La scienza della voce

Atti degli Apostoli: 2,1-11/Romani: 8, 8-17/Giovanni: 14, 15, 16, 23-26
Ernesto Balducci
Fonte: «La scienza della voce». Omelia pronunciata alla Badia Fiesolana nella festività dell’Ascensione. Pubblicata in “Gli ultimi tempi”- Vol. 3° anno C 1985/1986 o 1988/1989 - Borla editrice, 1991; pag. 195-203.

Ci sono molte forme di paura, a seconda della sicurezza che è messa in questione nella situazione in cui ci troviamo. Parlo di noi come umanità. Abbiamo una paura fìsica, perché per la prima volta nella stona della nostra specie l’estinzione è una possibilità. È una paura nuova di cui i nostri padri erano ignari e che a noi è stata concessa come punizione delle no-stre tracotanze ma anche come possibilità di un cambiamento perché, come dice il poeta, là dove nasce la paura ivi nasce la speranza. Ora però abbiamo un’altra forma di paura che deri-va dal fatto che i recinti delle nostre sicurezze culturali, delle nostre diverse lingue – per ri-prendere la suggestiva pagina degli Atti degli Apostoli - si stanno scomponendo. Entriamo m una promiscuità dove ciascuno porta i segni, il peso e la gloria di un suo passato che non può essere comunicato agli altri. Noi eravamo convinti – ecco la ragione della paura che tocca noi che siamo eredi di una tradizione che osavamo identificare col cristianesimo stesso - di aver finalmente trovato una lingua adatta per tutti gli uomini ed abbiamo fatto di tutto per esportar-la, spinti dall’amore per il genere umano. Siamo perfino arrivati ad impiantare a Sud, ad Est, ad Ovest, in mezzo ad uomini di altra lingua, forme di culto con la nostra lingua: la lingua la-tina. Le liturgie eucaristiche che si celebravano, e forse ancora avviene, a Pechino, in Africa o nell’America latina si celebravano con la nostra lingua universale. Ma al di là di questo aspet-to lessicale, estrinseco, la lingua che noi abbiamo voluto esportare, convinti di aver finalmente trovato le forme mentali adatte per tutti gli uomini, è quella che si identifica con i valori che abbiamo proclamato a tutto il mondo.
Siamo in un anno (1989) in cui i tre massimi valori della modernità occidentale - la fraternità, la libertà e l’uguaglianza - vengono rievocati con legittimo entusiasmo. Questi va-lori li abbiamo esportati ovunque imponendoli secondo i modi mentali e spirituali propri della nostra tradizione. Questa pretesa è in sfacelo perché i popoli si dimostrano più attaccati alla loro lingua di quanto pensavamo. Possiamo anche riferirci, con un esempio più a la page, a quello che sta avvenendo nell’Est europeo, in URSS, dove la pretesa di aver finalmente trova-to la forma di convivenza universale - quella propria della rivoluzione operaia - è messa in scacco perché popoli che sembravano passati, armi e bagagli, alla nuova forma culturale si sono svegliati e ciascuno rivendica la propria autonomia a tutti i livelli.
È il momento in cui le tribù si svegliano e ciascuna si sveglia con la propria lingua. Siamo nella fase di Babele quando Dio punì la tracotanza dei costruttori della Torre confon-dendo le lingue degli uomini. Noi abbiamo costruito una grande torre, quella su cui splendono i grandi valori della nostra civiltà, ed ecco ci troviamo nella incomunicabilità più evidente. Anche quelli di altre religioni che vengono fra di noi mostrano di non avere più nessuna vo-glia di apprendere le nostre parole, la nostra lingua. Il futuro quindi non è affatto, come ave-vamo pensato, quello della omogeneità fra gli uomini. C’è uno stato di confusione che non può non generare paura.
Di questo mi pare sia giusto parlare in un giorno in cui la scena della liturgia è occupa-ta da una moltitudine di popoli che nella geografia del tempo rappresentava l’ecumene, anche se per noi oggi rappresenta un piccolo angolo del mondo. Noi che siamo in una situazione a-naloga ci dobbiamo domandare, al di là di una facile celebrazione del miracolo antico, in che senso questo miracolo potrebbe ripetersi. L’esigenza c’è. Gli studiosi di antropologia hanno fatto una ipotesi che per me è molto suggestiva: che sotto le nostre diverse lingue, quelle in cui un popolo, una tribù trova la sua massima identità e che viene trasmessa nella educazione familiare e pubblica, ci sia una specie di lingua comune per tutti gli uomini. Ci domandiamo spesso come sia possibile che un uomo occidentale possa intendersi con l’abitante di una tribù remota dell’Africa o dell’Australia. Qual è il punto di unione possibile che non sia quello del dominio da parte del più forte che impone la propria lingua al debole? È una lingua soggia-cente, che è come una struttura interna ad ogni essere umano, che non trova mai una perfetta e compiuta traduzione nelle lingue particolari con cui noi parliamo. È la lingua universale, ma solo potenzialmente universale perché di fatto ciascuno di noi vive nella propria lingua e comprende solo ciò che nella propria lingua gli viene detto. È però un indizio di qualcosa di misterioso e di attivo che agisce in noi il fatto che possiamo anche imparare altre lingue. Un bambino può parlare simultaneamente più lingue utilizzando come struttura di trasmissione dall’una all’altra questa lingua latente, senza parole precise ma generatrice di parole e di con-cetti. Questa potenziale unità della specie umana al livello della lingua postula evidentemente un miracolo: che giunga a noi un messaggio che ciascuno capisca nella propria lingua e che riguardi indistintamente gli uomini tutti, che non porti privilegi, che non distribuisca le culture umane secondo una classifica nella quale ci sono i primi - che in questo caso saremmo noi - e poi gli altri che noi dovremmo educare ad apprendere ciò che abbiamo capito.
Io penso che il messaggio dello Spirito sia quello che introduce al fondo di ciascuno di noi una parola che ciascuno riesce a tradurre nella propria lingua. Siamo, per così dire, bene-detti ed appagati in questo bisogno di universalità che non implica la distruzione del particola-re ma in cui il particolare diventa tramite, espressione di qualcosa di comune. Il messaggio che gli Apostoli annunciarono era unico, ma ciascuno lo intese nella propria lingua per cui questa identità profonda, di cui la lingua è l’espressione, non fu umiliata, squalificata, ma anzi fu sollevata a mezzo espressivo di una intuizione uguale per tutti. Calandoci nella nostra con-dizione di cristiani che hanno trascinato dal passato una immagine di Dio, una immagine di Gesù Cristo, un insieme di dogmi che ci hanno insegnato come intoccabili, ci troviamo all’im-provviso di fronte ad altre tribù umane - uso il termine in senso metaforico - per le quali que-sta nostra tradizione non ha nessun senso, al punto tale che queste tribù estranee si difendono dalla nostra aggressività spirituale. Arriva un missionario che pretende di annunciare ad un uomo di un’altra tribù una salvezza e siccome la parola salvezza è una parola che suscita in ciascun uomo attese e speranze, il missionario impone come passaggio necessario la nostra tradizione, la nostra lingua, i nostri culti, la nostra immagine di Dio, la stessa nostra memoria di Gesù Cristo. Tutto il nostro passato diventa il tramite necessario per chiunque. Che questa sia una sopraffazione intollerabile, ora lo capiamo meglio. Cosa si può fare? Dobbiamo forse rinunciare alla certezza che il messaggio che ci è venuto da Gesù Cristo è per tutti gli uomini? Dobbiamo, in nome di questo rispetto delle diversità, rinchiuderci nel nostro particolare? Non lo possiamo fare. Toccheremmo nel cuore l’universalità del messaggio che deve essere diffu-so fino ai confini della terra. Non c’è che l’intervento dello Spirito, che non è però un inter-vento che si può vivere indenni, tenendo ben custodito ciò che abbiamo ereditato. Ecco perché all’interno della cristianità la paura cresce, la paura che si mutino i termini del nostro modo di pensare Dio, di pensare Gesù Cristo, l’insieme dei dogmi che abbiamo formulato per sempre con tante lotte, ahimè, sanguinose. È questo il dramma.
La paura si nasconde in mille modi, ma è distruttiva perché al proprio interno coltiva lo scatto dell’aggressività, il momento funesto della negazione dell’altro. Ecco perché, mai come in questo tempo, c’è stato bisogno dello Spirito, di questa Pentecoste il cui effetto primo deve essere quello della liberazione interna dalla paura. È che noi abbiamo uno spirito da schiavi. Lo spirito da schiavi si manifesta nella volontà di comandare e nella volontà di obbe-dire. Noi abbiamo fatto consistere la nostra fedeltà nell’obbedienza ed abbiamo mortificato proprio la virtù che scaturisce da quel profondo dello spirito umano, e che è l’esigenza della creazione del nuovo. La coscienza che noi abbiamo modellato è una coscienza tanto più inap-puntabile quanto meno creativa. Gli uomini che noi premiamo sono per lo più quelli che tra-ducono con perfezione ciò che la comune degli uomini pensa e ciò che l’autorità vuole. La percezione che la coscienza vive solo quando crea, quando dà risposte nuove a situazioni nuove, è una percezione rara ed è sconsacrata o minacciata. Eppure non c’è stato momento nella storia cristiana in cui ci sia stato bisogno, come questo, dello spirito creativo di cui ab-biamo letto: «Mandi il Tuo Spirito e sono creati. Se il Tuo Spirito si ritira si riducono in pol-vere». E noi siamo in mezzo alla polvere pur nelle celebrazioni grandiose del passato. La no-stra società è piena di celebrazioni, è sostanzialmente necrofila perché non riesce a pensare se non in termini di passato, mentre il futuro che incombe attende risposte creative, le quali non possono esserci se noi non nobilitiamo la lingua di tutti gli uomini; cioè se non siamo in grado di dare messaggi che ciascuno ascolti con la convinzione di averli ascoltati nella propria lin-gua.
Questo è il miracolo che deve avvenire. «E perché ascoltando, ciascuno ascolta nella propria lingua?». Ecco il miracolo che deve avvenire. Non possiamo camuffarci e nemmeno possiamo negare tutto ciò che ci è stato trasmesso, ma se noi parliamo secondo lo Spirito par-liamo in modo tale che la nostra parola, pur essendo quella che è, collocata in una certa forma nella molteplice storia delle lingue umane, trasmette qualcosa che ciascuno raccoglie secondo la propria lingua.
Abbiamo bisogno di questo miracolo perché l’alternativa è la crescita della paura. Quando osserviamo tentativi di restaurazione dobbiamo cogliervi, con comprensione umana, un bisogno di difesa. Come si fa se si vive scoperti di fronte a prospettive nuove? Dobbiamo esaltare la potente creatività che è in tutti gli uomini perché tutti gli uomini aspirano a parlare una lingua comune e, come si è detto, c’è dentro di noi una grammatica generativa come po-tenzialità di un linguaggio comune. Abbiamo pericoli comuni, un futuro comune senza più di-stinzione. Le lontananze si sono accorciate, anzi sono scomparse e perciò non possiamo che pensare in modo globale. Ogni speranza che io addito a me ad a voi nel futuro deve valere per ogni uomo della terra. Già questo ci permette di liberarci delle illusioni di cui invece la nostra società impaurita è feconda.
Quali sono queste illusioni? Per esempio quella di scandire dinanzi a noi un progresso economico che vale solo per noi. Se si parla di progresso economico dobbiamo domandarci se si tratta del progresso economico dell’umanità intera o del progresso economico di una parte a danno dell’altra. Se così è, questo progresso non ci libera dalla paura, anzi l’aumenta. E così si dica di ogni altro aspetto che costituisce l’orizzonte provocante e minaccioso che abbiamo davanti. Questo modo di pensare in universale non è il modo che ci è stato insegnato nelle scuole, né quello con cui gli eredi delle rivoluzioni hanno proclamato la libertà, l’uguaglianza e la fraternità. In nome di quei valori abbiamo conquistato il mondo e lo abbiamo reso schia-vo! La storia di questi ultimi duecento anni è questa: con quelle bandiere abbiamo fatto schia-vi. Abbiamo sfruttato il prossimo con la parola «fraternità». Abbiamo instaurato dittature co-loniali con la parola «libertà». Questo abbiamo fatto.
Non possiamo più perseguire una universalità che non passi attraverso il rispetto delle molte lingue, delle molte attese degli uomini per il semplice fatto che siamo una sola famiglia. Nessuno lo ha mai saputo come noi in questa fine del secolo. Lo Spirito ci deve liberare dalle immagini più care. Io non posso più pensare a Gesù Cristo come ci pensavano - per andar lon-tano - Sant’Agostino o Dante Alighieri, devo pensarci in modo totalmente nuovo. La fedeltà a Lui non è la fedeltà ad una immagine forgiata nelle officine del magistero del passato, ma che non è più al livello dell’umanità di oggi. È lo Spirito che mi suggerisce tutto questo, non l’arbitrio, il capriccio. È lo Spirito che ci deve suggerire nuovi modi di annunciare il Vangelo.
Se non crediamo nello Spirito cadiamo nella paura o nella sicurezza aggressiva. Que-sto è quello che abbia mo sotto gli occhi. Ecco perché noi siamo in un momento di estrema se-rietà morale e, parlando evangelicamente, di estremo rischio per la nostra fede. Tutti i contatti che si possono avere, o fisicamente in modo diretto o indirettamente attraverso i processi in-formativi, ci annunciano che il tempo stringe, che dobbiamo arrivare davvero a prepararci ad un futuro prossimo in cui uomini di diversa razza, di diversa cultura, di diversa lingua staran-no nello stesso spazio, vivranno nelle stesse città e non si capiranno. L’istituzione di scuole apposite, per insegnare agli stranieri la nostra lingua, non sarà la soluzione. La via giusta sarà quella di poter annunciare cose che hanno senso in ogni lingua. Questo è un miracolo che non ha soltanto un significato interno alla prospettiva cristiana ecclesiale, è un miracolo che ha va-lore sociale cosmico. A questo noi siamo chiamati. Ma come è difficile che questo avvenga! Le cronache di tutti i giorni ci fanno comprendere come la incomunicabilità cresce sotto que-sto velo di comunicazione diffusa la quale ha creato dei consumatori di informazioni, ma non degli informatori. Noi consumiamo informazioni che ci vengono date in ogni modo ma nes-suno di noi è più in grado di informare. Il primitivo informava, noi non informiamo ma con-sumiamo quello che ci viene dato. Così facendo, un’anonima potenza, che è all’opposto dello Spirito Santo, ci divora la coscienza, ce la predispone ad accettare i verdetti di domani, gli au-toritarismi più severi, che non avvertiremo più come tali perché avremo una coscienza adatta ad accoglierli con esultanza. Questa dittatura anonima, cresce ogni anno. Noi andiamo fieri di avere strumenti, giornali, mass media, ma in realtà ci dimentichiamo che non abbiamo più la scienza della voce. La scienza della voce è la scienza del saper dire e del saper ascoltare i messaggi degli altri.

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