale di risorse e dal circolo vizioso che le lega al commercio illegale di armi, alle attività dei signori della guerra e delle milizie mercenarie. Acqua, petrolio, mutamenti climatici, competizione su risorse scarse sono gli elementi chiave che permettono di costruire un approccio che metta al centro di ogni soluzione i diritti ambientali e la giustizia ecologica accanto a quella della diplomazia popolare, al fine di trasformare anche la cooperazione internazionale in strumento di costruzione attiva della pace. 

La necessaria rielaborazione del concetto di sicurezza e di prevenzione politica e nonviolenta dei conflitti dovrà, però, proporre strumenti che permettano a ognuno di comprendere come attraverso i propri stili di vita si contribuisce alla costruzione della pace. In negativo giacché il nostro zaino ecologico, o meglio la nostra impronta ecologica calpesta diritti di altri popoli e si ripercuote doppiamente sulle loro vite. Prima sottraendo risorse e poi restituendole come scarti materiali, liquidi o gassosi, togliendo loro altro cibo, acqua e terra. 

Le cifre ci parlano, quindi, di possibili nuove guerre, quelle dei poveri, non solo quelle della NATO, ma quelle dei milioni di diseredati che perderanno le fonti della loro già difficile sussistenza. Saranno guerre sotterranee e nascoste, quelle che non andranno sui primi titoli dei media o non saranno all’attenzione dei movimenti giacché non entreranno facilmente nel lessico antimperialista o post-coloniale, o della solidarietà internazionale. La questione ambientale diventa così paradigmatica della nuova politica cosmopolita. A condizione, però, che includa un nuovo elemento, quello dell’equità transnazionale e intergenerazionale. 

In altre parole della giustizia ecologica. Come specifica in uno dei suoi rapporti il Wuppertal Institute (“Per un futuro equo, conflitti sulle risorse e giustizia globale” a cura di Wolfgang Sachs) “la prima giustizia ecologica riguarda la biosfera, la seconda, intergenerazionale focalizza l’attenzione sul rapporto tra chi vive adesso e le generazioni future. Estende il principio dell’equità sull’asse temporale. [...] È urgente mettere in discussione il modello di benessere della modernità industriale”. Una sfida ulteriore per il movimento pacifista, che costruire alleanze forti con i movimenti che si occupano di giustizia climatica e ambientale per elaborare un modello di prevenzione nonviolenta dei conflitti e di “rappacificazione” con il pianeta e con chi lo abita.

 

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