LA CHIESA ITALIANA E LOBIEZIONE DI COSCIENZA AL SERVIZIO MILITARE

17 maggio 2010
Aldo Fiore

 

Introduzione

L’obiezione di coscienza al servizio militare, anche grazie ai dibattiti che si sono consumati per la riforma, non ancora andata in porto, della legge 772, che regola questa materia, fa ormai parte della cultura italiana, anche della gente più comune. Numerose sono le pubblicazioni che si sono interessate all’obiezione di coscienza, dal punto di vista storico, giuridico, etico e religioso2.
Sempre più elevato è il numero dei giovani che ogni anno scelgono di servire la patria in modo nonviolento, per motivi filosofici, morali e religiosi. Coloro che obiettano in nome della loro fede cristiana, tuttavia, non trovano una risposta ed un orientamento preciso e unanime da parte della chiesa italiana. Non è infrequente trovarsi di fronte a posizioni diametralmente opposte a seconda che si ascolti l’uno o l’altro vescovo o, addirittura, l’uno o l’altro discorso del papa.
Il presente lavoro tenta di decifrare la schizofrenia della chiesa italiana in relazione all’obiezione di coscienza e, più in generale, ai temi della ricerca della pace e della nonviolenza, cercando di capire a quali condizioni avrà futuro questo filone della riflessione dei credenti.
L’indagine storica è limitata al periodo che ha seguito l’approvazione della legge 772, anche se, essendo l’obiezione una materia che chiama in campo i cristiani sul terreno politico ed istituzionale, si è resa necessaria la ricerca delle radici contemporanee della presenza politica cattolica in Italia, negli anni trenta e quaranta del nostro secolo. Al di là della collocazione partitica che i vari progetti hanno trovato nel corso degli anni, già in quel periodo si evidenziarono le due anime della presenza cattolica in Italia: quella che preferiva l’affermazione dei valori cristiani ai privilegi e alla visibilità delle istituzioni cattoliche e quella che riteneva la gestione della cosa pubblica da parte dei credenti e la cristianizzazione delle istituzioni l’unica via per mantenere la connotazione cattolica dell’Italia.
L’obiezione di coscienza al servizio militare, istanza condivisa e, in questo secolo, promossa dal mondo laico, ha trovato sostegno nella prima anima di cui si è detto, ma continua ad essere poco accolta dalla seconda.
Il Concilio Vaticano II ed il cammino pastorale della chiesa italiana postconciliare, che pure hanno avuto parole chiarificatrici sui temi della laicità e della secolarizzazione, rimangono un punto di riferimento, ma aspettano di essere attuati nella vita della comunità cristiana, chiamata sempre ad intraprendere le strade lasciate aperte dal magistero. A poco servono le direttive ufficiali se non vengono condivise e scelte dal soggetto che costituisce la chiesa: il popolo di Dio.
Se questo è vero, risulta determinante, e l’indagine storica lo vorrebbe manifestare, il ruolo, non sempre pienamente consapevole, degli obiettori di coscienza nella vita della chiesa. La loro presenza, le loro scelte ed esigenze diventano istanze del popolo di Dio, di fronte alle quali i pastori non possono rimanere indifferenti. Tanto più che la loro attività coinvolge ormai vari soggetti ecclesiali: istituti religiosi, Caritas, associazioni e movimenti. Insieme essi contribuiscono a far uscire la chiesa dai compromessi tra ricerca della pace e guerra giusta, tra giusta valorizzazione della secolarizzazione e paura di essere fagocitata dal mondo laico, tra primato dei valori e ricerca di alleanze con chi le assicuri un alto peso specifico nelle istituzioni del Paese.
La scelta nonviolenta non è dunque solo questione di strategia più o meno efficace per raggiungere la pace e la soluzione dei conflitti: con le sue implicazioni evangeliche essa indica alla chiesa un preciso stile con cui essere presente nelle vicende politiche e sociali.

IL PROGETTO POLITICO NELLA CHIESA ITALIANA DEGLI ANNI TRENTA

La figura dominante nel mondo cattolico degli anni ’30 è sicuramente Pio XI: la voce del papa assume in quel periodo un ruolo decisivo, così come nei secoli precedenti. La stagione del Concilio ecumenico vaticano II non aveva ancora restituito ai vescovi la propria dignità ed ai laici il loro precipuo ruolo nell’edificazione del Regno di Dio nelle realtà temporali. Il papa spicca quindi come immagine quasi isolata del cattolicesimo.
Pio XI usufruì della propria posizione per realizzare il suo progetto politico in Italia. Un progetto debitore dei lunghi anni vissuti come bibliotecario della biblioteca ambrosiana e quindi della cultura lombarda, scarsamente arricchito di mentalità internazionale, vista la breve esperienza diplomatica in Polonia.
Innanzitutto Achille Ratti diffidava dello stato liberale, responsabile del dissidio tra chiesa e stato. Ritrovare la conciliazione tra i due soggetti, magari attraverso un differente cammino istituzionale, fu una delle sue grandi ansie.
Il valore irrinunciabile della libertà non apparteneva alla sua cultura, come pure l’opzione preferenziale per i sistemi democratici3.
Gli stava maggiormente a cuore la restaurazione dell’ordine, visti i difficili anni del primo dopoguerra, e un’idea tradizionale di autorità. Grazie a questi valori, debitamente spartiti tra autorità civile e religiosa, si poteva giungere alla sospirata, e mai dimenticata, società integralmente cristiana, la ‘societas christiana’ tanto cara al cattolicesimo intransigente. Pur non provenendo, per formazione, da questa corrente, Pio XI sentiva fortemente il senso della superiorità della religione sulla politica e della chiesa sullo stato.
L’incontro col fascismo, e soprattutto quello dei primi anni, non poteva non trovare il consenso di questo papa: in esso vi vedeva il superamento dei limiti dello stato liberale, grazie ai patti lateranensi, e la possibilità di trovare un braccio secolare sufficientemente informato di spirito cristiano.
La chiesa di Pio XI ... riteneva di poter ottenere dal fascismo la realizzazione di quello stato cattolico che rappresentava, a fronte della ‘ipotesi’ offerta dalla società liberale, la ‘tesi’ della dottrina sociale cattolica; o per lo meno di potersi avvicinare a quel modello più di quanto non le fosse mai stato consentito in passato4.
Con la "Quadragesimo anno" il pontefice delegava, di fatto, allo stato fascista e corporativo ogni problema di ordine temporale, riservandosi di intervenire, come aveva fatto nel caso dell’Action française, qualora l’autorità politica avanzasse strumentalizzazioni o pretese egemoniche sulla chiesa. Egli avocava così alla compagine ecclesiale un compito tipicamente religioso: edificare una solida struttura ecclesiastica volta a diffondere e a rafforzare una spiritualità di tipo lombardo e tridentino. In questo quadro si capisce l’invio di vescovi e preti lombardi nelle regioni del sud.
L’azione di Pio XI portò con sé due conseguenze durature nella vita della chiesa italiana: da una parte la valorizzazione quasi esclusiva dell’Azione cattolica (AC), promossa in modo capillare nell’intero territorio nazionale, strumento e veicolo del compito educativo spirituale che la chiesa si era riservata; dall’altra, una netta soluzione di continuità con la tradizione del cattolicesimo sociale, che tanta parte aveva avuto nella vita ecclesiale e sociale dei decenni precedenti: il suo compito era ormai passato nelle mani quasi onnicomprensive del regime corporativo.
Si ebbe la verifica di tale duplice conseguenza all’indomani della Conciliazione nello scontro del 1931 tra chiesa e fascismo. Tale crisi si innestava sul problema dell’azione sindacale, data l’iniziativa della gioventù cattolica romana di sviluppare sezioni specializzate tra gli operai. C’erano inoltre le tensioni tra FUCI e GUF sul terreno dell’educazione della gioventù. La tensione raggiungeva il culmine in occasione di un’assemblea di AC per il quarantesimo della "Rerum novarum": erano i temi sociali ad attirare l’attenzione fascista. Quando Mussolini intervenne sciogliendo i circoli giovanili di AC, la risposta del papa fu molto dura sul problema della formazione della gioventù, mentre mancò qualunque difesa delle iniziative sociali delle organizzazioni cattoliche.
La successiva diocesanizzazione dell’AC indeboliva decisamente la sua fisionomia e le sue potenzialità di organizzazione centralizzata di massa5.
Chi invece aveva cercato di valorizzare il cattolicesimo sociale era stato Luigi Sturzo che, pur in esilio negli anni ’30, grande influenza esercitava nei vari progetti di presenza politica cristiana in Italia.
Con la fondazione del Partito popolare (PP) egli aveva voluto affermare i valori autenticamente cristiani nella dinamica accettazione dello stato liberale. Il suo volle essere un partito aconfessionale, anche se intriso di spirito cristiano. I valori proposti, il suo programma, non volevano l’appoggio del potere ecclesiastico, ma volevano essere punto di convergenza di forze anche diverse, ma unite dallo stesso fine. In questo modo la società italiana si poteva cristianizzare dal di dentro; avrebbe potuto, pur nella laicità e in una giusta visione di secolarizzazione, veicolare i principi genuinamente cristiani, senza che questi venissero calati dall’alto.
Base del partito erano le popolazioni rurali aggregate nelle parrocchie e nei gruppi cristiani socialmente impegnati. Grazie a questa base di massa, attratta al suo disegno, Sturzo si riproponeva non di abolire ma di riformare lo stato liberale accogliendo le rivendicazioni del cattolicesimo sociale degli anni precedenti e prospettando la rinascita del mezzogiorno italiano6. Essa non doveva venire da un intervento dall’esterno (dallo stato, dalla chiesa o da qualche altra realtà), ma grazie alla mobilitazione delle migliori energie del Meridione italiano. Dovutamente organizzate, le forze agrarie meridionali si dovevano inserire nel gioco dello stato liberale imponendosi per capacità propria. Solo così la rinascita poteva essere duratura.
Di fatto Sturzo non riuscì a scardinare il meccanismo clientelare che aveva fatto del sud italiano la riserva elettorale dei liberali e che vi avrebbe preparato poi quella democristiana, con la conseguenza della cronica arretratezza dell’Italia meridionale.
Oltre a quello meridionalista, rimase incompiuto anche il sogno pluralista di Sturzo. Pio XI, se non ostacolò il cammino popolare, lo sacrificò all’apparire della possibilità di un accordo col fascismo che ricompattasse i cattolici in politica. Inoltre, papa Ratti rimase piuttosto estraneo al pluralismo sturziano forse anche per una diversa idea di impegno nel "politico" del clero che lo portava a disapprovare l’operato di Sturzo e a trovare nell’impegno religioso la prerogativa clericale.
Ancora più contrario al disegno sturziano era Giovanni Battista Montini. Per cultura ed origini si rifaceva al cattolicesimo lombardo che aveva come punto di riferimento Filippo Meda. Intorno a Meda si erano coagulate una serie di posizioni più favorevoli alla collaborazione coi liberali, moderate sul piano sociale ed insieme inclini ad una più esplicita ispirazione cristiana del partito.
Montini aveva aderito al PP perché tale gesto era espressione della sua adesione alla tradizione cattolica: ma si opponeva esplicitamente al "materialismo" della sinistra popolare e di Miglioli, le cui posizioni non avevano nulla di comune con la "tradizione cattolica" e con "l’idea cristiana e sociale di Patria"7.
Montini rimproverava a Sturzo di essersi spinto troppo avanti nella strada dell’assimilazione del PP agli altri partiti, trascurando la complessa situazione dei rapporti tra chiesa e stato e i particolari obblighi che ne derivavano ai cattolici. In campo politico i cattolici dovevano anteporre sempre ad ogni altro obiettivo gli interessi della chiesa: ed il PP rivendicava invece, secondo Montini, autonomia dalla chiesa (anche se, senza la sua approvazione, non sarebbe nato né avrebbe potuto continuare ad esistere) distaccandosi dalla storia del movimento cattolico (sorto in concomitanza col "non expedit") dimenticando gli obblighi ed i limiti che il dissidio tra chiesa e stato in Italia imponeva ad un partito di cattolici8. Inoltre, al mancato appoggio della chiesa al PP il futuro Paolo VI attribuiva in gran parte l’ascesa del fascismo.
È evidente una diversa idea di presenza cristiana nel mondo politico: il pluralismo di Sturzo e la sua adesione incondizionata alla democrazia impedivano al PP di essere strumento della restaurazione cattolica voluta da Montini, il quale dava al partito cattolico il ruolo di ricostruire l’unità italiana sulla base della tradizione cristiano-cattolica. Un partito che fosse cattolico soprattutto in ragione dei suoi quadri: non a caso Montini si impegnò a fondo nella formazione di una classe dirigente che, grazie alla base di massa, potesse influire decisamente sulla conduzione del paese stesso.
Servizio alla verità, obbedienza al magistero della chiesa, primato del pensiero, propaganda della verità erano i cardini del suo programma formativo, esplicato soprattutto all’interno della FUCI negli anni ’20 e ’309. L’influenza di Montini, assistente FUCI, sostituto della segreteria di stato di Pio XI e di Pio XII, vescovo di Milano e poi papa, rappresentò un’importante saldatura tra il cattolicesimo lombardo, di cui si è detto, e la classe dirigente cattolica del secondo dopoguerra.
Più complessa è la figura di De Gasperi. Partito da posizioni popolari convinte, divenne segretario del PP. Ma l’esilio doveva operare in lui un cambiamento notevole. Smise di guardare indietro e di coltivare il sogno di riprendere l’esperienza popolare, cercando invece di comprendere il nuovo orizzonte delineato da Pio XI e guardando con maggiore simpatia a questo papa a mano a mano che questi si allontanava dalla collaborazione col fascismo e quindi dall’utopia di confessionalizzare tale regime e di restaurare lo stato integralmente cristiano.
Tuttavia se Pio XI aveva sbagliato strumento per indirizzare ed influenzare le masse, De Gasperi intuiva, proiettandosi nel futuro, che il rapporto chiesa-masse rimaneva centrale, immaginando forse all’interno di esso lo spazio per una nuova iniziativa politica dei cattolici.
Il distacco dalla precedente militanza politica cresceva anche in forza di un maggiore e più profondo desiderio di spiritualità, collegato alla ricerca di "giustizia, verità, libertà, dolcezza, pace"10.
Depositaria di questi valori era la chiesa romana che tanta parte aveva avuto nell’affermarli. Particolarmente importanti in questo senso sono le sue riflessioni sul Centro tedesco e sull’apporto dei primi cristiani all’affermazione della libertà; meno precisa su questi temi è l’analisi degasperiana della storia italiana dell’ultimo secolo, forse anche a motivo della sua cultura di ascendenza austriaca.
Durante la crisi del fascismo, per sottolineare questi ideali, egli sceglieva di collegarsi, nella fondazione del suo partito (dapprima pensava ad un movimento), alla Democrazia cristiana, movimento nel quale avevano trovato convergenza i cattolici impegnati nel terreno socio-politico tra fine ’800 ed inizio ’900.
Il punto di forza del pensiero degasperiano era che la cultura cristiana, ed i valori da essa veicolati, erano fortemente presenti in Italia, e tali da giustificare non solo un’aggregazione politica cristianamente ispirata e l’unità degli italiani, ma anche una minore pericolosità, in Italia, delle ideologie in se stesse ostili o contrarie al cristianesimo. Infatti, come il fascismo italiano era stato meno deleterio del nazionalsocialismo tedesco, così De Gasperi distingueva anticomunismo ed antisovietismo. La sua collaborazione coi comunisti nel Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), e fino al maggio ’47, non era fittizia poiché - egli sosteneva - il comunismo italiano non poteva prescindere da una matrice cristiana ed anzi poteva rientrare in un orizzonte di pluralismo cristiano.
Ma la posizione di De Gasperi si sarebbe modificata, per diversi fattori, nel secondo dopoguerra: l’appoggio, al suo partito, della santa sede, attraverso la mediazione di Montini; l’avanzare della guerra fredda; il pericolo di involuzioni autoritarie, innescate dalla destra del mondo cattolico. Il rapporto con le masse, che De Gasperi sapeva tenere, rafforzato dalla mobilitazione dell’AC e di Gedda, divenne lo strumento per mantenere il potere politico in mano ad una classe dirigente, formatasi in gran parte nell’AC di Montini, che rispettava e seguiva le direttive della santa sede; che teneva lontani i pericoli provenienti dagli ambienti dei cattolici moderati, come quelli che facevano capo a Ronca, e dei cattolici comunisti; che garantiva una certa continuità con gli indirizzi vaticani dell’anteguerra; che teneva lontano il pericolo del comunismo; ma soprattutto che frenava lo sviluppo di un pluralismo interno al mondo cattolico.
Il prezzo da pagare fu il discostarsi frequentemente dai propri programmi ed ideali per mantenere tuttavia la presa sul governo. Prova ne sia il rifiuto di De Gasperi, nella crisi del maggio ’47, di passare all’opposizione, come proponeva Gronchi (ed il gruppo di Dossetti) per mantenere fede alla propria identità al proprio programma, ormai incompatibili con la politica economica richiesta al governo del momento11.
Si compiva, grazie alla collaborazione di Montini e di De Gasperi, "un grandioso esperimento cattolico" volto a garantire, nella democrazia, la verità di cui erano depositari la chiesa e la maggioranza cattolica12.
Il panorama proposto, pur per accenni, sarebbe largamente incompleto se non si facesse menzione di quella che fu definita la "seconda generazione", e cioè il gruppo di cattolici più giovani che nel secondo dopoguerra si è prima affiancato e poi ha sostituito gli ex popolari della Democrazia cristiana (DC). Tra questi, alcuni erano particolarmente legati a Montini (Moro, Andreotti ...), altri meno (Taviani ...); altri ancora venivano cooptati nella DC grazie a Pignedoli: Dossetti, Fanfani, Lazzati, La Pira.
Tutti chiedevano una politica fortemente ispirata ai principi cristiani, che dovevano venire prima delle alleanze politiche, tanto care a De Gasperi. Con quest’ultimo si sarebbe scontrato soprattutto il secondo gruppo sopracitato, quello dossettiano, sui temi di politica economica e sulla concezione di partito.
Mentre il leader trentino si affidava ad un certo liberismo, a sostegno dei grandi gruppi finanziari, per riportare l’Italia nel circuito economico internazionale (si pensi alla linea Einaudi), i dossettiani cercavano soprattutto l’intervento dello stato per sanare le situazioni italiane più tragiche, in una visione più solidaristica che di efficienza economica. In loro l’attenzione al sud, mutuata forse dalla tradizione sociale popolare, aveva una impostazione diversa da quella di Sturzo e, col senno di poi, meno vincente: l’intervento statale, combinato col clientelismo elettorale, non avrebbe favorito l’attivazione delle forze più dinamiche del mezzogiorno.
Sul problema del partito De Gasperi si rifaceva al PP la cui struttura organizzativa era rappresentata dalle parrocchie e dal retroterra delle opere cattoliche: a sua volta egli prestava scarsa attenzione all’organizzazione della base. A ciò si aggiunga l’iniziativa montiniana destinata a bloccare i tentativi degasperiani di dare al partito un autonomo retroterra in campo giovanile e sindacale, avocando questo compito all’AC, alle Associazioni Cristiane Lavoratori (ACLI) ecc... De Gasperi nel complesso accettò questa divisione di compiti che lasciava alla DC uno spazio di azione strettamente limitato al terreno politico. Ispirandosi a Maritain, invece, la seconda generazione, ed i dossettiani in particolare, pensavano ad un partito con una "struttura di vita religiosa forte... tipica quasi di un istituto secolare" abbinata ad una "finalità politico sociale"13: una via di mezzo tra un ordine religioso, un’associazione spirituale ed una corrente politica. Tale partito doveva esprimere una nuova cristianità dal programma chiaro, anche se aperto ad ogni collaborazione per realizzarlo. Il partito non doveva essere lo strumento per inserire i cattolici nello stato laico e pluralista, bensì per diffondere la spiritualità cristiana.
Questo gruppo prevalse nettamente nella DC della Costituente, dove esercitò una sorta di egemonia ideologica. Ad esso si deve la convergenza con le altre forze politiche sui principi enunciati nella prima parte della Costituzione, a riprova che la forte rivendicazione dell’identità cristiana non comprometteva la collaborazione con forze profondamente diverse.
Va anche notata nei dossettiani una progressiva precisazione dell’ispirazione cristiana in politica: se durante il lavoro costituente il punto di riferimento era il magistero ecclesiastico, in successive esperienze, soprattutto Dossetti e La Pira, si rifaranno esplicitamente all’Evangelo.
Non si è parlato della figura complessa di Pio XII. Per il suo intervento nella vita politica italiana gli studi recenti14 tendono ad evidenziare una certa vicinanza agli ambienti più conservatori della curia ‘romana’.
In fase di elaborazione, dunque, e nei primi anni di vita repubblicana, la presenza politica dei cattolici risulta ben più variegata e pluralista che nel periodo successivo. Il venir meno, per diversi motivi, di alcune rilevanti figure cristiane dalla scena pubblica, ha avuto come conseguenza l’emarginazione o la messa in minoranza di quei gruppi che vi si richiamavano.

LA LEGGE 772: IL CAMMINO DI APPROVAZIONE

Il 15 dicembre 1972 veniva approvata in Italia la legge sul servizio sostitutivo alla leva militare per gli obiettori di coscienza. Fu il punto di arrivo di un lungo itinerario di riflessione e di gesti coraggiosi. Solo nell’ultimo decennio che precedette la legge si manifestò un movimento che l’appoggiasse: in precedenza l’impegno fu soprattutto di singoli che per convinzioni filosofiche o religiose si ponevano radicalmente il problema della liceità morale di usare la violenza omicida.
Significativo il caso di Sturzo. Rispondendo in un’intervista ad un periodico francese, diretta a combattere tendenze monarchiche, nazionalistiche e reazionarie, il fondatore del PP, tra le altre affermazioni contro la guerra, diceva testualmente:
Non può crearsi un movimento artificiale e fittizio di ‘obiezione di coscienza’. Se vi sono individui veramente convinti che il loro dovere di coscienza è di rifiutare ogni servizio militare, in tempo di pace ed in tempo di guerra, essi si sentiranno obbligati a seguire la voce della propria coscienza, e lo stato nel colpirli sarà moralmente il più debole. L’obiezione di coscienza non è che una negazione pratica e cosciente del diritto dello stato a fare la guerra. È un conflitto tra un ordine stabilito ed un ordine ideale. Si dirà: "Così si fomenta la ribellione e l’anarchia". Inesatto: se la gran parte dei cittadini fossero obiettori di coscienza, cesserebbero le guerre. Poiché questi sono invece una sparuta minoranza (almeno oggi) essi formano l’opposizione di coscienza, che è convinzione di un bene ideale; essi in moltissimi casi pagano di persona le loro idee15
La prima rilevante discussione politica sull’obiezione di coscienza si ebbe in assemblea costituente. Nel corso dei lavori preparatori per la stesura dell’articolo 52, l’on. Caporali presentò un emendamento volto ad assicurare "l’esenzione dal portare le armi per coloro i quali vi obiettino ragioni filosofiche e religiose di coscienza"16. A difesa dell’emendamento il proponente precisò che "obiettare vuol dire compiere un atto meritorio, condannando quello che la guerra ha di più crudele ed orribile; e vuol dire soprattutto negare la guerra"17. Il democristiano Merlin, relatore della commissione, depistò l’argomentazione su ragioni religiose, rivendicate da qualche setta, "per non arrivare a conseguenze assai pericolose"18. Tuttavia, approvato l’art. 52, alcune categorie risultarono esenti dalla coscrizione obbligatoria: ex partigiani, donne, inabili e ministri di culto. Grazie a tali esenzioni, la Costituzione non escludeva completamente la possibilità dell’obiezione: sarebbe bastato aggiungere un’ulteriore categoria di esentati, quella degli obiettori.
La possibilità fu presa in considerazione due anni dopo: il 3 ottobre 1949, il socialista Calosso ed il cattolico Giordani presentarono un disegno di legge che regolasse l’obiezione di coscienza. Tale progetto, inviato alla commissione competente e mai tornato in Parlamento, nacque in seguito al primo clamoroso caso di obiezione di coscienza al servizio militare: quello di Pietro Pinna. Prima di lui si conoscono pochissimi casi verificatisi durante la prima guerra mondiale: Luigi Luè, Giovanni Gagliardi e Remigio Cuminetti che si rifiutarono di prendere le armi a motivo della fede cristiana. Dopo la seconda guerra ci furono poi i casi di Rodrigo Castiello (pentecostale) ed Enrico Ceroni (testimone di Geova): ma le due obiezioni non suscitarono grande interesse, anche perché i gruppi religiosi cui Ceroni e Castiello appartenevano proponevano, allora ed anche in seguito, l’obiezione di coscienza come scelta personale, senza particolare interesse per l’incidenza politica del fenomeno.
Diverso il caso di Pinna, discepolo di Aldo Capitini il quale faceva della nonviolenza il nucleo della propria impostazione religiosa e politica e che si prodigò affinché il caso Pinna non rimanesse sconosciuto. La motivazione principale che spinse Pinna ad obiettare non fu quella di fede, anche se la tensione religiosa, se pur di tipo spontaneo, era in lui ben presente e fu una delle cause che lo mossero. Tanto che nel suo memoriale egli criticò la chiesa cattolica per aver tradito gli interessi spirituali in essa riposti19.
A favore del giovane obiettore si pronunciarono, il 26 ottobre 1949, ventitrè parlamentari britannici, presieduti dal laburista R.W. Sorensen, interpellando direttamente, tra gli altri, De Gasperi. Ma quest’ultimo rispondeva che l’obiezione di coscienza è uno di quegli istituti giuridici che possono essere introdotti solo con estrema cautela nelle Nazioni che hanno esercito permanente e servizio militare obbligatorio, affinché non siano snaturati nella loro essenza e nel loro fine20.
Neppure i politici di sinistra appoggiarono Pinna: il Partito comunista italiano (PCI), sin dalla Costituente, temeva che l’obiezione di coscienza generasse la necessità di un esercito di mestiere gradito alle destre, mentre l’esercito popolare era garanzia per la democrazia. Scontata fu l’opposizione della destra.
Anche la chiesa cattolica valutò negativamente il comportamento di Pinna attraverso ‘Il Quotidiano’, organo ufficiale dell’AC, e soprattutto con l’intervento di A. Messineo nel numero di inizio febbraio 1950 de ‘La Civiltà cattolica’. Vi si affermava l’inopportunità di rifarsi alla dottrina cattolica e alla storia del cristianesimo nel preambolo della proposta di legge Calosso-Giordani. Seguiva un excursus storico che giustificava il servizio militare dei cristiani. Infine Messineo concludeva sostenendo che "i giudici che hanno condannato il giovane Pinna ... hanno fatto il loro dovere e la Camera compirà il proprio respingendo la proposta di legge"21. Gli attacchi del gesuita all’obiezione non si sarebbero fermati qui.
La rigida posizione de ‘La Civiltà cattolica’, e quindi in certa misura della gerarchia ecclesiastica, non impedì che emergessero nella chiesa figure significative che diedero un grande contributo all’affermazione del diritto di obiettare. Proprio in quel periodo don Mazzolari pubblicava, tra mille difficoltà, il libretto anonimo intitolato "Tu non uccidere", contenente le sue tesi sull’obiezione di coscienza.
A favore di Pinna si schierarono anche gli anarchici.
Gli anni successivi rappresentarono una sorta di continuazione della discussione innescata dal caso Pinna, attorno ad altri casi simili. Gli anni ’50 sono caratterizzati dallo scemare dell’interesse dell’opinione pubblica sull’obiezione di coscienza, nonostante i coraggiosi gesti di altri giovani obiettori: Elevoine Santi, cattolico; Pietro Ferrua, anarchico; Mario Barbani che fu sostenuto da numerosi giovani e da un prete cattolico; Giuliano Pontara che evitò il servizio militare emigrando all’estero, divenendo poi un pacifista convinto; Antonio Baldo, evangelico; Giuseppe Aronne, pentecostale. Quasi tutti subirono il carcere militare: fu l’occasione, per essi e per i detenuti che li seguirono, per protestare contro il duro trattamento subito dai carcerati e per difenderne i diritti civili. In questo senso, la presenza di testimoni di Geova e pentecostali obiettori, numerosissimi, nei penitenziari italiani contribuì all’approvazione della legge.
Da segnalare, il 28-29 ottobre 1950 il primo convegno italiano per l’esame dei problemi dell’obiezione di coscienza in cui si cercò di migliorare il progetto di legge Calosso-Giordani. Un altro congresso per il riconoscimento legale dell’obiezione in Italia si tenne a Roma il 3 giugno 1956. Numerosi intellettuali, religiosi e pacifisti, tra i quali Capitini, uno degli organizzatori, aderirono all’iniziativa. Al termine fu dato incarico a una commissione privata di giuristi di raccogliere gli elementi necessari per predisporre un disegno di legge. L’anno dopo, il 20 luglio 1957, sette deputati del Partito socialista italiano (PSI) presentarono alla Camera una proposta sui "Provvedimenti per gli obiettori di coscienza"22. La proposta Basso, così venne chiamata dal nome del primo proponente, ispirata ad una concezione più liberaleggiante rispetto alla Calosso-Giordani, rappresentò sicuramente un passo avanti, ma con il termine della seconda legislatura decadde senza essere nemmeno discussa.
Gli anni ’60 si caratterizzarono per il maggior peso politico che acquistò l’obiezione di coscienza al servizio militare.
Mentre negli anni cinquanta l’obiezione era un gesto isolato e profetico, nel decennio successivo essa diventò un’azione collettiva, e dietro ad ogni obiettore c’era un gruppo che si adoperava per pubblicizzare la sua scelta. Fu proprio questo carattere popolare, che acquisì l’obiezione di coscienza, a renderla visibile23.
Alcuni episodi assumono un particolare rilievo. Tra il 31 dicembre ’59 ed il 3 gennaio successivo si tenne un processo simbolico all’obiettore, organizzato dal centro valdese di studi religiosi ‘Agape’: la difesa sostenne che l’obiezione di coscienza rappresenta un atto di obbedienza a Cristo, il quale ha imposto l’imperativo categorico di non uccidere.
Nel settembre 1961 il sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, scelse la disobbedienza civile alla commissione ministeriale sulla censura che aveva vietato la proiezione in Italia del film "Non uccidere" di Claude Autant-Lara perché, esaltando la figura dell’obiettore di coscienza, configurava il reato di istigazione a delinquere. Il film fu proiettato, pur con le precauzioni del caso, a Firenze per richiamare l’attenzione - erano le motivazioni del sindaco - dei governanti sulla possibilità della guerra e sulla necessità di edificare gli stati sul pieno rispetto delle coscienze. Il gesto fu deplorato dal ministro della difesa Giulio Andreotti e dall’‘Osservatore romano’; e La Pira dovette affrontare un’azione giudiziaria contro di lui. L’anno dopo il film ottenne il nulla osta, con dei tagli di pellicola, per la proiezione in Italia, mentre la Francia di De Gaulle permetteva l’obiezione di coscienza con una legge apposita.
Intanto nel ’61 si costituì a Roma un comitato nazionale che aveva lo scopo di promuovere una campagna per ottenere il riconoscimento giuridico dell’obiezione di coscienza, al quale aderirono numerose personalità, tra cui Capitini, G. Calogero, N. Chiaromonte, i deputati P. Rossi, R. Lombardi, G. Perrone Capano, lo scrittore I. Silone e gli avvocati A.C. Jemolo, L. Piccardi, G. Peyrot.
Nel giugno ’62 l’on. Basso presentò un nuovo disegno di legge analogo a quello del 195724. La proposta fu respinta dalle forze di governo. A favore si schierarono socialisti e comunisti. Due democristiani, Veronesi e Bologna, si astennero ritenendo che il problema dovesse comunque essere affrontato: gli altri democristiani furono in genere contrari, se non ostili come Guerrieri che definì l’obiezione di coscienza "esempio di estrema viltà dell’uomo" privo di amor di patria25.
Il primo obiettore in Italia per motivazioni religiose fu, nel 1962, Giovanni Gozzini, un ventiseienne laureato in legge. In carcere scrisse una lettera che chiariva le motivazioni della sua scelta e che si chiudeva con un’adesione alla chiesa. Al processo, i testi per la difesa furono Capitini ed il salesiano Gennaro Proverbo. Quest’ultimo, sollecitato da un giudice a definire la posizione della chiesa sul problema, rispose:
Posso citare il cardinale Gasparri che nel 1917 ... propose un’intesa di tutte le nazioni per evitare la coscrizione militare; affermazioni che nel mio ambiente non mi risultano smentite. La dottrina cattolica su vicende come quella di Gozzini non ha né affermazioni a favore, né contrarie26.
L’‘Osservatore romano’, sul processo Gozzini, si attardava a descrivere la posizione dei sostenitori, di estrema sinistra, degli obiettori, osservando che essi sostenevano l’obiezione nel mondo capitalista, mentre ad est, dove non era nemmeno immaginabile il rifiuto della leva, non avevano nulla da eccepire.
Anche un dirigente dell’AC, don Luigi Stefani, si sentiva in dovere di comunicare alla stampa che la dottrina della chiesa e l’insegnamento pontificio non erano del parere di Gozzini che aveva giustificato la sua scelta con motivi religiosi derivanti dalla morale cattolica. Il giorno dopo la pubblicazione di questi pareri, ‘Il Giornale del mattino’ riportava un’intervista ad Ernesto Balducci intitolata: "La chiesa e la patria", nella quale tra l’altro si affermava:
Sarebbe desiderabile che una speciale legge fosse emanata, come è avvenuto negli stati più civili, a riguardo degli obiettori di coscienza. Tanto più che oggi il cristianesimo ci ha insegnato a mettere la coscienza al di sopra di ogni altro valore storico: quando in nome della patria si spregiano gli scrupoli della coscienza e si oltrepassano i superiori limiti tra il giusto e l’ingiusto siamo già nel paganesimo. Motivo di più, questo, per avere un attimo di silenziosa ammirazione per coloro che a proprie spese testimoniano un’assoluta volontà di pace... Un cattolico in caso di guerra totale ha, non dico il diritto, ma il dovere di disertare27.
Di parere contrario si dissero, nei mesi successivi, l’‘Osservatore romano’ ed il cardinale Ottaviani.
La vicenda del prete scolopio continuò sul terreno giudiziario fino alla cassazione. La suprema corte ritenne che il religioso avesse oltrepassato il limite costituzionale della libertà di espressione del proprio pensiero, incorrendo nell’apologia di reato, e che avesse stravolto l’insegnamento della chiesa, quasi che la corte fosse la tutrice della dottrina della chiesa. P. Balducci fu condannato ad otto mesi di reclusione. In sua difesa intervenne La Pira che, a sua volta, venne accusato di apologia di reato.
Forse facendo riferimento a questi fatti, l’on. Andreotti affermava che certi preti avrebbero dovuto smettere di "sciupare il prestigio che la religione conserva fra le forze armate"28.
Da un seminario del "Movimento non violento per la pace", fondato da Capitini dopo la buona riuscita della prima marcia pacifista Perugia-Assisi del 1961, nacque nel ’63 il "Gruppo di azione non violenta", disposto a gesti di disobbedienza civile e a lotte pacifiste in favore dell’obiezione di coscienza. L’anno dopo si diffuse la mobilitazione nelle piazze.
Tra il 18 marzo ed il 14 aprile 1964 furono presentati tre disegni di legge per il riconoscimento dell’obiezione da Pistelli (DC), Basso (Partito socialista italiano di unità proletaria-PSIUP) e Paolicchi (PSI), poi unificati29. La commissione ‘affari costituzionali’ della Camera, dopo opportuna sollecitazione, approvò il seguente parere: "L’istituto dell’obiezione di coscienza non è in contrasto con l’art. 52 della Costituzione"30.
Nel 1965 un altro famoso fatto doveva proporre all’opinione pubblica l’obiezione di coscienza. A seguito della lettera di condanna di questo diritto da parte dei cappellani militari in congedo della Toscana - che "considerano un insulto alla Patria ed ai suoi caduti la cosiddetta "obiezione di coscienza", che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà31 - interveniva don Lorenzo Milani in senso contrario. La sua "Lettera ai cappellani militari" fu pubblicata da ‘Rinascita’, settimanale del PCI. Alle numerose critiche ed offese, don Milani rispose sempre serenamente ma con fermezza e nello stesso modo si espresse nella lunga autodifesa mandata ai giudici in occasione del processo, subito per apologia di reato, non potendovi partecipare a causa della malattia. In essa, oltre alle parole di stima per gli obiettori che pagavano di persona le loro scelte, affermò:
Proprio in questi giorni ho avuto conforto dalla chiesa ... Il Concilio invita i legislatori ad aver rispetto (respicere) per coloro i quali o per testimoniare della mitezza cristiana, o per reverenza alla vita, o per orrore di esercitare qualsiasi violenza, ricusano per motivo di coscienza o il servizio militare o alcuni singoli atti di immane crudeltà cui conduce la guerra32.
In effetti la mobilitazione di un certo settore del mondo cattolico, sebbene restasse una esigua minoranza, non fu indipendente da alcune posizioni, anche se isolate, assunte dai più alti vertici della chiesa cattolica. A Concilio ormai iniziato, Giovanni XXIII aveva lanciato, nell’aprile del ’63, la "Pacem in terris", l’ultima sua lettera enciclica, che avrebbe condizionato sui temi della pace il lavoro conciliare. Un’enciclica tutta improntata sui temi della pace col disarmo, il dialogo, la solidarietà. Vi si affermava: "‘Alienum est a ratione’ pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia"33.
I padri del Concilio vaticano II, a loro volta, pur non prendendo posizione contro il mondo militare, affermavano:
Non possiamo non lodare coloro che, rinunciando alla violenza nella rivendicazione dei loro diritti, ricorrono a quei mezzi di difesa che sono, del resto, alla portata dei più deboli34.
Qualche anno dopo, il 1° gennaio 1968, in occasione della prima giornata mondiale per la pace lanciata da Paolo VI, il vescovo di Bologna, Lercaro, supportato dal suo vicario generale, Dossetti, prese posizione contro i bombardamenti a tappeto nel Vietnam del nord e ne richiese la cessazione unilaterale. Erano diversi segni che i temi della pace, legati all’obiezione di coscienza, interrogavano la chiesa tutta sulla sua fedeltà al Vangelo.
Il 1° dicembre 1965 il Movimento nonviolento per la pace, il Movimento internazionale per la riconciliazione (MIR), le riviste ‘Note di cultura’, ‘Il ponte’, ‘Testimonianze’, il Corpo italiano volontari per la pace, le Unioni giovanili evangeliche battista e valdese, il Circolo cattolico F. Ozanam di Roma e le ACLI giovanili promossero una petizione al Parlamento italiano per il riconoscimento giuridico dell’obiezione di coscienza35: l’affermazione di questo diritto vedeva cristiani di diverse confessioni e non cristiani lavorare fianco a fianco.
Nel 1966 fu condannato l’obiettore Fabrizio Fabbrini che, al termine di un lungo conflitto interiore fra obbedienza alle leggi e fede professata, rifiutò la divisa a soli dieci giorni dalla fine del periodo di leva, sconfessando la tesi del disimpegno degli obiettori. Scrisse una lettera a Paolo VI per chiedergli quale fosse il parere del papa sull’obiezione, ma rimase senza risposta. Per anni poi fu presidente del MIR, uno dei gruppi che si sono maggiormente battuti per il diritto di obiettare.
Il 3 marzo 1966, l’on. Pellicani (Partito socialdemocratico italiano-PSDI) propose un suo disegno di legge36 per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza, ma non ottenne successo. Ottenne l’approvazione invece, nel novembre dello stesso anno, la legge proposta dal democristiano Pedini che introduceva in Italia una specie di servizio sostitutivo a quello militare (due anni di volontariato internazionale): una legge che cercava di tamponare l’obiezione di coscienza senza neppure chiamarla per nome.
Mentre continuavano e si diffondevano le iniziative pacifiste e nonviolente (marcia Perugia-Assisi, Milano-Vicenza ...) il 26 gennaio ’67 il Consiglio d’Europa approvò all’unanimità una risoluzione sull’obiezione di coscienza, raccomandando ai governi di adeguare le rispettive legislazioni a questi principi37.
Oltre ai socialisti, tradizionali sostenitori degli obiettori, si adoperava per il loro riconoscimento anche il Partito radicale, che tanta parte ha avuto nel portare la questione alla conoscenza dell’opinione pubblica. Tuttavia anche alcuni settori della DC cominciavano a considerare il problema: nel ’67 il comitato giovanile provinciale democristiano di Reggio Emilia lavorò alla pubblicazione di un testo sull’obiezione di coscienza interpellando le personalità politiche che si erano fino ad allora adoperate per il riconoscimento di tale diritto38.
Il 28 maggio 1968 si celebrò il processo contro l’obiettore Enzo Bellettato, un insegnante cattolico. In suo favore si mobilitò una parte del mondo ecclesiastico torinese.
Il 19 giugno 1969 si costituì a Roma la "Lega per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza" per iniziativa dei parlamentari che avevano depositato i disegni di legge sull’argomento. Nell’ottobre dello stesso anno il segretariato della commissione pontificia ‘Justitia et pax’ prendeva posizione a favore dell’obiezione. Il documento affermava che "il cattolico ... può essere un obiettore di coscienza a causa della sua formazione e della sua fede religiosa"; mostrava estrema preoccupazione perché i tribunali militari non capivano ancora i motivi di coscienza dell’obiettore cattolico; e concludeva:
Dovremmo considerare l’obiezione di coscienza ... come un segnale salutare. Non si sostituirà la guerra con delle istituzioni più umane capaci di regolare i conflitti finché i cittadini non presteranno ascolto ai principi della non violenza. J.F. Kennedy ha detto: "La guerra esisterà fino al giorno lontano in cui l’obiettore di coscienza non godrà della medesima reputazione e del medesimo prestigio del guerriero di oggi"39.
Negli anni successivi numerose furono ancora le occasioni che portarono alla ribalta l’obiezione di coscienza. Maturava il tempo dell’approvazione della legge. Si susseguirono altri progetti di legge al Senato (Anderlini, Sinistra indipendente, e Marcora, DC) e alla Camera (Fracanzani, DC; Servadei, PSI, e Martini, DC).
Nel febbraio 1971, la commissione difesa del Senato approvò un disegno di legge che, frutto delle proposte precedentemente presentate e dei numerosi emendamenti proposti nel corso delle riunioni, conteneva tutti i vizi tante volte contestati dagli obiettori. PCI e PSIUP con gli Indipendenti di sinistra, votando contro tale testo, si proposero di migliorare la legge. Tuttavia il disegno fu approvato al Senato il 27 giugno 1971. In questo periodo di dibattiti parlamentari sull’obiezione, il 18 ottobre 1971, l’abate della Basilica di s. Paolo, cui faceva capo una comunità ecclesiale di base, G.B. Franzoni, scrisse una lettera a tutti i membri della Camera sollecitandoli all’approvazione di una buona legge. "Come uomo di chiesa, oltreché come cittadino, ma convinto che quei valori di cui gli obiettori sono portatori siano davvero universali e come tali comprensibili e apprezzabili da tutti"40, Franzoni, e con lui la sua comunità ed altre ancora, si adoperò in questa ed altre occasioni per la pace e l’obiezione di coscienza.
Infine, nonostante l’opposizione dei vari settori antimilitaristi che lo volevano migliorare, il testo approvato al Senato nel giugno ’71 fu quello approvato dal Parlamento intero il 15 dicembre 1972.
La legge 772 fu il risultato di varie posizioni, fra le quali si cercò il compromesso; vi si riscontrano quindi numerosi limiti: mancato riconoscimento del diritto soggettivo ad obiettare - si offre solo la possibilità di svolgere il servizio di leva in modo diverso41 -; impossibilità di obiettare durante lo svolgimento del servizio militare42; mancanza di garanzie per l’obiettore nell’analisi che la commissione incaricata fa delle motivazioni e della sincerità dell’obiezione43; maggiore durata del servizio civile, che risulta una sorta di punizione, per garantire la serietà della scelta; la gestione degli obiettori da parte dell’esercito. Questi limiti verranno poi contestati, ed in parte ovviati, dagli ambienti favorevoli al diritto all’obiezione.
È indubbiamente chiaro l’intento legislativo di scoraggiare la scelta dell’obiezione.
Nonostante questi limiti fu tuttavia un successo l’aver costretto il Parlamento a pronunciarsi su un argomento prima sistematicamente insabbiato.
Il cammino di approvazione della legge ha visto dunque la chiesa cattolica impegnata su diversi fronti. A parte i pochi pronunciamenti ufficiali a favore dell’obiezione di coscienza, mai decisivi perché bilanciati dall’apprezzamento della scelta militare, la gerarchia si è mostrata, se non contraria, indifferente alla questione. Parallelo a questo atteggiamento fu quello della DC nella sua espressione governativa.
Grazie invece ad alcune personalità più coraggiose, il cattolicesimo di base si è, al contrario, distinto, con coinvolgimento sempre maggiore, nell’appoggio agli obiettori ed alla legge che li riconosceva.

L’OBIEZIONE DI COSCIENZA DOPO LA LEGGE

L’approvazione della legge non ha certo risolto tutti i problemi connessi con la pace. Tuttavia ha segnato un sicuro passo in avanti.
Innanzitutto è ormai cambiato il modo di pensare della gente: il servizio militare non è più un compito inderogabile dei giovani in età di leva; la legge non punisce l’obiettore, ma lo garantisce nel suo intento morale: egli agisce dentro la legge e non al di fuori di essa. Di conseguenza, anche la guerra e la risoluzione dei conflitti attraverso le armi sono stati messi in discussione: quantomeno, l’obiezione di coscienza al servizio militare è uno stimolo a farlo.
L’approvazione della legge ha anche provocato un certo rilassamento nelle fila pacifiste. Non subito, e non sempre: gli otto mesi di servizio in più rispetto alla leva militare hanno garantito una scelta seria e ponderata. Ma è innegabile che in certi periodi (dopo la circolare dei ventisei mesi44 e dopo la riduzione del servizio civile a dodici mesi) l’obiezione di coscienza è stata vista come un modo per evitare il servizio militare.
Alcuni fenomeni hanno caratterizzato gli anni successivi al 1972.
L’aumento progressivo del numero delle domande di obiezione.
Lento ma inesorabile. È forse il dato più significativo per comprendere l’allargarsi della cultura pacifista e le preoccupazioni che essa suscita negli ambienti militari. Non a caso il Ministero della difesa ha cercato in molti modi di rendere più difficoltosa questa scelta rispetto a quella del servizio militare. Ormai il numero delle domande di obiezione supera stabilmente le trentamila unità e ogni anno se ne registrano cinquemila in più45.
Le lotte per l’applicazione corretta della 772 e per l’approvazione di una legge di riforma della stessa.
Le norme di attuazione della legge furono approvate solo nel 1977. Nel frattempo, ma anche dopo, rimaneva molto alto il grado di discrezionalità del Ministero della difesa nella gestione degli obiettori. Le proteste degli obiettori, e di molti enti presso i quali venivano distaccati, si concentravano soprattutto contro i troppo larghi poteri della commissione d’indagine sulle domande di obiezione, il carattere punitivo di alcuni provvedimenti della legge e del Ministero, le precettazioni di autorità, i lunghi tempi di attesa prima di entrare in servizio. Concretamente gli obiettori agivano sia a livello individuale (autodistaccamento, autoriduzione ...), con le conseguenti procedure penali a loro carico, sia a livello di movimento, promuovendo la riforma della legge: Artali, Fortuna e Servadei (PSI), già il 3 ottobre 1975, presentarono al Parlamento la prima proposta. La nuova legge non è ancora stata approvata, ma notevoli successi sono stati ormai conseguiti: limitazione dei poteri della commissione di indagine da parte del Consiglio di stato (24.5.’85); le sentenze della Corte costituzionale che dichiara gli obiettori in servizio civile pienamente partecipi del dovere di difendere la patria (n° 164 del 24.5.’85), l’inammissibilità che gli obiettori siano giudicati dai tribunali militari (n° 113 del 23.3.’86), la riduzione della pena per chi rifiuti il servizio civile (n° 409 del 18.7.’89), l’equiparazione della durata del servizio civile a quella del servizio militare (n° 470 del 31.7.’89).
Lo strutturarsi del movimento degli obiettori.
È stato il frutto della necessità di affrontare le battaglie comuni insieme, e quindi con maggior peso politico, e nello stesso tempo un’esigenza propria del movimento nonviolento, la cui migliore forza sta nel coinvolgere il maggior numero di persone. La "Lega obiettori di coscienza" (LOC) nacque (21.1.’73) proprio con l’intento di promuovere un’adeguata risposta ai tentativi di strumentalizzare la 772 in modo discriminatorio e si adoperò poi per la riforma della legge stessa. Il 2 giugno 1988 si costituì, dopo una fase di rodaggio, la "Consulta nazionale enti servizio civile" (CNESC) che raccoglie insieme ACLI, ARCI, Caritas italiana, CENASCA, CISL, CESC, Enti ispettorie salesiani, Federsolidarietà, Italianostra, WWF. Il 27 novembre 1994, infine, è nata la "Associazione obiettori nonviolenti" (AON) che si propone il superamento del modello e dell’organizzazione militare.
Banchetti informativi, digiuni, raccolte di firme, marce, documenti, disobbedienza civile ... avevano segnato il percorso per ottenere la legge 772; gli stessi strumenti sono stati utilizzati per garantire i diritti degli obiettori e per diffondere la cultura pacifista dopo la sua approvazione. Ma le dimensioni del movimento che metteva in atto tali strategie si è andato sempre più allargando.
In tale movimento si è inserita la chiesa italiana postconciliare.

LA PASTORALE DELLA CHIESA ITALIANA DOPO IL CONCILIO

Il Concilio ecumenico vaticano II ha segnato una grande svolta nella vita della chiesa universale.
Tre i grandi temi che l’hanno interessato: la chiesa, la Parola di Dio, il mondo.
Per quanto riguarda il primo tema, la chiesa si è autocompresa e ricompresa in base a quanto di più antico le apparteneva: la Scrittura e la tradizione. Di fronte al mondo moderno in grande cambiamento essa ha rispolverato la sua antichità. Una riscoperta che l’ha snidata dal ripiegamento difensivo su se stessa, che ha segnato tutto il secondo millennio, per aprirla a due grandi tensioni: il Vangelo ed il mondo che le stava attorno.
Riconcentrandosi sull’Evangelo, la comunità dei credenti ha trovato la spinta per proiettarsi "simpaticamente" sul mondo, per portargli l’annuncio che le era proprio46.
Oltre che se stessa, la chiesa ha riscoperto il patrimonio che le era più caro: la Rivelazione divina. Essa ha ripreso il posto privilegiato che le compete nella comunità cristiana. La Parola ascoltata, contemplata, celebrata, annunciata venne rimessa al centro del mistero e della vita cristiana47.
La Parola e la giusta comprensione della chiesa, dunque, non sono una novità, bensì un patrimonio intatto che, ciclicamente rinvenuto, stimola la rinascita dell’impulso cristiano. Ma la vera novità del Concilio è il ritrovamento e l’accettazione del mondo, che hanno segnato una vera svolta epocale nella storia della chiesa.
Mai come in quest’assise la dottrina cattolica ufficiale aveva considerato così profondamente il mondo come destinatario della missione ecclesiale, e come tale, partner diverso ed autonomo.
Si trattava di fare i conti con una lunghissima storia: da millecinquecento anni il mondo era scomparso dall’orizzonte della chiesa, assorbito e integrato nell’unica "societas christiana". Ogni struttura sociale, così come lo stile di vita, erano ispirati dal pensiero cristiano. Chiesa e stato non potevano essere autonomi: uno era clericalizzato, oppure l’altra era mondanizzata; i valori cristiani erano, più che egemoni, unici ed imposti per costituzione civile. Questa, si pensava, era la migliore formula per impiantare il Regno di Dio in terra. C’era una parte del mondo che restava alla frontiera della cristianità: quella cui si rivolgeva l’attività missionaria.
Ma il secondo dopoguerra segnò una sorta di disillusione: non solo gli stati, ma anche interi popoli e la stessa cultura dell’occidente si staccavano dalla Rivelazione veicolata dalla chiesa per cercare in proprio i valori su cui fondare la vita. Si tratta del vasto fenomeno della secolarizzazione, il cui processo di formazione si può individuare nella rivoluzione francese (almeno nelle manifestazioni più eclatanti) che a sua volta è frutto di un lungo percorso di pensiero. Eppure la chiesa se ne rese conto solo in occasione del Concilio vaticano II, dopo che per secoli si era opposta alle istanze di autonomia etica e politica che venivano dalla realtà circostante.
Fino ad allora aveva combattuto le libertà moderne (di coscienza, di religione e di culto, di ricerca ...) vedendo in chi le sosteneva un nemico: ora le riconosceva, prendendo contemporaneamente atto di non aver più in mano le redini del pensiero occidentale e della marginalità culturale in cui si trovava.
Da questa consapevolezza nasceva una nuova pastorale mirante non più ad una egemonia ecclesiastica su di una società integralmente cristiana, ma ad un’egemonia dei valori cristiani in una società secolarizzata. In una parola: si cercava una società culturalmente cristiana.
La secolarizzazione veniva dunque riconosciuta come legittima. Anzi, la ragione umanistica, in forza della fede nella creazione, veniva stimata come fonte di verità in direzione della quale la chiesa si apriva al dialogo per donare e ricevere48.
Un dialogo particolarmente fecondo sui temi che vedevano la chiesa ed il mondo contemporaneo proiettati verso lo stesso fine, come, ad esempio, la pace, la giustizia, la promozione umana: è su questo terreno che l’ortodossia della chiesa doveva farsi ortoprassi, inculturando il Vangelo sui valori secolari.
In definitiva, la chiesa ritornava con entusiasmo al suo nucleo più profondo, il Vangelo, a partire proprio dalla consapevolezza di un mondo senza Vangelo. La chiesa conciliare, che prende atto della disfatta storica del suo prestigio sociale e politico, non appariva avvilita né in atteggiamento di rimpianto del passato, alla ricerca di recuperare gli spazi perduti. Era invece una chiesa dinamica, piena di fiducia prima di tutto nella Parola, poi nell’uomo e nel mondo secolare stesso.
Le chiese locali, nell’applicare pastoralmente il dettato conciliare, percorsero lo stesso cammino dei padri conciliari. Se la "Dei Verbum" (DV), la "Sacrosanctum Concilium" (SC) ed, in parte, la "Lumen Gentium" (LG) trovarono fervorosa risonanza ed applicazione, la "Gaudium et Spes" (GS) fu il vero campo di lavoro, e di battaglia, del cammino postconciliare49.
In modo particolare in Italia ci si trovò disorientati perché la situazione ecclesiale e civile non sembrava quella descritta dalla "Gaudium et Spes". Il grado di secolarizzazione italiano non era così alto come nei paesi nordici. Inoltre la DC continuava ad essere partito di maggioranza garantendo, grazie al collegamento dei suoi quadri con la gerarchia, la possibilità di una continuazione del regime di cristianità.
Inoltre, in ordine alla ricezione del Concilio, le due tendenze, spiritualista ed incarnazionista, che si scontravano in Italia, non avevano trovato una risposta definitiva, riguardo alla loro posizione nella chiesa, nell’assise stessa. La tendenza spiritualista, disinteressata alle realtà terrene in nome dell’originalità trascendente del cristianesimo, si era rispecchiata volentieri in una certa lettura della SC, LG, DV e prevaleva nei movimenti neocatecumenali, pentecostali, biblici e liturgici. La tendenza incarnazionista, invece, sottolineava la presenza ed il compimento del Regno sulla terra propugnando un’immersione della chiesa nel mondo soprattutto attraverso il servizio ai poveri ed agli ultimi. A suo favore si era pronunciata inequivocabilmente la GS.
Le due tendenze giunsero allo scontro negli anni della contestazione con netta prevalenza della seconda quanto ad incisività: nasceva una nuova sensibilità sociale, al di là degli eccessi, quasi inedita per la chiesa, caratterizzata dall’interesse per la giustizia, la liberazione, la pace, portata avanti soprattutto dai gruppi e dai movimenti di base: la chiesa del dissenso. Inevitabile il disorientamento, la crisi di identità di molti cristiani.
In questo clima matura la pastorale della chiesa italiana che, senza rinunciare al suo specifico religioso, si apre al mondo e alle sue urgenze di promozione della giustizia e dei poveri.
Due fatti esemplificano, nei primi anni ’70, il nuovo indirizzo della chiesa italiana: la cosiddetta "scelta religiosa" ed il sinodo del ’71 su "La giustizia nel mondo".
La "scelta religiosa" fu, di per sé, patrimonio dell’Azione cattolica guidata da Paolo VI e Bachelet. Negli anni ’69-’70 l’Azione cattolica, a fronte dello smarrimento profondo del momento contingente, giocava tutte le sue carte sul Vangelo, sulla scelta religiosa appunto, su ciò che costituiva la missione della chiesa da sempre. Si respirava un certo distacco dal temporalismo politico per mirare, caso mai, a una cultura cristiana, una mentalità ispirata ai valori cristiani. Era il Concilio stesso che aveva spinto verso tali determinazioni50. E con coraggio l’Azione cattolica intraprese questa strada che, proclamando un’energica negazione della riduzione del patrimonio cristiano al politico, le faceva tuttavia correre il rischio di essere catalogata fra le realtà spiritualistiche, socialmente disimpegnate51.
Paolo VI, nell’approvare lo Statuto dell’AC del 1969, affermava:
L’AC non deve perdere di vista la sua originale vocazione spirituale religiosa. Il momento che viviamo è assai ricco di fermenti. Tutto ciò che è concreto, immediato, realizzabile a breve scadenza, tutto ciò che ha visibili riflessi esteriori e sociali, sembra più desiderabile ed efficace di una solida formazione religiosa... Ma se è vero che il Concilio vaticano II ha indicato nell’animazione cristiana dell’ordine temporale il compito specifico dei laici, esso ha peraltro chiaramente stabilito le imprescindibili basi soprannaturali per tale azione. E l’AC ... assume perciò la precipua missione di mobilitare le energie spirituali dei suoi membri in un impegno morale e religioso completo..., di rendere concreta testimonianza alla forza trasformatrice ... della Parola di Dio intimamente assimilata e vissuta, di diffondere così ... il messaggio evangelico a tutti i livelli della società umana52.
La Conferenza episcopale italiana (CEI), dopo qualche tempo, senza chiamarla "scelta religiosa", opera una svolta di questo tipo, prendendo una netta posizione in relazione al sentire culturale e sociale del tempo. Ma è nello stesso clima che si svolge il sinodo dei vescovi (30 novembre 1971) su "La giustizia nel mondo": la chiesa resta la stessa (scelta religiosa) ma cambia la sua sensibilità pastorale, aprendosi ufficialmente ai problemi della giustizia e dei poveri53.
Anche la chiesa italiana dunque, seppure con lentezza, ha fatto propria la sensibilità conciliare. Si rendeva conto che non viveva più in regime di cristianità; che sua caratteristica peculiare non era il potere politico ma il servizio evangelico a Dio e agli uomini; che il mondo andava riconosciuto nel suo valore secolare, positivo ed autonomo.
La chiesa italiana si presentava come solidale, in atteggiamento di rispetto e cooperazione col mondo italiano, ma con un suo patrimonio da portare ed offrire per la promozione umana: il Vangelo. In questa prospettiva vanno letti i documenti fondamentali prodotti dalla CEI nei primi anni ’70: il documento base sul "Rinnovamento della catechesi" (2.2.’70); lo Statuto provvisorio della Caritas italiana (2.2.’71) la cui costituzione era stata decisa il 14 novembre 1970; "La giustizia nel mondo" (22.7.’71), contributo della CEI ai lavori del terzo sinodo dei vescovi; "Evangelizzazione e sacramenti" (12.7.’73), vero e proprio piano pastorale della chiesa italiana postconciliare, frutto della discussione e della decisione avvenuta nel corso del 1972; "Evangelizzazione nel mondo contemporaneo" (28.2.’74), documento per la quarta assemblea generale ordinaria del sinodo dei vescovi; "Evangelizzazione e sacramenti della penitenza e dell’unzione degli infermi" (12.7.’74); "Evangelizzazione e promozione umana" (17.4.’75), documento base e traccia di riflessione del Comitato preparatorio del Convegno ecclesiale; "Evangelizzazione e sacramento del matrimonio" (20.6.’75); e, in questo quadro, non può naturalmente mancare il riferimento alla "Evangelii Nuntiandi" (8.12.’75) di Paolo VI.
Il Convegno pastorale ecclesiale di Roma (30.10 - 4.11.’76) su "Evangelizzazione e promozione umana" compiva il programma pastorale della chiesa italiana postconciliare.

IL CONVEGNO ECCLESIALE DI ROMA

Questo singolare evento ecclesiale fu dunque frutto di un notevole cammino della chiesa italiana.
Due i temi alla sua attenzione: evangelizzazione e promozione umana. Sul primo la CEI aveva a lungo parlato ed elaborato soprattutto con il documento "Evangelizzazione e sacramenti"54, vero e proprio manifesto di una pastorale rinnovata che inaugurava, per l’Italia, una nuova epoca e una lunga serie di proposizioni ufficiali.
Era la prima parte del documento quella veramente innovativa (1-25): i vescovi si rendevano conto per la prima volta, ufficialmente, del grande mutamento socioculturale in atto in Italia, dichiarando dolorosamente finita la situazione di cristianità in cui la fede cristiana veniva trasmessa per automatismo sociale55. Certo, l’analisi della situazione non era tra le più limpide ed oggettive: tutto veniva ridotto al secolarismo. Ma la presa di coscienza, sulla scia del Concilio, era notevole.
A fronte di questa situazione la chiesa italiana56 sceglieva l’evangelizzazione, il ritorno all’annuncio della Parola di Dio (61) per suscitare la fede, data la costatazione della sua assenza. La stessa celebrazione doveva diventare occasione di evangelizzazione (63).
E in questo stesso documento (81) già si accennava al legame fra evangelizzazione e promozione umana.
La riflessione che seguì "Evangelizzazione e sacramenti" fu incentrata soprattutto sulla mediazione culturale e sul dialogo con la cultura secolarizzata, tanto raccomandati dal Concilio57 e confluì nel documento "Evangelizzazione del mondo contemporaneo". Anche quest’ultimo pronunciamento, però, non dimenticava la promozione umana: anzi, precisava che essa, essendo la liberazione dell’uomo dai suoi mali, fa parte della evangelizzazione58.
Si trattava ormai di esplicitare la convinzione, da sempre presente nella pastorale italiana postconciliare, che evangelizzazione e promozione umana erano strettamente connesse. Fu soprattutto merito del segretario, e vero animatore della CEI, Enrico Bartoletti, se questo tema fu sottoposto allo studio non della CEI, ma di un convegno di tutta la chiesa italiana.
L’argomento era sicuramente coinvolgente, spesso al centro della turbolenta vicenda postconciliare; ma la formula fu veramente inedita e originale: non un sinodo di vescovi, non un’assemblea di esperti, ma un convegno pastorale in cui tutte le chiese locali incontrassero le componenti della chiesa (gruppi, associazioni e movimenti a livello nazionale e rappresentanti di ogni regione in numero proporzionale agli abitanti), a metà strada tra sinodo nazionale e convegno di studi. Nuovo fu anche lo stile dei lavori, con la partecipazione, su un piano di formale parità, di vescovi (133), sacerdoti e religiosi (309), suore (43), laici (268 donne e 900 uomini)59.
Risultarono non eletti i leader del dissenso, fatto che diffuse una falsa idea del convegno, contraddetta poi dai fatti60.
Si cercò la massima partecipazione. Deciso il convegno, aperto a tutte le componenti ecclesiali, dall’assemblea generale della CEI nel giugno del 1973, la presidenza ne nominò un comitato preparatorio presieduto da E. Bartoletti, vescovo di Lucca, coadiuvato dai vicepresidenti G. Lazzati, rettore dell’Università cattolica, e B. Sorge, direttore della Civiltà cattolica.
Il comitato redasse il "Documento base e traccia di riflessione"61 e il 17 aprile ’75 lo inviò all’esame dei vescovi. Osservazioni sul documento e proposte sul convegno vennero discusse in un’assemblea successiva. Ogni diocesi e realtà ecclesiale a dimensione nazionale era intanto invitata a svolgere le proprie iniziative in preparazione al convegno, facendone giungere i risultati al comitato, in modo che, per l’autunno del ’76, ne fossero stese le relazioni di sintesi, poi affidate a G. Nervo, P. Gaiotti e A. Ardigò. La chiesa italiana rispose coralmente.
Fu un convegno in cui prevalsero i laici, non solo per il loro numero, ma perché portarono sul tappeto i loro problemi e la loro ansia di chiesa decisa al trapasso culturale, rifiutando sia l’integrismo, che il clericalismo, che il collateralismo62.
Le finalità dei lavori furono enucleate da p. Sorge:
Siamo qui convenuti ... non per confrontare la situazione ecclesiale presente con quella di ieri, ma per interrogarci sul nostro essere chiesa oggi e domani nell’Italia che cambia; per definire i modi nuovi del servizio che attraverso l’evangelizzazione la chiesa è chiamata a offrire alla promozione umana del paese, assumendone come propri e dall’interno i problemi e i conflitti, le tensioni e le speranze, in fedeltà assoluta alla Parola di Dio e al magistero della chiesa, che la costudisce, la proclama e la interpreta con autorità63.
Questo compito fu affidato, dopo la lunga preparazione dei mesi precedenti, alla riflessione di dieci commissioni di studio64. Le commissioni, variamente composte, lavorarono nel pomeriggio del 1° novembre e per l’intera giornata successiva, dopo l’ascolto delle relazioni e delle comunicazioni che avevano caratterizzato i giorni precedenti.
Il convegno fu una vera iniezione di fiducia per la chiesa italiana, impaurita ed in difficoltà. La promozione umana, l’impegno per la giustizia e per i poveri risultarono inseparabili dall’evangelizzazione, anche se distinti da essa, perché il Vangelo è sempre trascendente; risultarono l’urgenza maggiore dell’evangelizzazione, perché la salvezza del Vangelo è integrale, per tutto l’uomo65.
Così si compiva, in modo entusiasmante e partecipato, il lungo travaglio postconciliare italiano, sempre in bilico tra spiritualismo ed incarnazionismo, tra chiusura della comunità dei credenti in se stessa ed apertura al mondo.
Proprio dalle conclusioni della commissione di studio n° 6 ("Evangelizzazione, promozione umana e i problemi degli emarginati in Italia"), presieduta dal prof. F. Cerchiaro e animata da d. G. Pasini, nacque l’idea di far propria la scelta dell’obiezione di coscienza.
La commissione, composta in prevalenza da laici, aveva innanzitutto analizzato il problema dell’emarginazione in Italia e le cause, intra ed extra-ecclesiali, che ne sono all’origine. Infine, preso atto dell’esistenza in Italia di un cammino legislativo, culturale e politico contro l’emarginazione, la commissione invitava la comunità cristiana ad inserirvisi concentrando le proposte intorno a tre filoni: riportare i poveri al centro dell’attenzione dell’impegno pastorale; coinvolgere pienamente le comunità ecclesiali; individuare una loro presenza operativa nel campo assistenziale, in sintonia col Vangelo e significativa per l’attuale società66.
Riguardo il secondo filone, si precisava che rispondere alle sofferenze degli emarginati non va considerato un compito da delegare a gruppi ed operatori assistenziali (religiosi o laici), ma va considerato un dovere che investe la comunità cristiana nel suo insieme, perché è la comunità che deve rendersi credibile per la sua attenzione ai poveri.
In concreto, questo significa che la comunità cristiana locale deve essere messa in grado di conoscere i bisogni presenti nel suo territorio; deve farsi carico della preparazione e della formazione permanente di operatori cristiani che operano sia nei servizi civili sia nelle strutture assistenziali cristiane; va dato particolare impulso alle forme di volontariato, che esprimono per loro natura l’amore come condivisione.
Per questo, la commissione chiede al convegno di fare propria la proposta di farsi carico della promozione del servizio civile sostitutivo di quello militare nella comunità italiana, come scelta esemplare e preferenziale dei cristiani, e allargare le proposte di servizio civile anche alle donne67.
Infine indicava la Caritas come "strumento pastorale privilegiato per realizzare il coinvolgimento e la corresponsabilizzazione della comunità cristiana intorno all’emarginazione"68.
La mozione venne "approvata con lunghi applausi dall’assemblea del convegno"69 e ripresa tra gli orientamenti pastorali da p. B. Sorge nella sintesi dei lavori del convegno, presentata all’assemblea conclusiva del 4 novembre ’76: il convegno, perciò, chiede alla chiesa italiana di riportare i poveri al centro dell’attenzione e dell’impegno pastorale con una chiara scelta preferenziale in loro favore. Ciò vuol dire .... promuovere il servizio civile sostitutivo di quello militare come scelta esemplare e preferenziale dei cattolici italiani...70
Il consiglio permanente della CEI, presentando ufficialmente la pubblicazione degli atti del convegno, riprese il tema dei poveri e degli emarginati ma senza riferimento al servizio civile71: forse era chiedere troppo.
Tre considerazioni vanno fatte. Innanzitutto la proposta del servizio civile fu frutto del convegno stesso: non risulta che qualche diocesi o associazione l’avesse inserita nel materiale preparatorio. La commissione n° 6 la sottopose all’assemblea che l’accolse favorevolmente.
In secondo luogo il servizio civile veniva visto come "scelta esemplare e preferenziale dei cristiani", non come un’opzione fra le altre.
Infine, al convegno venne messo in evidenza soprattutto il tema del servizio civile, più che dell’obiezione di coscienza.
Il cammino pastorale postconciliare della chiesa italiana aveva rimesso al centro della comunità ecclesiale i temi evangelici; aveva propugnato l’apertura al mondo secolarizzato in spirito di collaborazione ed ascolto; la promozione umana stessa, dimensione della evangelizzazione, era uno di quei temi-ponte (come la pace e la giustizia) con la cultura secolare sulla cui base si poteva costruire insieme nella direzione di una società culturalmente cristiana: l’obiezione di coscienza, oltre che come scelta di servizio ai poveri, poteva essere fatta propria anche per la sua valenza profetica che, peraltro, giustifica anche il servizio civile, di ricerca della pace in una società riconciliata, i cui rapporti non siano basati sulla forza o sulla violenza, ma sul rispetto di ogni uomo.
Questo aspetto verrà valorizzato e immesso, almeno come problema, nella vita della chiesa grazie anche alla Caritas italiana e ai suoi obiettori.
Dieci anni dopo nella relazione di base del convegno ecclesiale di Loreto, "Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini", Bruno Forte affermava: partire dagli ultimi significa farsi voce dei loro diritti, essere al loro fianco con gratuità nelle molteplici forme di volontariato che sono fiorite in questi anni, come segno e stimolo della carità di tutta la chiesa, a cominciare dalla obiezione di coscienza e dal servizio civile che la comunità cristiana, senza unilateralismi e forzature non può non considerare come scelta esemplare e preferenziale se vissuta come segno di gratuità e di vera dedizione alla pace72; e la commissione n° 26 del convegno, "Cooperazione internazionale e pace", ribadiva:

occorre che la chiesa dia un sostegno reale all’obiezione di coscienza. Finora, essa è stata una forte provocazione che la nostra chiesa ha lasciato cadere nel vuoto. Infatti, se la Caritas italiana rivela da anni una spiccata sensibilità al fenomeno, è anche vero che la comunità ecclesiale italiana è ancora assai esitante ad esprimere un atteggiamento decisamente positivo e propositivo in proposito73.

L’OBIEZIONE DI COSCIENZA ALLA CARITAS

All’indomani del convegno di Roma, la Caritas italiana, il 10 giugno 1977, stipulò la convenzione col Ministero della difesa per l’assegnazione degli obiettori di coscienza. In realtà non fu una scelta fatta sulle ali dell’entusiasmo.
Nella fase sperimentale della Caritas italiana, dal 1972 al 1975, Giovanni Nervo ricopriva la carica di presidente (lo statuto definitivo affiderà poi la presidenza a uno dei tre vicepresidenti della CEI). Intorno al ’73-’74 monsignor Bonicelli, segretario aggiunto della CEI e più tardi ordinario militare, sollecitava insistentemente Nervo affinché si firmasse la convenzione col Ministero della difesa e la Caritas potesse così introdurre fra i suoi volontari gli obiettori di coscienza. Il presidente della Caritas temporeggiava sia perché il tema gli risultava assai nuovo, sia perché non sapeva come presentare in modo persuasivo la cosa alle Caritas diocesane. E intanto Bonicelli insisteva.
La mozione della sesta commissione al convegno pastorale di Roma e la favorevole accoglienza di tutta l’assemblea, ebbe il ruolo, per la Caritas, di rompere gli indugi affinché si avviasse la pratica per la convenzione74.
Così l’obiezione di coscienza ha trovato cittadinanza ufficialmente nella comunità cristiana attraverso la convenzione della Caritas italiana con il Ministero della difesa stipulata nel 1977. ... Con lo sviluppo della convenzione della Caritas, è avvenuta un’evoluzione del fenomeno dell’obiezione di coscienza. Inizialmente gli obiettori provenivano dai movimenti antimilitaristi: quindi accentuavano soprattutto l’obiezione di coscienza e tolleravano come male minore il servizio civile. ... Successivamente, soprattutto nella convenzione della Caritas, confluirono gli obiettori provenienti dai gruppi di volontariato e delle associazioni cattoliche, che, pur facendo professione di nonviolenza ed antimilitarismo, univano a questi valori, con pari dignità e apprezzamento, il valore del servizio maturato nel volontariato.
Si può dire che l’integrazione e la sintesi di questi due valori sia l’apporto originale dei cattolici all’obiezione di coscienza: hanno coniugato il no alle armi con il sì al servizio e alla solidarietà. Questa è una premessa fondamentale per la costruzione della cultura di pace che con l’inserimento degli obiettori è diventato un tema portante del lavoro della Caritas75.
Due temi sono dunque giunti sul tavolo della Caritas con l’arrivo degli obiettori: il servizio e l’obiezione di coscienza. Il primo era già abbondantemente presente nella vita della Caritas; la sua prevalente funzione pedagogica l’aveva indirizzata, fin dai primi tempi, a sensibilizzare la comunità credente a fare del servizio e della condivisione dei propri beni e del proprio tempo con gli altri un costume normale di vita.
Il secondo tema era invece nuovo. La presenza degli obiettori ha messo la Caritas nella necessità di approfondire il tema della pace e della nonviolenza. Secondo la testimonianza di Nervo: noi non potevamo soltanto offrire ai giovani un campo di lavoro con gli anziani, gli handicappati, i tossicodipendenti ecc., per il loro servizio civile e abbandonarli a se stessi, ma dovevamo rispondere anche alla loro richiesta di formazione76.
Poiché la Caritas italiana è la titolare della convenzione, gestita come servizio giuridico e amministrativo a supporto delle Caritas diocesane che assumono la responsabilità dell’utilizzazione degli obiettori, è stata essa stessa ad interessarsi maggiormente dei temi legati all’obiezione e a sensibilizzare sugli stessi le Caritas diocesane, naturalmente più impegnate sul fronte dei servizi concreti e quindi rivolte soprattutto all’operatività che gli obiettori possono offrire.
È dunque l’obiezione di coscienza, coi motivi di pace e non violenza ad essa inerenti, il tema nuovo che ha impegnato la Caritas, e quindi la chiesa italiana, dopo l’arrivo degli obiettori. Un tema che in se stesso non può esulare da un organismo come la Caritas, e che la presenza degli obiettori e la loro esigenza di formazione ha posto in luce.
G. Nervo, uno tra i maggiori promotori della Caritas dei primi tempi, presidente e poi direttore di questo organismo, è inequivocabile su questo argomento. La pace, gli armamenti, la guerra: non sono temi che esorbitano dai compiti della Caritas. Essa ha infatti, come punto di riferimento fondamentale, la chiesa comunità, famiglia di Dio; il suo obiettivo principale è promuovere nella famiglia di Dio il costume di fraternità e di condivisione con particolare attenzione ai membri più deboli. Ora, come si può parlare di famiglia di Dio e contemporaneamente accettare, come una realtà sgradevole ma talvolta inevitabile, che i fratelli, quando insorge una controversia tra loro, la risolvano con la violenza, uccidendosi tra di loro come fece Caino con Abele? E permanentemente si mantengano armati a questo scopo? E che lascino morire di fame i fratelli più piccoli per aumentare le armi e renderle più micidiali? D’altra parte è vero che nella guerra ci vanno di mezzo tutti: però quelli che soffrono di più sono i più poveri77.
Questo porta la Caritas, per coerente concretezza, a dover affrontare i temi del rifiuto della guerra e della promozione di una cultura di pace. La strada della guerra per risolvere le vertenze tra i popoli, qualunque giudizio si dia sul passato, è impraticabile per il futuro a causa delle immense distruzioni che porta e delle enormi risorse che assorbe: risorse d’altronde indispensabili allo sviluppo dei popoli poveri, le cui condizioni infraumane, frutto di enormi ingiustizie, accumulano odio e potenziale di guerra.
Anche sul problema della legittima difesa, necessità e dovere sociale, che la scelta dell’obiezione sembra compromettere, non mancano le domande e le riflessioni.
La società moderna, se non vuole andare verso l’autodistruzione, con gli strumenti della scienza e della tecnica che possiede e con quelli che è in grado di costruirsi, deve trovare altri strumenti efficaci di difesa, diversi dalla guerra: gli organismi internazionali resi più autorevoli e più efficienti? un maggiore uso del metodo di dialogo? un maggiore impegno ad eliminare le situazioni di ingiustizia che sono spesso alla base delle guerre? lo strumento economico? la difesa popolare nonviolenta? o, probabilmente, tutte insieme queste strade? L’essenziale è non accettare passivamente l’ineluttabilità della guerra come realtà fatale.
È l’indirizzo di Giovanni Paolo II dato con grande coraggio a Coventry e a Buenos Aires, cioè dentro la guerra delle Falkland: "Oggi la portata e l’orrore della guerra moderna, sia essa nucleare o convenzionale, la rendono totalmente inaccettabile come mezzo per comporre dispute e vertenze fra nazioni. La guerra dovrebbe appartenere al tragico passato, alla storia, non dovrebbe trovare posto nei progetti dell’uomo per il futuro" (Coventry 30 maggio 1982). "In questo momento l’umanità deve interrogarsi ancora una volta sull’assurdo e sempre ingiusto fenomeno della guerra, nel cui scenario di morte e di dolore resta solo valido il tavolo dei negoziati che poteva e doveva evitarla. Il mondo impari a mettere al di sopra di tutto, sempre ed in ogni circostanza il rispetto alla sacralità della vita" (Buenos Aires 11 giugno 1982).
Evidentemente ci sono tempi lunghi di maturazione culturale e di trasformazioni istituzionali, ma bisogna incominciare con coscienza lucida, nettamente e decisamente da oggi. Diversamente ci assumiamo di fronte alle nuove generazioni enormi responsabilità che ricadono nella categoria dei peccati di omissione. In questa prospettiva prende significato il problema dell’obiezione.
L’obiezione di coscienza ed il servizio civile, sostenuti da una forte e costante azione educativa, possono essere una palestra per educare le nuove generazioni a un modo nuovo e diverso di amare la patria e indicare una strada diversa per risolvere le tensioni fra gli stati. "Le guerre nascono nello spirito degli uomini ed è nello spirito degli uomini che devono essere costruite le difese della pace" (Il Corriere UNESCO - marzo 1982). L’obiezione di coscienza è un segno che dice no ad ogni tipo di violenza e alla guerra in particolare comunque e dovunque. Il servizio civile è un segno che dice sì alla solidarietà, al servizio, all’amore, condizioni indispensabili per la pace.
Un’impostazione aperta e che trova conforto anche nel magistero del papa rivolto ai militari. Ad essi, convenuti a Roma per il giubileo (8.4.1984), il pontefice propose una riflessione su quattro punti:
a) "L’ideale della pace totale è connaturale al cristianesimo: guai se venisse a mancare".
b) "In una realistica considerazione della condizione umana, indebolita e spesso compromessa dal peccato ... occorre la consapevolezza del dovere di difendere la vita, e più ancora i valori della vita".
c) Lo strumento però della legittima difesa non è né la guerra, condannata senza nessuna eccezione e riserva nei discorsi di Coventry e di Buenos Aires, né gli "equilibri di terrore", né la deterrenza, ma una "autorità internazionale competente, munita di forze efficaci per scoraggiare ogni violazione del diritto e, all’occorrenza, ristabilire l’ordine violato". Lo strumento della pace non è la guerra - si vis pacem para bellum - ma la "trattativa politica, fondata sulla ragione, sulla convinzione, sul rispetto reciproco ... e avvalorata, al tempo stesso, da serie garanzie internazionali, nelle quali la forza militare sarebbe sottratta a ogni tentazione di egemonia di parte".
d) "La moralità della vostra professione è legata a questo ideale di servizio alla pace".
Anche in riferimento ai discorsi di Coventry, di Buenos Aires e al messaggio per la pace del 1980 (La verità, forza della pace!), l’insegnamento papale risulta porre dei punti fermi: storicamente lo strumento del dialogo è "un’autorità internazionale competente, munita di forze efficaci"; condizione: un cambiamento radicale nell’organizzazione sociale che suppone e richiede un cambiamento radicale della mentalità, della cultura: da una cultura di guerra (male disgustoso, ma inevitabile) a una cultura di pace (punto fermo: la guerra mai).
Collocazione e significato dell’obiezione di coscienza: l’obiezione afferma con gesto profetico e testimonianza personale l’ideale evangelico della pace totale; il servizio civile sviluppa la cultura della solidarietà senza la quale non si può giungere mai al consenso verso l’autorità internazionale che assicura la soluzione delle tensioni attraverso il dialogo e la trattativa. Contributo originale e forte per il cambiamento di cultura: tanto più efficace, quanto più genuino ed esteso.
G. Nervo prende posizione anche su alcune questioni pratiche. La vita militare, si dice, porta dei vantaggi nella formazione dei giovani: educazione alla disciplina, all’autosufficienza, al sacrificio, alla fermezza. Ma il discorso di fondo è che ormai lo strumento della guerra è impraticabile, anche per la legittima difesa. I positivi effetti collaterali si possono ottenere con altre forme di organizzazione sociale.
Non sono sotto accusa i giovani che fanno il militare, ma la società che non riesce ancora a trovare forme di legittima difesa alternative alla guerra: anzi non le ricerca con sufficiente impegno. Inoltre è chiaro che la chiesa è debitrice dell’annuncio del Vangelo a tutti gli uomini, e quindi anche ai militari: caso mai sarebbe da lamentare che la comunità cristiana non si impegna sufficientemente in questo campo. Altro problema è chiedersi se per fare questo la forma più idonea pastoralmente sia quella di inquadrare nell’organico dell’esercito e fregiare di stellette e di gradi militari i pastori che esplicitamente si dedicano a questa missione di apostolato.
L’insegnamento pontificio, con una certa frequenza, continua a ribadire che bisogna giungere alla costituzione di un’autorità internazionale competente, munita di mezzi efficaci per scoraggiare ogni violazione del diritto e, all’occorrenza, ristabilire l’ordine violato.
Bisogna operare per renderla possibile anzitutto denunciando la situazione assurda e contraddittoria in cui viviamo. L’umanità, ormai è chiaro, rischia di non sopravvivere a lungo con la guerra; nello stesso tempo è organizzata su una cultura e una logica di guerra. Un cristiano non può "conformarsi a questo secolo", anche se è costretto a subirlo, e deve affermare "l’ideale di pace totale, connaturale con il Vangelo".
Contemporaneamente deve lavorare per realizzare un nuovo ordine sociale, secondo le sue competenze, possibilità e capacità. Ciò significa: per gli educatori promuovere sempre, dovunque, con tutti i mezzi, un’educazione e una cultura di pace; per i cristiani, impegnati nelle varie istituzioni e professioni della società, promuovere una cultura di dialogo in tutti i rapporti sociali, l’impegno per superare le cause della guerra che sono le ingiustizie sociali, la ricerca di mezzi alternativi alla guerra per la legittima difesa, ad es. la difesa popolare nonviolenta organizzata; valorizzare gli obiettori di coscienza come strumento di educazione alla cultura di pace, attraverso la testimonianza.
Sul problema se la Caritas, per evitare discriminazioni, debba astenersi dalla propaganda dell’obiezione di coscienza, la posizione è chiara: se per propaganda si intende far pressione sulle coscienze, non bisogna far propaganda, perché bisogna rispettare profondamente le coscienze: l’obiezione per essere autentica deve maturare in piena libertà.
Se invece per propaganda si intende far conoscere ai giovani i temi della pace, della nonviolenza, del servizio civile, e far conoscere la possibilità offerta dalla legge dell’obiezione di coscienza come una forma di testimonianza per la pace, mi sembra che questo faccia parte di una sana educazione alla cultura della pace, chiaramente conforme al Vangelo e al magistero della chiesa.
Ciò non significa discriminare i militari di leva, perché l’obiettivo di trasformare la società e giungere a forme di difesa alternative alla guerra non si può raggiungere se la cultura di nonviolenza e di pace non coinvolge tutti i giovani, anche quelli delle caserme, e le coscienze di tutti i cittadini.
Alla netta posizione di G. Nervo fanno eco, nelle riviste della Caritas, altri interventi, soprattutto di G. Pasini suo successore, che testimoniano la continuità con cui è stata portata avanti la scelta dell’obiezione di coscienza ed il sostegno ai temi ad essa collegati: la nonviolenza e la difesa popolare nonviolenta, con le sue motivazioni evangeliche78; l’antimilitarismo ed il rifiuto della guerra giusta79; il servizio sociale proposto per maschi e femmine80; l’ingiusto divario tra nord e sud del mondo, causa di continui conflitti81. Questi temi sono diventati interesse proprio della riflessione, evangelicamente ispirata, della Caritas, e quindi della chiesa italiana: "gli obiettori della Caritas sono diventati provvidenziali portatori di questo messaggio"82.
Un interesse e un sostegno all’obiezione tutt’altro che facili, data la posizione di "una parte della comunità cristiana che non sempre ha maturato una vera cultura di pace", da una parte, e del "Ministero della difesa che, comprensibilmente dal suo punto di vista, in fondo considera gli obiettori come una specie di "disertori legalizzati" e li boicotta in tutti i modi"83, dall’altra.
Il sostegno agli obiettori si è reso particolarmente e pubblicamente manifesto in occasione della circolare del Ministero della difesa del 5 giugno 1986.

LA CARITAS ED IL MINISTERO DELLA DIFESA

Nei primi anni ’80 il movimento degli obiettori era diventato una realtà consistente. Gli effetti della sua mobilitazione non tardarono a farsi sentire.
Il 7 febbraio 1983 il Parlamento europeo affermò, in una sua risoluzione, che la salvaguardia alla libertà di coscienza implica il diritto di rifiutarsi di compiere il servizio militare armato; ...che non vi è commissione che possa sondare la coscienza di un individuo ...; che lo svolgimento di un servizio sostitutivo ... non può essere considerato come una sanzione; che la durata del servizio sostitutivo non deve eccedere quella del servizio militare ordinario84.
In Italia non mancarono gli effetti positivi nel periodo successivo. Nel 1984 la circolare n° 001327/UDG abrogò la precedente del 19.09.’79, detta dei 26 mesi, una sorta di mostro giuridico che considerava periodo di servizio effettivo quello trascorso in attesa della decisione del Ministero sul riconoscimento e sull’assegnazione dell’obiettore. La Caritas, tra gli altri enti, proponeva ai suoi obiettori di boicottare questo provvedimento perché poneva in cattiva luce l’obiettore, che avrebbe potuto svolgere solo pochi mesi di servizio, pregiudicandolo nello stesso tempo.
Dopo che alcuni TAR avevano sollevato il possibile contrasto della legge 772 con l’articolo 52 della Costituzione, la Corte costituzionale, il 6.05.’85, con la sentenza n° 164, affermava che la legge sull’obiezione di coscienza è conforme alla Costituzione e che il servizio civile assolve come il servizio militare il dovere di difesa della patria. Il 24 maggio dello stesso anno il Consiglio di stato, con la decisione n° 16, ridimensionava i poteri di valutazione della domanda dell’obiettore da parte della commissione d’indagine, prevista dalla 772, e del ministro della difesa; precisava che compiti di tali organi non era valutare in positivo il grado di profondità dei motivi dell’obiettore, bensì, in negativo, la non manifesta fondatezza. La domanda, che poteva essere fatta sulla falsa riga di uno schema stereotipo, non poteva essere più un presupposto per escludere la sincerità dell’obiettore.
Anche il presidente Cossiga, tra i suoi primi atti di garante della Costituzione, concesse la grazia agli obiettori in carcere e inviò una lettera al ministro della difesa sulla pena inflitta agli obiettori totali, indicando l’utilizzazione dell’affidamento in prova come misura alternativa alla detenzione. Ancora, la sentenza della Corte costituzionale n.°113 del 23 .04.’86 dichiarava parzialmente illegittimo l’art. 11 della 772 perché l’ammesso al servizio civile perde lo status di militare acquisito in forza dall’arruolamento, con conseguente cessazione della sua appartenenza alle forze armate e della sua assoggettabilità alla giurisdizione militare... Gli obiettori di coscienza ammessi a prestare servizio sostitutivo civile non possono considerarsi appartenenti alle forze armate, perché l’avvenuto accoglimento della domanda a tal fine proposta, facendo loro perdere lo status militare li rende estranei ad esse85.
Conseguenza di questa sentenza è che l’obiettore in servizio civile non può essere considerato appartenente alle forze armate, e quindi non può essere giudicato da un tribunale militare. Il suo giudice naturale è il giudice ordinario, come per tutti i cittadini non appartenenti alle forze armate86.
In questo positivo periodo per i sostenitori dell’obiezione di coscienza, il Ministero della difesa adottò, come deterrente per le domande di obiezione, la prassi delle precettazioni di autorità, destinando gli obiettori ad enti e settori d’impiego diversi da quelli indicati dai giovani, e continuando ad allungare i tempi di riconoscimento e di precettazione.
Di fronte a tale politica, la "Consulta degli enti" che accoglievano obiettori, la cui attività si era infittita nel corso del 1985, decise una protesta degli enti e degli obiettori, concretizzatasi in una conferenza stampa organizzata dagli enti e in una manifestazione degli obiettori. La conferenza stampa venne organizzata a Roma (11.12.’85) dalla Caritas, ente con la convenzione più consistente. Due i suoi obiettivi: denunciare pubblicamente la farraginosa gestione del servizio civile da parte del Ministero e chiedere urgentemente la modifica della legge sull’obiezione di coscienza. Davanti ai settanta convenuti, fra giornalisti e parlamentari, il sottosegretario alla difesa Olcese si impegnò a far rispettare i tempi di attesa previsti dalla legge, riservandosi però il diritto di precettare gli obiettori in sedi diverse da quelle di residenza, come avveniva fra i militari87. La prevista manifestazione venne invece procrastinata fino ad aver luogo l’11 giugno ’86 con poca risonanza e poco successo: la Caritas aveva invitato gli obiettori a partecipare usufruendo di un giorno di licenza, non di servizio.
Nel frattempo, l’11 gennaio ’86, in occasione della presenza a Cuneo del ministro della difesa Spadolini e del capo di stato maggiore dell’esercito, gen. Poli, per l’assegnazione del nome "cuneense" ad alcuni reparti speciali dell’esercito, una trentina di obiettori di coscienza della Caritas di Cuneo vennero fermati nel loro intento di protestare contro le inadempienze del Ministero della difesa. Non avendo potuto esporre i loro striscioni, con le scritte: "servire la pace perché nella cuneense non si muoia più" e "gli obiettori di coscienza chiedono giustizia e rispetto per la loro scelta", prepararono un comunicato stampa di denuncia e condanna di quanto era successo88.
In questo clima, il 5 giugno 1986, il Ministero della difesa emanò una circolare con le disposizioni concernenti la gestione degli obiettori di coscienza. Tra le altre: obbligo per gli enti convenzionati di dotarsi di adeguate strutture logistiche, per il vitto e l’alloggio, per tutti gli obiettori convenzionati (casermette), pena la riduzione del numero degli obiettori in convenzione (se solo per alcuni mancano le strutture logistiche) o la risoluzione della convenzione (se le strutture mancano per tutti); precedenza agli enti in grado di offrire vitto ed alloggio e, praticamente, possibilità di ridurre il numero di obiettori in convenzione fino a cinque unità; divieto agli obiettori, residenti nelle località prossime al luogo di svolgimento di servizio, di alloggiare presso le proprie abitazioni; divieto di ricusazione dell’obiettore da parte dell’ente di assegnazione89.
La circolare non venne inviata alla Caritas italiana (organismo nazionale convenzionato per tutte le Caritas diocesane), la quale ne venne in possesso alla fine del mese da una sede periferica.
La Caritas italiana, dopo aver studiato la circolare, il 1° luglio inviò una lettera a tutte le Caritas diocesane in cui, dopo aver affermato di non poter "rimanere inerte di fronte a disposizioni siffatte"90, chiedeva l’opinione dei consigli diocesani Caritas e quella degli obiettori stessi prima di assumere qualsiasi decisione, per salvaguardare i giovani obiettori che avrebbero potuto trovarsi a subire sulla propria pelle le decisioni della Caritas stessa.
La consultazione produsse una certa convergenza su alcuni punti: la circolare, nella sua impostazione generale, mostra di non conoscere (o di non voler riconoscere) l’identità del servizio civile che esige una gestione particolare; le norme particolari, che essa impone, non possono essere condivise perché "risentono di una impostazione, oltre che militarista, piuttosto o più precisamente di caserma"; la circolare, atto unilaterale del Ministero, non rispetta le norme e le disposizioni liberamente accettate, bilateralmente, e sottoscritte nella convenzione; le norme sul vitto e l’alloggio, pur essendo applicabili, in modo relativamente facile, dalla Caritas (che propone agli obiettori, come motivo formativo, la vita comunitaria), penalizzano ed ostacolano l’obiezione di coscienza; inaccettabile è poi l’inappellabilità delle decisioni del Ministero che, a prescindere dal lungo cammino di approccio all’obiezione ed al servizio imposto dai tempi di attesa di riconoscimento e di precettazione, può assegnare il giovane all’ente ed al servizio che ritiene più giusto, compromettendo la qualità del servizio da svolgere; giusta è invece l’esigenza di trasparenza, soprattutto in materia di amministrazione.
Varie le proposte di intervento a favore del ripristino di una prassi più equa, a livello politico, giuridico, culturale ed ecclesiale. A proposito di mobilitazione ecclesiale, la Caritas milanese propose una adeguata riflessione della chiesa italiana sulla rilevanza ed il significato della qualità e della quantità dei fenomeni dell’obiezione di coscienza e del servizio civile che la Caritas gestiva da dieci anni; un’udienza del papa agli obiettori di coscienza Caritas d’Italia; una sollecitazione ai vescovi e ai massimi organismi rappresentativi della CEI sulla situazione e sui problemi derivanti dalla circolare, tra i quali la possibilità di una risoluzione della convenzione Caritas-Ministero91.
Intanto, il 5 luglio, la Caritas italiana chiese ed ottenne di essere ricevuta dal direttore generale dell’ufficio di leva, F. Faina. Dopo aver espresso le perplessità ed i disagi derivanti dalla circolare, ne chiedeva il ritiro o almeno la modifica delle parti che risultano più pesanti: decisione arbitraria del Ministero sulla precettazione; minaccia di chiudere la convenzione con gli enti che ricusano i precettati; obbligo degli enti di anticipare le somme dovute dallo stato. La risposta fu negativa.
A questo punto, la presidenza della Caritas fissò una linea politica, cui si dovevano uniformare le Caritas diocesane; il presidente della Caritas italiana, vicepresidente della CEI, Mario Ismaele Castellano, la comunicò all’assemblea dei partecipanti al convegno nazionale delle Caritas diocesane di Collevalenza, il 10 settembre 1986. Tale posizione era già stata comunicata in una lettera del direttore della Caritas italiana G. Pasini al Ministero della difesa, e in un’altra lettera di mons. Castellano al ministro della difesa Spadolini in cui, tra l’altro, il vescovo chiedeva invano un colloquio lasciando il numero telefonico privato.
La presa di posizione della Caritas riguardava i due punti che avevano creato maggiore difficoltà: la ricusazione del distacco operato dal Ministero ed il rimborso delle spese.
Sul primo punto la linea della Caritas italiana è quella del ripristino delle assegnazioni degli obiettori presso le Caritas diocesane con le quali avevano concordato un programma di lavoro92.
Di conseguenza, gli obiettori sconosciuti o non sperimentati vengono ricusati, informando ufficialmente Ministero, distretto militare e obiettori interessati; gli obiettori conosciuti e sperimentati, ma precettati ad una Caritas diversa da quella con cui avevano concordato un piano di lavoro, vengono reintegrati nella Caritas originaria informando il Ministero della difesa; per gli obiettori che hanno fatto richiesta alla Caritas, ma sono stati precettati altrove, si tenta il reintegro e si offre comunque sostegno perché non siano lasciati soli nella difficoltà.
Queste disposizioni erano accompagnate dalla raccomandazione di qualificare sempre più e meglio gli obiettori ed il loro servizio, anche per garantirsi di fronte ad eventuali controlli strumentali sul servizio.
Sul secondo punto la linea della Caritas è quella dichiarata del ripristino delle modalità di pagamento su presentazione del rapporto mensile delle presenze93.
In attesa di deroga dalla circolare, le Caritas dovevano anticipare le somme del trattamento economico, mantenendo alto il grado di trasparenza amministrativa.
Il braccio di ferro tra Caritas e Ministero della difesa si instaurò sul primo dei due punti. Il Ministero, preso atto della posizione della Caritas, le inviò una lettera diffidandola dal continuare a ricusare gli obiettori precettati e minacciando la rottura della convenzione. La Caritas continuò sulla strada intrapresa. Tra fine ottobre ed inizio novembre scattava la reazione del Ministero della difesa: una grande azione ispettiva dei distretti militari. Decine di ufficiali si presentarono alle Caritas per controllare la presenza degli obiettori, il loro lavoro, le pratiche che li riguardavano. Commisero, tra l’altro, l’errore di penetrare anche nella sede della Caritas diocesana di Roma, sita in zona extraterritoriale, senza chiedere l’autorizzazione.
Il contenzioso Caritas - Ministero, divulgato dalla stampa, diventò di dominio pubblico assumendo valenza politica.
In realtà non si è trattato di una guerra privata tra Caritas e Ministero: il problema riguardava tutti gli enti e tutti gli obiettori, anche se la Caritas, avendo la convenzione più forte in assoluto, era in prima linea.
Il Ministro Spadolini telefona due volte da Riad alla redazione de ‘Il Popolo’, per precisare che la circolare era sospesa, che lui non aveva ordinato ispezioni, che non aveva mai visto la lettera di mons. Castellano. Il dr. Faina lo sconfessa, precisando che la lettera di mons. Castellano era arrivata e che la circolare era in pieno vigore perché il ministro non aveva titolo a revocarla94.
La questione, sotto forma di interrogazione, entrò in Parlamento. La commissione difesa della Camera propose una risoluzione, approvata dal Parlamento il 26 novembre ’86, che impegnò il governo
1) al rigoroso rispetto del termine dei sei mesi per l’esame delle richieste e l’assegnazione degli obiettori agli enti convenzionati; 2) a rispettare, nell’ambito delle assegnazioni, le aree vocazionali espresse dagli obiettori, secondo le indicazioni dell’art. 3 della convenzione tipo, che prevede come prassi normale l’intesa con l’ente assegnatario; 3) a prevedere, secondo il dettato della Corte costituzionale (164/85) che gli obiettori siano chiamati a prestazioni personali di portata equivalente (ed in nessun modo discriminatorie) sostitutive del servizio militare armato; 4) a favorire con sollecitudine il trasferimento degli obiettori già precettati in ossequio ai criteri di cui al punto 2 della presente risoluzione; 5) a realizzare un’opportuna capillare informazione, nell’ambito delle facoltà offerte ai cittadini dalla legge 772/7295.
Quindi, il 20 dicembre il ministro della difesa Giovanni Spadolini con la circolare Leva 9/UDG abrogò il vincolo di alloggio ed annullò gli effetti più restrittivi della circolare precedente. Infatti consentì ai giovani che richiedevano il riconoscimento dell’obiezione di indicare nella domanda "anche le aree vocazionali di impegno, gli enti convenzionati presso cui svolgere il servizio civile sostitutivo e le relative sedi". Stabilì inoltre che l’assegnazione degli obiettori, a cura del Ministero, avvenisse nel rispetto delle richieste dei giovani, compatibilmente con la disponibilità di posti presso gli enti che effettuano il servizio nella relativa area vocazionale96.
Dopo qualche tempo però giunge alla Caritas Italiana un richiamo da parte della segreteria di Stato, ad usare maggiore moderazione e a non tracimare dall’ambito istituzionale proprio della Caritas, sviluppando conflittualità con lo Stato97.
Interessanti alcune conclusioni e riflessioni che il direttore della Caritas italiana propose all’indomani degli avvenimenti.
La partecipazione democratica - nel caso nostro l’aver potuto pesare nel cambiamento di una disposizione ingiusta - non viene mai regalata: deve essere sempre conquistata, con lo sforzo e con il sacrificio.
Di fronte ad una causa considerata importante, la condizione per vincere è di mantenersi uniti. Non possiamo dire che ci sia stata piena unità in questa occasione neppure nell’ambito Caritas: sono state registrate alcune smagliature dannose; non dappertutto è stata seguita la linea proposta dalla Caritas italiana ...
La difesa dei diritti va fatta con fermezza, ma sempre con metodo "nonviolento", evitando il tranello di reagire alle provocazioni altrui restituendo, come si suol dire, "pan per focaccia". Nella diatriba qualche parola "in più" c’è stata anche da parte nostra, forse perché non siamo ancora allenati alla nonviolenza o forse perché essa non ci è ancora entrata nel cuore.
Sul piano operativo è emersa la difficoltà dei rapporti tra "pubblico" e "privato". Lo Stato si sente ancora "diverso" dai cittadini, al di sopra di essi; è tentato, talvolta, di atteggiamenti autoritari; non ritiene di dover rispettare i patti bilaterali liberamente contratti con enti privati. Va ancora riscoperta e valorizzata la "società", cioè le persone, al cui servizio lo Stato stesso è costituito...
Al momento gli obiettori e gli enti appaiono la parte vincente. In gergo militare - mi si consenta il paragone - si dice che l’aver vinto una battaglia non significa aver vinto la guerra. È necessario tener aperti gli occhi per difendere tutti i diritti e soprattutto per ottenere una nuova regolamentazione legislativa, che costituisca il presupposto di un servizio serio e tranquillo.
Una parte dell’opinione pubblica comincia a capire il significato dell’obiezione di coscienza e porsi il problema della guerra e della pace, della difesa e degli armamenti. Quanto ha inciso in questo cambiamento la presenza ed il lavoro degli obiettori in questi 14 anni? È difficile dirlo. Bisogna però credere alla forza dei "segni", ma soprattutto preoccuparsi che i "segni" siano credibili. Ancora oggi il servizio civile fatto seriamente è il lasciapassare, presso la gente umile, di discorsi più elevati e più difficili sulla nonviolenza e sulla pace98.
Riflessioni importanti, che rivelano l’effettivo interessamento da parte di questo settore della chiesa italiana all’obiezione di coscienza coi temi di pace e nonviolenza ad essa connessi: in effetti la decisa posizione della Caritas poteva essere frutto della paura di vedere compromesso il lavoro di qualche migliaio di volontari nei propri servizi o il provento finanziario garantito dalla gestione obiettori, come qualcuno aveva sostenuto.
Due avvenimenti di quel periodo giustificano ulteriormente, invece, l’effettivo coinvolgimento sui temi della pace e della nonviolenza da parte della Caritas: il secondo convegno nazionale degli obiettori in servizio presso gli enti cattolici (Milano, 13 dicembre 1986) ed il seminario promosso dalla Caritas italiana in collaborazione e con la partecipazione di esponenti delle Associazioni italiane dei teologi, dei moralisti, dei biblisti e dei vari organismi nonviolenti di ispirazione cristiana su "Carità, pace, difesa, nonviolenza" (Roma, 30 gennaio - 1° febbraio 1987).
Il convegno di Milano, voluto dalla Caritas italiana in collaborazione con ACI, CL, AGESCI, ACLI, con il supporto organizzativo della Caritas ambrosiana, grazie alla risonanza avuta, ha chiarito all’opinione pubblica che gli obiettori di coscienza al servizio militare sono un dato di fatto, un fenomeno sociale. Era questo uno dei suoi obiettivi: promuovere una maturazione culturale sul fenomeno dell’obiezione.
Il carattere ecclesiale dell’incontro è stato evidenziato dalla presidenza dei lavori del vescovo Nicora, presidente della commissione giuridica della CEI, dalla celebrazione della pace introduttiva, dalla Messa conclusiva e dal messaggio dell’arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini; tra le altre cose, quest’ultimo affermava: in questo momento "l’ideale della pace totale" è assunto e vissuto in modo particolare, anche se non esclusivo, da voi obiettori di coscienza che con il vostro servizio volete dire no alla violenza e alla guerra e sì alla solidarietà e al servizio, proclamando con una testimonianza di vita il valore della pace e della fraternità ... Voglio ricordarvi che la più larga diffusione del servizio civile non deve stemperarne il significato originario: quello del rifiuto incondizionato ad osservare una legge per ragioni di coscienza etica99.
Alla presenza, e dopo gli interventi degli onorevoli Caccia (DC), Cerquetti (PCI), di Bentivogli (CISL) e dell’on. Olcese (PRI), sottosegretario alla difesa, il cui intervento ha suscitato non poche perplessità e qualche fischio, mons. Pasini ha ribadito la posizione della Caritas assunta negli anni e nei mesi precedenti, auspicando una nuova legge che consideri l’obiezione un diritto e non un beneficio e che offra effettiva pari dignità rispetto al servizio armato100.
Il seminario di Roma, presieduto da mons. Luigi Sartori, presidente dell’Associazione teologi italiani, ha fatto emergere la carenza, in teologia, di un approfondimento sulla pace, tema imprigionato, ormai dall’era costantiniana, nella casistica della teologia morale e del magistero sociale della chiesa e condizionato dalla dottrina della guerra giusta. Di qui l’invito e l’auspicio a costruire una vera teologia della pace con il contributo di tutti i soggetti ecclesiali, protagonisti e responsabili del proprio popolo e della propria terra101.

OBIEZIONE DI COSCIENZA ALLA CARITAS ED IN ITALIA

Sembra opportuno un confronto fra l’obiezione di coscienza in Italia ed alla Caritas italiana102, al fine di comprendere quanto la chiesa italiana abbia investito in questo istituto. Un confronto che non è esaustivo, ma sicuramente rappresentativo.
Infatti, da una parte, la Caritas non è l’unico ente cattolico ad avere obiettori in convenzione. Salesiani, ACLI, AGESCI, "Associazione Papa Giovanni XXIII" ed altri enti cattolici ancora accolgono obiettori fra i loro volontari. Inoltre non tutti gli obiettori della Caritas sono cristiani praticanti. D’altra parte, però, la Caritas Italiana è "l’organismo istituito dalla CEI per favorire l’attuazione del precetto evangelico dell’amore nella comunità ecclesiale italiana"103: come tale, in essa si impegna, anche nell’obiezione di coscienza, la chiesa italiana non solo a livello istituzionale, ma anche capillarmente nelle parrocchie e nelle diocesi dove la Caritas è istituita.
Questo organismo sembra dunque il più accessibile ad un giovane che voglia, come credente, impegnarsi nell’obiezione di coscienza e nel servizio civile.
I dati confrontabili in appendice sono largamente incompleti sia per quanto concerne il numero complessivo degli obiettori in Italia104, che per quanto riguarda gli obiettori alla Caritas105, per diversi motivi.
Innanzitutto il Ministero della Difesa è sempre stato molto parco nel fornire i dati ufficiali sull’obiezione di coscienza106. Solo negli ultimi anni, in concomitanza con la discussione della proposta di riforma della legge 772, i dati ufficiali sono stati resi pubblici. Tuttavia l’andamento relativo agli anni 1972-1981 è ancora poco attendibile (le cifre sono arrotondate allo zero).
Per la Caritas il discorso è diverso. Esiste una certa sicurezza per gli anni che vanno dal 1977 al 1986: la ricerca, i cui risultati sono illustrati nel libro "Dopo l’obiezione"107, ne fa fede. Gli altri dati, estrapolati dai periodici di collegamento della Caritas, ‘Servizio civile’ ed ‘Informacaritas’, nella loro artigianalità, dipendono dalla buona volontà di chi ha avuto la pazienza di raccoglierli: esiste una lacuna tra gli anni 1988 e 1991 concomitante con il cambiamento del sistema informatico della Caritas e con la vacanza intercorsa fra la fine della pubblicazione di ‘Servizio civile’ e l’inizio di quella di ‘Informacaritas’. Dati più precisi e completi si potranno avere nella pubblicazione prevista per il ventennale della convenzione Caritas-Ministero nel 1997.
Andamento annuale nazionale
I dati confrontabili (obiettori impiegati su scala nazionale e nella Caritas) nelle tavole 1, 7 e 11 dell’appendice mostrano una progressiva crescita percentuale degli obiettori Caritas che, già nel 1979, si attestano sul 15,6% del totale nazionale. Anche in seguito la percentuale media si pone tra il 15 ed il 20%.
Rispetto ai dati nazionali si nota una certa stabilità nella Caritas, senza le notevoli variazioni riscontrabili in coincidenza, ad esempio, con la gestione Spadolini del Ministero della Difesa108.
La tavola 1 evidenzia inoltre che il servizio militare deve fare i conti con il trend demografico quale fattore avverso. Per cui se nel 1990 i militari di leva sono stati circa 70.000 in meno rispetto al 1986, tra il 1990 e le previsioni relative al 2000 ... gli iscritti alla leva diminuiranno del 31.4%, gli idonei del 28% nella leva di mare e del 40% nella leva di terra109.
Per gli obiettori di coscienza il trend demografico non risulta invece un fattore avverso visto il costante aumento di 5.000 unità annue. Nel 1993 più dell’8% dei giovani che dovevano assolvere il dovere della leva hanno fatto obiezione di coscienza al servizio militare.
Età media
Le tavole 2 e 8 dell’appendice non permettono un confronto significativo, data la diversità dei parametri usati da Ministero e Caritas e gli anni non coincidenti per i quali disponiamo di dati. Tuttavia non sembra esserci grande diversità fra i dati complessivi e quelli della Caritas.
Livello culturale
Anche in questo caso le tavole 6 e 9 dell’appendice non consentono significativi raffronti. Tuttavia se solitamente gli studenti universitari avevano la percentuale più alta, nell’ultimo periodo prevalgono i diplomati; segno che l’obiezione si sta diffondendo nei diversi strati della società e non è più solo patrimonio di un’elite culturale.
Ripartizione regionale
Più interessante il quadro regionale dell’obiezione di coscienza110. L’unico raffronto possibile è quello riguardante il numero di obiettori impiegati nel 1992, oltre che, per regioni militari, nel ’94: tuttavia l’andamento costante della crescita per regione, nel numero di obiettori impiegati, sia a livello nazionale che alla Caritas, consente di considerare tale raffronto come abbastanza rappresentativo.
Tenendo conto che in media nel ’92 gli obiettori Caritas erano il 17,5% del totale nazionale, spicca la loro alta densità in Campania, Puglia, Sicilia e, generalmente, al sud (Umbria e Sardegna si segnalano piuttosto come eccezioni). Il sud, povero di obiettori in genere, vede una forte componente di obiettori della Caritas.
Anche a prescindere dai dati complessivi, la Caritas vede incrementare notevolmente la componente obiettori nel Meridione italiano. La tavola 10 dell’appendice manifesta che, se Lombardia ed Emilia Romagna (da sempre bacino notevole di vocazioni all’obiezione) ed in genere il nord si sono stabilizzati, la Sicilia conta più obiettori nel ’92 o nel ’94 di quanti ne abbia totalizzati fra il 1977 ed il 1986. Analogo discorso si può fare per Lazio, Puglia, Calabria, Abruzzo e, con quantità notevolmente diverse, Sardegna. Campania e Basilicata sono nella medesima situazione, ma non fanno testo, avendo avuto disposizioni particolari al servizio di leva, per diversi anni, in seguito al terremoto del 1980.
La tav. 5 inoltre se da un lato manifesta che le assai maggiori opportunità di essere informati sul servizio civile alternativo e di poterlo correntemente prestare presso enti convenzionati nella propria regione costituiscono risorse riservate ai giovani dell’Italia settentrionale e centrale piuttosto che a quelli dell’Italia meridionale111, dall’altro segnala la significatività della presenza della Caritas al sud; essa risulta uno dei pochi enti che si preoccupano dei numerosi giovani presenti nel Meridione italiano e della loro formazione a valori di pace e solidarietà, così importanti per la situazione in cui vivono, per i quali giovani il servizio di leva rischia di essere una scelta obbligata.

OBIEZIONE DI COSCIENZA ALLA CARITAS:

La ricerca confluita nel testo "Dopo l’obiezione"112 e la relazione di mons. Pasini su questo tema al termine del suo mandato113 permettono di tentare un primo bilancio sulla presenza degli obiettori alla Caritas e nella chiesa.
Nel periodo in cui era in vigore la circolare dei ventisei mesi114 la Caritas Italiana proponeva ai suoi obiettori di rifiutare la logica boicottatrice di questo provvedimento e suggeriva loro il cosiddetto "autodistaccamento" che consisteva nell’iniziare il servizio anche senza l’accoglimento del Ministero, in modo tale da garantire almeno un anno di servizio civile (con spese di gestione a carico della Caritas)115.
Ben 129 obiettori su 398 precettati in quel periodo aderirono alla proposta. "Per una pratica con molti lati di incertezza e di rischio come l’autodistaccamento, si può certamente ritenere molto indicativo il 32% di adesioni"116.
È ben lontana da questi giovani la figura dell’obiettore ‘imboscato’. L’indagine mette infatti in evidenza come le motivazioni che spingono all’obiezione nella Caritas sono l’atto di "ripulsa verso l’ingiustizia" accompagnato però dal pieno riconoscimento del dovere del cittadino di offrire il proprio contributo di impegno personale, di fatica, di dedizione a quella "difesa" della Patria cui la Costituzione italiana chiama tutti. Nasce di qui l’impegno per il servizio civile a favore dei più poveri117.
Che se poi nel periodo di servizio il secondo aspetto prende il sopravvento sul piano pratico, l’83,5% degli obiettori afferma di aver affrontato durante il servizio la formazione sulle tematiche connesse all’obiezione di coscienza (pace, nonviolenza, difesa popolare nonviolenta, antimilitarismo)118.
Dunque un reale impegno nelle due dimensioni fondanti dell’obiezione di coscienza alla Caritas (pace e servizio) frutto di una decisione forte presa in modo meditato e cosciente: infatti la scelta dell’obiezione matura generalmente in una famiglia che, "anche se non pienamente compartecipe, è comunque uno "sfondo" che non ostacola l’obiettore". Non è privo di interesse poi il fatto che in tale scelta risultino determinanti le figure dell’amico che la consiglia o del prete che la incoraggia119.
Ad avvalorare la dedizione alla pace e al servizio di queste persone sta il fatto che gli obiettori continuino, anche dopo la conclusione del servizio civile, questo loro impegno nei vari ambiti della vita parrocchiale ed ecclesiale, sociale e politica: la loro risulta una "presenza proporzionalmente ampia e qualificata"120: pensando ai 30.000 obiettori che sono passati dalla Convenzione Caritas, si calcola che circa 12.000 di essi si sono inseriti nelle strutture pastorali (catechesi, Caritas, organismi di volontariato, consigli pastorali, responsabili di associazioni giovanili, sacerdoti e religiosi...), portando il peso delle proprie convinzioni e delle maturazioni avvenute negli itinerari formativi dell’anno di servizio121.
Non sfugga, a questo proposito, che il 30% degli obiettori Caritas in congedo ha conseguito una laurea e la stessa percentuale di persone lavora come dirigente, libero professionista, lavoratore autonomo, imprenditore122.
A fronte della serietà degli obiettori, attestata da diversi indici, colpisce il fatto che, per ciò che riguarda compiti di alta responsabilità pastorale (consigli pastorali diocesani, dirigenza di associazioni...), "le chiese locali non si avvantaggino che in minima parte del contributo di esperienza, di umanità, di disponibilità degli obiettori Caritas!". Fra le cause del fenomeno si può supporre una certa atavica diffidenza nelle gerarchie ecclesiastiche (non solo vescovi ma anche sacerdoti di curia e dirigenti di associazioni) verso l’obiezione di coscienza, gesto di rottura troppo innovativo per chi è stato educato secondo tutt’altra dottrina e disciplina.
Un’altra ipotesi formulabile è quella di una forte laicità dei nostri obiettori, uomini più di frontiera che di prestigio, attenti più al nuovo, al non ancora, allo sperimentabile che interessati ed attenti alla gestione dirigenziale delle cose, anche di chiesa123.
Per quanto riguarda la cultura diffusa, si può affermare che la presenza degli obiettori in oltre 180 diocesi e in molte parrocchie ha lasciato il segno. Il minimo che si può registrare è che gli obiettori sono considerati ormai un fenomeno "ordinario e positivo", anche se la positività è più riferita al "servizio compiuto da tanti bravi ragazzi", che alla significatività della loro opzione di obiettori agli effetti di un cammino di pace e nonviolenza124.
Infine è degno di nota il giudizio che gli obiettori esprimono nei confronti della chiesa e della Caritas: un giudizio particolarmente pesante dato che si tratta di un insieme di persone contraddistinte da una fede robusta e convinta. L’atteggiamento verso la chiesa da parte di queste persone così aderenti al suo messaggio è improntato ad una chiara disponibilità che si accompagna ad un intelligente senso di laicità e di razionalità125.
Interrogati specificatamente sui problemi dell’ecologia e della guerra, gli obiettori si dicono insoddisfatti soprattutto della posizione della chiesa sul secondo tema, perché essa non abbraccia pienamente la loro posizione profetica sulla guerra, anche se c’è il pieno riconoscimento dei vincoli e degli obblighi derivanti dalla missione universale126.
Un giudizio sostanzialmente positivo raccoglie invece la Caritas che vede raggiunti i suoi obiettivi circa l’obiezione: servizio civile, impegno educativo, sostegno all’obiezione ed alla pace.
Tuttavia la mancata modifica della legge 772, la mancanza di proposte alternative concrete alla risoluzione dei conflitti, la difficoltà ad allargare la cultura nonviolenta - tutti obiettivi che la Caritas ha perseguito insieme alle altre forze pacifiste e agli altri obiettori - mettono in evidenza una realtà: è mancata una progettualità delle forze pacifiste, e né la chiesa, né la Caritas con i suoi obiettori, sono stati in grado di supplire a queste carenze127.

OBIEZIONE DI COSCIENZA E NOVITÀ CRISTIANA DELLA PACE

È il titolo di un documento stilato dalla "Commissione di impegno sociale - Giustizia e pace" dei Sacerdoti del sacro Cuore di Gesù d’Italia. Il testo, approvato il 5 maggio 1992, merita attenzione sia per quanto dice, sia per il fatto di essere emanazione di un istituto religioso.
Non è infatti frequente che una parte qualificata della chiesa italiana, quale può essere una congregazione religiosa, prenda posizione sui temi dell’obiezione e della pace. E in effetti, pur essendo firmato da molti componenti di tale istituto, superiori provinciali e generale compresi, il documento porta la firma di una sua commissione, non dell’istituto né di una sua provincia.
La presa di posizione di un intero istituto era avvenuta invece da parte delle Suore domenicane dell’unione di s. Tommaso: in occasione della guerra del Golfo, la madre generale scrisse una lettera al ministro degli esteri Andreotti per deplorare l’intervento armato italiano.
Inoltre i Sacerdoti del sacro Cuore di Gesù, più comunemente detti ‘dehoniani’, non hanno obiettori in una propria convenzione, come può essere per i Salesiani: il tema viene affrontato per la sua portata evangelica e culturale, segno che l’obiezione di coscienza sta veramente facendo camminare e riflettere la comunità ecclesiale. Tuttavia non va dimenticato che uno dei componenti di tale commissione era p. Angelo Cavagna, promotore della riforma della legge 772 (nel 1989 ha sostenuto, per questo, un digiuno di 27 giorni) e presidente del GAVCI (Gruppo autonomo di volontariato civile in Italia), ente particolarmente impegnato nell’ambito dell’obiezione e della diffusione della cultura pacifista.
Il documento128 intendeva promuovere, attraverso attenta riflessione, una svolta più decisa nelle chiese cristiane e nella società civile, verso la pace, la nonviolenza, la difesa non armata. In modo particolare esso prendeva posizione in favore del ‘diritto’ all’obiezione di coscienza - il 1° febbraio dello stesso anno il presidente della Repubblica Cossiga aveva rinviato alle Camere il testo di legge sull’obiezione di coscienza al servizio militare, approvato in via definitiva dai due rami del Parlamento il 16 gennaio 1992 - e contro il ‘nuovo modello di difesa’, adombrato nei "Lineamenti di sviluppo delle forze armate in Italia negli anni ’90", presentati dal Ministero della difesa in Parlamento nell’ottobre del 1991.
Il diritto all’obiezione di coscienza viene semplicemente riaffermato sulla base di quanto la legislazione e gli organi istituzionali italiani avevano, già da tempo, stabilito: la novità sta soprattutto nel soggetto che riafferma.
Quanto al ‘nuovo modello di difesa’, esso viene visto come l’ennesima affermazione della necessità e della legittimità della guerra, "male necessario, in assenza di alternative". La commissione dehoniana ritiene invece che al rifiuto verbale della guerra e a una volontà sincera della pace deve corrispondere, anche da parte dei cristiani, un adeguato impegno di rifiutare gli elementi strutturali del ‘sistema di guerra’ (ricerca - industria - commercio - addestramento - finanziamento bellici) e di predisporre un’effettiva difesa nonviolenta.
Tanto più che il nuovo modello di difesa, che le nazioni industrializzate sono condotte ad ipotizzare, "rende ancora più irrazionale l’idea di ricorrere alla guerra per risolvere le controversie internazionali". Per l’Italia si tratta di abbandonare il tradizionale parametro ‘da chi difendersi’ a favore di una polarizzazione su ‘cosa’ difendere, e cioè gli "interessi vitali ovunque minacciati e compromessi", e ‘come’. Tali interessi, specificano i "Lineamenti", riguardano "le materie prime necessarie alle economie dei paesi industrializzati" per i quali l’Italia sta assumendo il "ruolo di ponte politico ed economico tra l’occidente industrializzato e il terzo mondo". Se ne ricava un ‘nuovo ordine internazionale’ molto lontano da quello auspicato nelle encicliche sociali e fondato invece sul "mantenimento del predominio del Nord sul Sud del mondo, garantito attraverso lo strumento militare".
Come cristiani - continua il documento - per i motivi evangelici di sempre e per quelli contingenti della realtà contemporanea, diciamo un no categorico a questo modello di difesa. Diviene indilazionabile una svolta teologica e una concreta indisponibilità dei cristiani a far parte del mondo militare, sulla base, anche, di pronunciamenti ufficiali che non mancano e vengono riportati.
Infine, dopo la precisazione che "nonviolenza non equivale a passività", il documento propone di:
1. Operare una scelta cristiana più chiara di nonviolenza; 2. Propugnare il diritto alla obiezione di coscienza al servizio militare, in tempo di pace ed in tempo di guerra; 3. Valorizzare la scelta degli obiettori come scelta di pace, alternativa alla difesa armata, e come scelta di solidarietà nel servizio civile; 4. Sganciare il ministero pastorale dei cappellani fra i soldati dalla gerarchia militare (rinuncia ai gradi ed alle insegne militari); 5. Considerare l’opportunità che i seminaristi facciano la scelta della obiezione di coscienza e del servizio civile, come testimonianza particolarmente significativa di pace e di solidarietà fra i giovani; 6. Sostenere la proposta-Caritas del servizio civile obbligatorio per tutti gli uomini milite-esenti e volontario per le donne; 7. Incoraggiare la obiezione scientifica, quella industriale e quella fiscale al ‘sistema militare’, per convogliare le energie intellettuali, produttive ed economiche del paese a scopi di vita, e di difesa della vita, con metodi nonviolenti; 8. Premere socialmente e politicamente per un’applicazione corretta dell’art. 11 della Costituzione, contro l’idea di un modello di difesa imperniato sul predominio economico e militare del Nord sul Sud del mondo; 9. Esigere che i soldi della cooperazione italiana (legge 49/87) vengano destinati preferenzialmente ai veri progetti di volontariato internazionale, invertendo la piega commercialista invalsa negli ultimi anni e denunciata anche recentemente dai consulenti ecclesiastici dalla FOCSIV".
Il documento venne reso pubblico attraverso una conferenza stampa tenutasi a Roma il 22 maggio 1992. In tale occasione vennero anche lanciate due iniziative editoriali, frutto del lavoro della commissione dehoniana nel corso del 1991, centenario della "Rerum Novarum": "Nuove mete dell’azione sociale"129, atti di un seminario di studio, realizzato in collaborazione con le ACLI nazionali, e "I cristiani e l’obiezione di coscienza al servizio militare"130, atti di un convegno realizzato in collaborazione con la Caritas italiana e Pax Christi nazionale. Alla presenza di una ventina di giornalisti e altrettanti uditori, G. Bianchi, presidente delle ACLI, presentò il primo volume, B. Frediani, vicedirettore della Caritas, il secondo e p. A. Cavagna il documento della commissione dehoniana.
L’originale presa di posizione ha raccolto poi la sottoscrizione di numerosi e qualificati esponenti del mondo ecclesiale italiano: tre vescovi (A. Franco di Oria, A. Bello di Molfetta e L. Bettazzi di Ivrea), numerosi teologi, alcuni dei quali tra i più noti moralisti italiani (E. Chiavacci, L. Lorenzetti, G. Piana, V. Salvoldi...), il direttore della rivista ‘Il Regno’, A. Filippi, M. Elia, direttore di ‘Missione oggi’, e l’ex direttore della Caritas, G. Nervo, presidente della Fondazione Zancan. I firmatari sono stati 145 in tutto, 47 dei quali dehoniani, tra novizi, religiosi e preti. Ma questo, come si è detto, non ha fatto prendere posizione l’Istituto o una sua provincia in quanto tali, come è avvenuto per la "Society of the Holy Child Jesus", ma solo un elevato numero di singoli. Al documento hanno aderito anche quattordici fra gruppi ed associazioni tra cui ‘Pax Christi’ e alcune fraternità religiose.
La risonanza della riflessione proposta dalla commissione dehoniana è stata garantita soprattutto dalla stampa cattolica: ‘Avvenire’ (23. 5.92), ‘Adista’ (3.6.92), ‘Segnosette’ (9.6.92) e ‘Famiglia cristiana’ (n° 23/92). Anche alcuni quotidiani intervenivano sul documento, rendendosi interpreti delle preoccupazioni degli ambienti legati al mondo militare: ‘Il Giornale’ pubblicava un articolo dal titolo: "Offensiva antimilitarista di ACLI e Caritas. I pacifisti cattolici: cappellani senza gradi", riportando alcuni passaggi della conferenza stampa del giorno precedente131; lo stesso quotidiano dava spazio ad una lettera titolata: "Difendiamo la nostra difesa" in cui l’autore, tra le altre cose, affermava:
Il documento elaborato dalla commissione impegno sociale giustizia e pace, sottoscritto da più di cento tra teologi e religiosi, è di una gravità inaudita, in quanto avrà il pregio di mettere gli italiani gli uni contro gli altri... Si spera che il Santo Padre, Giovanni Paolo II... voglia intervenire sul clero e sulle organizzazioni tipo ACLI e Caritas affinché queste non travalichino da quei confini di loro competenza ben definiti, che esse impudentemente hanno già dimostrato di aver oltrepassato132.
Nei giorni successivi anche ‘La Stampa’ ed il ‘Corriere della sera’ lasciavano spazio ad interventi sui cappellani militari e sul silenzio dei pacifisti per la guerra in Bosnia.
Non sono mancate le repliche che hanno alimentato il dibattito pubblico sui temi della pace e dell’obiezione di coscienza, che il nuovo Parlamento si apprestava ad affrontare. Nessuno però ha smentito l’interpretazione del ‘nuovo modello di difesa’ data dal documento, rivelatosi realmente puntuale nell’intervenire su due temi così determinanti per la promozione della pace, quali il diritto all’obiezione garantito dalla legge, insabbiato nelle attese parlamentari, ed il ‘nuovo modello di difesa’ allo studio in Parlamento, senza coinvolgimento dell’opinione pubblica.

CONCLUSIONI

La scelta dell’obiezione di coscienza è senza dubbio un’attenzione della chiesa italiana. Tuttavia mette in evidenza un divario reale tra base e vertici della comunità cristiana.
Non si può non notare come l’impegno prolungato e costante di un settore sicuramente qualificato, ed evangelicamente motivato, della chiesa italiana non trovi un deciso riscontro nel magistero pastorale ufficiale: la posizione conciliare, che elogia tanto la scelta della vita e della via militare quanto quella dell’obiezione di coscienza per il raggiungimento della pace, è stata, nella migliore delle ipotesi, largamente riproposta negli anni postconciliari.
L’obiezione di coscienza è ormai parte della vita di molti cristiani, ed il fenomeno nella Caritas ne è una prova, ma non è la scelta preferenziale, né tantomeno l’unica, della chiesa italiana.
In questo quadro acquista notevole risalto la presa di posizione, oltre che di singoli, di gruppi ecclesiali: istituti religiosi, associazioni, organismi. È il fatto che forse, più di ogni altro, muoverà la chiesa italiana ad una scelta, a non passare più tra sistema militare e pacifista come se le due realtà potessero tranquillamente convivere. La decisione di un istituto religioso, o di una sua parte, ha un certo peso: non è più l’opinione isolata di un personaggio, pur autorevole. Tale decisione obbliga la comunità cristiana nel suo insieme, e quindi anche i pastori, a una riflessione, a considerare le motivazioni che hanno portato a questa determinazione.
E, a proposito di strutture intermedie tra vertice e base della chiesa, la Caritas assume un ruolo tutto particolare, essendo un organismo della CEI. Di fatto si può ormai affermare che un organismo della CEI ha fatto la scelta nonviolenta per l’obiezione di coscienza.
Un’istanza che ha fatto irruzione nella chiesa dopo anni di tentennamenti, se non di condanne, grazie alla mobilitazione della comunità cristiana nella sua espressione più semplice e forse più autentica.
Non è un caso che la proposta di far propria la scelta dell’obiezione di coscienza, come scelta preferenziale, sia venuta dal convegno ecclesiale di Roma. Mai, o poche volte, come in quell’occasione la comunità cristiana è stata ascoltata nel suo insieme, in un contesto di dialogo e confronto che ha impegnato clero e soprattutto laici per molti mesi. Il convegno di Roma, che ha compiuto le grandi scelte pastorali della chiesa italiana dopo il Concilio, ha lanciato la comunità cristiana come fermento e lievito all’interno della società italiana, cogliendone gli aspetti positivi e valorizzandoli, portando il suo contributo evangelico, disposta a collaborare all’affermazione di quei valori che, anche se proposti da una società secolarizzata, non sono lontani da quelli cristiani.
L’obiezione di coscienza al servizio militare e la ricerca nonviolenta della pace si presentano appunto come scelte che presuppongono la possibilità della positiva collaborazione col mondo secolarizzato. Il convegno che nel ’76 si è espresso a Roma credeva in questa possibilità e ha legittimato nella comunità cristiana l’obiezione di coscienza ed il servizio civile. Segno che la vera partecipazione ed il dialogo, latitanti nelle ultime manifestazioni similari, sono vie ad una presenza significativa, anche se difficile ed impegnativa, della chiesa nella comunità umana.
Se la chiesa non potrà molto a lungo dilazionare la sua scelta tra via militare e via nonviolenta, la Caritas ha già vissuto in anticipo la stessa esperienza. La scelta nonviolenta della Caritas italiana non ha preceduto, ma seguito l’avvento degli obiettori. La loro presenza ha in qualche modo costretto la Caritas alla riflessione e ad una decisione.
Di fatto, la presenza legittima, apprezzata talvolta più per il servizio che per i contenuti ideali, degli obiettori di coscienza negli organismi della chiesa italiana, anche se con lentezza, la spinge ad una presa di posizione che necessariamente passerà dalle strutture intermedie piuttosto che cadere dall’alto. Più convinta ed estesa sarà la loro scelta, più efficace sarà lo stimolo al cambiamento: in questa direzione è rilevante lo spazio sempre maggiore che la Caritas riserva alla formazione, anche a costo di accogliere un minor numero di giovani.
Per ora, tuttavia, la dottrina ufficiale della chiesa non promette di risolvere il problema al più presto. Essa, al più alto grado, si evince dai pronunciamenti papali, dai quali difficilmente un episcopato, e segnatamente quello italiano, si distacca.
Giovanni Paolo II ha sicuramente posto particolare attenzione al tema della pace. Ma, pur con qualche mutamento, non si è allontanato dal magistero dei suoi predecessori novecenteschi nel giudicare i nodi della pace e della guerra: e cioè, al di là delle oscillazioni ... si è sostanzialmente indirizzato ad adeguare lo schema intransigente a tendenze presenti nella contemporanea presenza cristiana, apportandovi così alcune correzioni, ma riproponendone in sostanza i presupposti e gli esiti133.
La necessità del ritorno alla ‘societas christiana’, base dello schema intransigente, è continuamente ripetuta anche se senza gli accenti della cultura cattolica reazionaria del secolo scorso. Negli interventi papali, infatti, da un lato viene proclamata l’incapacità della società moderna, colpevole di rivendicare la sua autonomia dalla chiesa, di evitare la guerra, e dall’altro viene affermata l’indispensabilità del ricorso alla chiesa per costruire la pace: se ne trova la conferma anche nei discorsi del pontefice citati da mons. Nervo134 a conferma della posizione della Caritas. Inoltre la non celata volontà di continuità con i pontefici precedenti si coniuga con la scomparsa di riferimenti a ciò che la "Pacem in terris" aveva di più innovativo: il ripudio della teorizzazione della guerra giusta nell’era atomica che, pur non inficiando totalmente lo schema tradizionale, ne faceva intravedere la possibilità di un mutamento di rotta.
All’interno di questo schema non meraviglia la riproposizione della dottrina della guerra giusta - e della legittimità della pena di morte - nel nuovo "Catechismo della chiesa cattolica"135 e nell’ultima enciclica che tocca questo tema136. Finché la società non tornerà nell’alveo cristiano la guerra sarà inevitabile ed inevitabile il dovere della difesa con mezzi proporzionati al fine: non meraviglia, in questo senso, la giustificazione e la richiesta pontificia dell’intervento armato per la cosiddetta ‘ingerenza umanitaria’ in Bosnia137, quando lo stesso intervento era stato invece ritenuto inadeguato per risolvere la crisi del Golfo138.
La riproposizione della dottrina intransigente permette, allo stesso modo, di giudicare la posizione pontificia sui nazionalismi, buoni se animati da spirito cristiano, causa di ogni male se svincolati da esso, o sulla democrazia moderna.
È evidente che l’obiezione di coscienza potrà essere proposta come scelta preferenziale per i cristiani solo in una ‘societas christiana’: per ora se ne ammira lo spirito anticipatore e profetico, ma in vario modo se ne afferma l’insufficienza come via alla pace.
Dunque, i temi della pace e dell’obiezione di coscienza al servizio militare mettono in luce, nella chiesa, un problema più profondo: non è stato recepito il discorso sulla secolarizzazione proposto dal Vaticano II e accolto ufficialmente dalla chiesa italiana nel programma pastorale postconciliare culminato nel convegno di Roma. Di conseguenza manca quella positiva fiducia nel mondo che circonda la chiesa, così presente negli anni ’60-’70, luogo di collaborazione per la costituzione di un mondo cristiano per ciò che vive, piuttosto che per ciò che appare.
Se manca la fiducia nell’autonomia del mondo laico non può esserne recepita una giusta istanza né si può perseguire insieme l’affermazione di un valore comune, anche se ha motivazioni e presupposti diversi.
La persistente chiusura della chiesa nello schema intransigente non è esente da responsabilità nella mancata affermazione di progetti politici quali quelli di Sturzo, Dossetti e anche del primo De Gasperi. E forse non è una coincidenza che Sturzo e Dossetti siano accomunati da un indubbio impegno nonviolento per la pace: superamento dello schema intransigente e ricerca nonviolenta della pace sembrano andare di pari passo.
La riproposizione del medesimo schema, anche se adeguato alla realtà contemporanea, ostacolerà, allo stesso modo, il consolidarsi di progetti politici che vedano credenti e non impegnati, alla pari, a propugnare istanze comuni e, dal punto di vista dei credenti, cristiane; così come ha ostacolato quei gruppi cristiani che, con accenti indubbiamente radicali, cercavano di riflettere a fondo sulla nuova presenza richiesta alla chiesa nel mondo secolarizzato: anche qui non è una coincidenza che numerose comunità ecclesiali di base si siano segnalate per la scelta nonviolenta.
Ne segue l’alto valore che assume il movimento per l’affermazione dell’obiezione di coscienza e della ricerca della pace con metodi nonviolenti, e di tutti gli altri movimenti di base. Al di là dei piccoli risultati che ha potuto raggiungere esso provoca continuamente la chiesa a rivedere la sua impostazione; a rivalutare quanto del Vaticano II sta andando tra parentesi; a confrontarsi con scelte di non credenti che mettono in discussione l’autenticità di quelle cristiane. Ed è ancora una volta una provocazione che viene dal basso, dalla base, che ha già prodotto alcuni frutti: l’aumento della sensibilità ecclesiale sui temi della pace; la messa in discussione, se non dell’esercito, del sistema militare; la collaborazione con le altre grandi religioni e la valorizzazione dei loro pacifisti ...
Se ne trova eco nelle parole del "Catechismo degli adulti" della CEI edito il 16 aprile 1995, segno di una svolta teologica in atto, almeno nella chiesa italiana:
È la guerra "il mezzo più barbaro e più inefficace per risolvere i conflitti". Il mondo civile dovrebbe bandirla totalmente e sostituirla con il ricorso ad altri mezzi ... Appare pertanto urgente promuovere nell’opinione pubblica il ricorso a forme di difesa nonviolenta. Ugualmente meritano sostegno le proposte tendenti a cambiare forma e struttura dell’esercito per assimilarlo ad un corpo di polizia internazionale ...
È dovere dei politici organizzare la pace: eliminare le armi di distruzione di massa e tenere a basso livello le altre, destinare le risorse risparmiate con il disarmo allo sviluppo dei popoli, sostituire sempre di più la collaborazione alla concorrenza. È dovere di tutti i cittadini educare se stessi alla pace: rispettare il pluralismo politico, sociale, culturale e religioso, favorire il dialogo e la solidarietà in ambito locale e a dimensione planetaria, tenere un sobrio tenore di vita che consenta di condividere con gli altri i beni della terra ... In questo contesto risalta il significato educativo che può avere la scelta degli obiettori di coscienza di testimoniare il valore della nonviolenza sostituendo il servizio civile a quello militare, senza peraltro recare pregiudizio al valore e alla dignità del servizio dei militari quando operano come "servitori della sicurezza e della libertà dei loro popoli"139.
Queste parole, tratte dal paragrafo ‘Abolire la guerra’, risultano il frutto del senso della fede del popolo di Dio maturato fra i conflitti di coscienza provocati dal contatto con la storia degli uomini. Senso della fede che sempre precede, nei movimenti che ne sono consapevoli, i pronunciamenti ufficiali e che, anzi, li fa cambiare quando non rispecchiano più la convinzione di fede della comunità cristiana.
La dottrina della chiesa, nella sua perenne ricerca di adeguarsi allo spirito evangelico nel vivere la storia umana, è stata capace, in questo senso, di cambiamenti notevoli: si pensi solo alla sua evoluzione sui problemi della schiavitù, della libertà di coscienza, della libertà religiosa o dell’ecumenismo.
Il movimento pacifista può ben sperare.

 

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