“TEL AVIV, Ingiusto andare in carcere perchè ci si rifiuta di imbracciare un fucile”

22 aprile 2010
Aldo Fiore (Tommaso Valentinetti)

 

Nei giorni in cui il “barometro” della speranza per una pace in Medio Oriente torna debolmente a salire, è opportuno non dimenticare il dramma che alcune centinaia di persone stanno vivendo in Israele a causa del mancato riconoscimento di quello che consideriamo un diritto fondamentale di ogni cittadino e cittadina. L’odierna Giornata internazionale dell’obiezione di coscienza che si celebra in tutto il mondo, è dedicata proprio a quei soldati, giovani e meno giovani, (effettivi, riservisti, reclutati) che non intendono servire il loro Paese all’interno delle Forze armate.
Secondo un rapporto presentato alla Commissione dei Diritti Umani dell’Onu, basato su stime delle organizzazioni pacifiste israeliane, tra il settembre 2001 e il gennaio scorso, più di 180 obiettori sono stati imprigionati per motivi di coscienza, per un totale di oltre 6.500 giorni di carcere.
Siamo sinceramente convinti che non ci sarà pace duratura nella “Terra Santa” fino a quando tutti i cittadini, israeliani e palestinesi, non godranno degli stessi diritti ciascuno in un proprio Stato, secondo le regole della pacifica convivenza. Ma siamo altrettanto convinti che la via per arrivare alla pace non è quella delle armi. Per questo ci sentiamo vicini a quanti rifiutano, per motivi di coscienza, di imbracciare un fucile e di puntarlo contro altri uomini e donne che qualcuno ha definito “nemici”. E questo vale, sia ben chiaro, a tutte le latitudini.
Da militare qual è l’attuale Primo Ministro israeliano, dovrebbe immaginare quale può essere il dramma che un uomo “in divisa” vive nel momento in cui rifiuta di obbedire ad un ordine perché lo ritiene in contrasto con la propria coscienza e con i propri convincimenti morali e religiosi. Noi crediamo che non sia giusto che queste persone paghino col carcere questa loro obbedienza a Dio e alla propria coscienza e che sia doveroso, per ogni Paese democratico, avere leggi che riconoscano il diritto all’obiezione di coscienza al servizio in armi e che prevedano, allo stesso tempo, un servizio alternativo. Non a caso, secondo l’attuale legislazione, proprio l’impegno negli studi religiosi (da parte delle donne ebree, così come dei Drusi e degli uomini ebrei religiosi) è motivo di esenzione dal servizio militare, il che costituisce da anni motivo di dibattito nella società israeliana.
Due sono le richieste che le organizzazioni che hanno a cuore il destino degli obiettori di coscienza israeliani avanzano al governo di Tel Aviv, sulla base dell’articolo 18 della Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, ratificata anche dallo Stato d’Israele. La prima richiesta è di riconoscere il diritto all’obiezione di coscienza e di promulgare una legge conforme alle prescrizioni delle risoluzioni 1998/67 e 2002/45 della Commissione dei diritti dell’uomo dell’Onu. Di fatto, solo alle donne (che, al pari degli uomini, sono obbligati al servizio militare, caso unico al mondo) è ufficialmente riconosciuto il diritto all’obiezione, passando per una commissione militare comunemente chiamata, non a caso, “comitato di coscienza”.
La seconda richiesta è di liberare immediatamente tutti gli obiettori imprigionati e di rinviare l’incorporazione di tutti coloro che dichiarano la loro obiezione al servizio militare e questo fino a quando non sia adottata una legge ad hoc. Quest’ultima richiesta assume un carattere eminentemente umanitario perché la “spirale delle condanne” (che gli obiettori italiani di 30 anni fa ben conoscono) fa sì che gli obiettori siano condannati a ripetizione (in alcuni casi anche 7-8 condanne) e siano sottoposti alla Corte marziale, la quale può condannare un obiettore fino a tre anni di prigione.
Il coraggio di tante persone che stanno pagando di persona il loro rifiuto della violenza, può insegnare che solo “deponendo le armi” si può cercare di costruire una pace duratura.

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