PRIMO PIANO TEATRO

Le scimmie verdi

In scena uno spettacolo sulla diversità. Un racconto, una performance che coinvolge il pubblico e mette sul palcoscenico i dubbi e le inquietudini della convivenza di oggi.
Giulia Ceccutti

Sarai la terza scimmia. Arrivi alla fine e devi solo leggere una poesia, è una cosa semplice”. 

Mi fido della mia amica. Che vuoi che sia… 

Hamid arriva un po’ in ritardo, mi raggiunge tra il pubblico e mi spiega cosa devo fare veramente (la mia amica non era aggiornata): arrivare dal fondo della sala canticchiando – io, che sono stonata come una campana – raggiungerlo e scambiare alcune battute con lui, leggere una citazione. In una parola: recitare. Più Hamid mi parla, più sudo freddo e vorrei essere altrove. Accenno un “forse non sono la persona giusta...”. Non se ne parla neanche: alla fine dello spettacolo mi ritroverò “in scena” accanto ad Hamid e Daniele. 

Lo spettacolo è “Le scimmie verdi”, la sala quella che ospita la prima presentazione ufficiale, a Milano, del Forum africano (African Forum in Italy - AFI), e loro, soprattutto, sono Hamid Barole Abdu, scrittore e poeta eritreo, e Daniele Barbieri, giornalista, formatore e autore di antologie di fantascienza per la scuola. Dal 2007 portano in giro questo spettacolo (“Ormai lo chiamo così anch’io ma per me resta un ornitorinco, cioè una bestia strana”, scherza Daniele), che racconta, attraverso un dialogo, come si sente uno straniero nei panni di un italiano, e viceversa un italiano nei panni di un migrante. Il titolo è ispirato a un racconto di fantascienza, di Thedore Sturgeon. La durata è circa 35 minuti, che diventano 45 quando li accompagna un musicista. E la terza scimmia, ragazza o donna che compare alla fine, cambia ovviamente da città a città.

Entrare – fisicamente – nei panni dell’altro: di questo si tratta. Daniele e Hamid si scambiano, fin dall’inizio, vestiti e identità. Daniele allora diventa un immigrato, consapevole della propria cultura e storia, a volte vittima, a volte forte e fiero della propria appartenenza. A sorpresa, non gli mancano i pregiudizi verso gli italiani. Forse gli stessi pregiudizi, rovesciati, che emergono dai discorsi di Hamid, diventato, a sua volta, l’italiano Daniele: “Mia sorella dice che gli extracomunitari dovrebbero stare a casa loro, semmai mandiamo noi gli aiuti, basta che non si affaccino a casa nostra. E poi, hai mai visto il funerale di un cinese? Dove vanno a finire quando muoiono? Li mangiano, dice qualcuno…”. E via discorrendo.

Le scimmie verdi” è tante cose: uno spettacolo, una sorta di performance, un reading. È composto da battute e discorsi seri, citazioni più o meno esplicite, episodi e racconti tratti da esperienze reali. 

I temi toccano il razzismo, le identità, il “diverso” nelle sue varie forme, la sicurezza, i pregiudizi, le convivenze possibili… e un futuro da costruire insieme a chi ascolta. Sì, perché tra gli attori c’è anche il pubblico, spesso chiamato in causa. Un esempio per tutti è una domanda del “falso Daniele”: “Tempo fa ho comprato una maglietta. C’è una lente di ingrandimento e la scritta: Visto da vicino nessuno è normale. Voi che ne dite?”.

Scimmie verdi, dunque, ossia diverse. Per ricordarci che siamo “tutti simili ma un po’ differenti. Tutti alieni, sconosciuti, diversi. C’è un alieno razziale, uno sessuale, uno sociale, uno mentale, uno religioso, uno politico…”. Perché, ancora, “il nemico siamo noi. Nello sguardo degli altri”. Sguardo che talvolta si sorprende e resta senza parole, come in questo piccolo episodio, descritto da Daniele: “Un giorno, ad agosto, ero su una spiaggia. Con la coda dell’occhio noto un ragazzo che gioca a pallone. Corre. Salta. Poi lo sento dire agli amici: Vado a fare un bagno. Con sorpresa e, posso dirlo?, con un certo panico, lo vedo svitarsi una gamba prima di immergersi in acqua”. 

E ancora, lo spettacolo mostra che “Ognuno è scimmia verde, o può esserlo… da qualche parte”. Daniele e Hamid arriveranno a dirsi: “qui in Italia sì la scimmia verde sei tu, ma in un altro posto la scimmia verde magari sono io”. L’importante è, poi, andare oltre questa affermazione, anche grazie a una citazione da Aimé Césaire, poeta delle Antille: “Soprattutto mio corpo, e anche tu anima mia, state attenti a non incrociare le braccia nell’atteggiamento sterile dello spettatore, perché la vita non è spettacolo, perché un oceano di dolore non è un palcoscenico, perché un uomo che grida e urla non è un orso che balla”.

In genere, racconta Daniele Barbieri, “le reazioni del pubblico sono divertite e interessate, proprio come volevamo. Ogni tanto c’è chi contesta e anche questo è ottimo. Spesso la voglia di parlare prende una forma pubblica, cioè il dibattito, qualche volta privata: persone che intervengono a microfoni spenti o addirittura ci scrivono giorni dopo”. Daniele si sofferma, poi, su due episodi in particolare: “Mi ha colpito… al cuore: una signora maghrebina che a Padova, dopo lo spettacolo, raccontò piangendo una sua storia. Ma quasi mi fulminò il ragazzo che (vicino a Bergamo, se la memoria non mi inganna) disse: ‘voi concludete lo spettacolo urlando: perché? Ditecelo voi perché succede’, lasciando me e Hamid basiti visto che spiegare i tanti volti del razzismo in due parole è quasi impossibile”.

Il bianco e il nero

Dello spettacolo esistono versioni diverse: l’“ornitorinco” cambia nel tempo, in parte adattandosi, com’è naturale, a ciò che leggiamo tutti i giorni sui giornali. Ecco qualche dettaglio in più, dalla voce dei protagonisti: “Su 120 repliche circa non è esagerato dire che lo spettacolo è sempre diverso: c’è il gusto della battuta sul fatto del giorno o l’improvvisare su una notizia locale. Se però guardiamo alla sostanza, lo spettacolo è mutato molto le prime 15-20 volte, cercando un suo equilibrio narrativo e soprattutto evitando che il testo vada troppo a ‘soccorrere’ il bianco o il nero: non per par condicio, ma convinti che tutte e tutti siamo purtroppo un po’ razzisti anche quando ci crediamo immuni”. Interessante quest’ultimo punto: lo spettacolo lo affronta di continuo, e con un sorriso, mostrandoci come alcune debolezze legate a modi di pensare e ad atteggiamenti razzisti ci appartengano e ci accomunino. Recentemente “Le scimmie verdi” ha subìto tre piccole mutazioni, dando luogo a un testo semplificato per gli studenti delle medie inferiori, uno più centrato sui rifugiati (“ce lo chiese una sezione di Amnesty International”, precisa Daniele Barbieri) e un terzo più “africano”, “perché amici della diaspora africana ci hanno chiesto di mettere in evidenza alcune questioni che normalmente accenniamo appena”. 

Chiedo, poi, ad Hamid come si sente nei panni del “bianco” Daniele, se entra mai in crisi, e mi risponde deciso: “No, anzi è la cosa che mi diverte di più! Scatta dentro di me un meccanismo per cui dico tutte le cattiverie che può dire un razzista… e lo faccio con un cinismo tale che quasi ne godo. In diverse occasioni mi è capitato di raccontare episodi di razzismo (strisciante o eclatante): la reazione degli italiani è sempre stata quella di minimizzare o di farmi passare per paranoico, oppure per uno che soffre di manie di persecuzione. Invece mi accorgo che, in questo ruolo di scambio di identità, la gente reagisce dicendo: è vero! è proprio così! Quando vedono Le scimmie verdi, e me che, travestito da Daniele, parlo male dei NEGRI, allora sì che accettano”.

Alla fine dello spettacolo, mentre mi inchino insieme a lui e Daniele, Hamid per un attimo mi stringe forte la mano. E io rido e sono proprio contenta di aver conosciuto queste scimmie verdi.

 

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