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Intorno al Perdono

Settembre 2012

perpetua Il perdono costituisce senza alcun dubbio uno dei pilastri fondamentali della fede cristiana, anzi si può considerare il suo tratto distintivo e il suo valore aggiunto, sebbene anche nella filosofia greca, se non sbaglio, il suo concetto era stato sviluppato, sia pure soprattutto quale strategia per una migliore azione politica, come dimostrò poi l'operato da essa ispirato di alcuni imperatori romani come Tito, lo stesso che distrusse Gerusalemme nel 70 d.C. in seguito alla rivolta degli Zeloti, i partigiani ebraici, causando la dispersione nel mondo degli Ebrei stessi, ma anche la diffusione del Cristianesimo che inizialmente ne seguì le orme.
Sul perdono, dunque, si legge nel Vangelo di Matteo, 5,44-46:
... amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, 45perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. 46Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani?;
i pubblicani erano personaggi molto odiati all'epoca di Gesù, poiché erano esattori locali che esigevano i tributi per conto dei Romani usando metodi molto spesso violenti ed estorcendo somme non spettanti, per cui erano ritenuti agli occhi del popolo ebraico doppiamente traditori.
Il perdono però pone sul tappeto interrogativi pesanti come macigni, che non è possibile eludere e a cui si deve tentare di rispondere per capirne appieno il significato. Che cosa vuol dire, allora, perdonare, quali sono i limiti del perdono e quale il suo rapporto con la giustizia e con il male?
perdono Iniziamo col dire che perdonare non significa soltanto rinunciare alla vendetta e alla conseguente persecuzione di chi ha compiuto il male e che è conveniente per la vittima stessa, perché gli consente di non restare prigioniera del proprio dolore e di andare oltre per poter anche apprezzare il bene che si continua a ricevere dagli altri, senza chiudersi a riccio per il male subito. Ciò permette pure di non darla vinta a chi ha compiuto il male stesso con l'intenzione di rovinarne la vita, ed in questo senso anzi il pregare Dio per la conversione di chi lo ha commesso (solo Lui può operarla) permette di sperare in quella richiesta di perdono da parte di quest'ultimo, che costituisce, a mio parere, forse la più grande consolazione per la vittima, poiché presuppone l'assunzione delle proprie responsabilità e la volontà di risarcirla, per quanto possibile, per un futuro reinserimento sociale, naturalmente quando ciò non sia dovuto ad una pura e semplice, quanto opportunistica, strategia difensiva.
A questo punto però si pone la questione dei limiti e delle modalità del perdono, ossia se si deve perdonare su richiesta o senza, e fino a quando o a quante volte.
La seconda domanda è stata oggetto di uno specifico episodio evangelico, in Matteo 18, 20-22, che vede Pietro chiedere a Gesù:
"Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?". 22E Gesù gli rispose: "Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette.”,
vale a dire, per il consueto valore infinito e indefinito del numero sette e dei suoi multipli, sempre, in tutte le occasioni.
La prima domanda invece, è molto più complessa perché, a prima vista, la pietà di Gesù sulla Croce per i propri carnefici sembrerebbe dimostrare che il perdono sia concesso da Dio in modo spontaneo, senza la richiesta del peccatore, ma così non sembra essere, poiché le varie parabole che trattano l'argomento sembrano mostrare che la richiesta di perdono è indispensabile, da quella sul figliol prodigo (Luca, 15, 11-32), in cui il figlio decide di tornare apposta per chiedere perdono al padre, a quella sul servo spietato (Matteo, 18, 23-33) che non condona al suo collega un debito di poco conto pur dietro esplicita richiesta del debitore, come gli era stato fatto dal proprio padrone, dietro sua accorata supplica, per il suo di ben altra consistenza, così come il fatto che la richiesta di perdono costituisce il primo requisito della Confessione.
Anzi, proprio il finale dell'ultima parabola (Matteo, 18, 34-35), in cui si stabilisce il legame tra perdono e comportamento personale,
34E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto. 35Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello".
come parte del dialogo nell'episodio dell'adultera, in Giovanni, 8, 10-11:
10Alzatosi allora Gesù le disse: "Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?". 11Ed essa rispose: "Nessuno, Signore". E Gesù le disse: "Neanch'io ti condanno; va' e d'ora in poi non peccare più",
in cui tale legame si estende anche a livello collettivo e come quella parte del discorso della sera di Pasqua ai discepoli, in Giovanni, 20, 22-23;
22Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: "Ricevete lo Spirito Santo; 23a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi".-,
che in genere vengono citate solo per giustificare l'istituzione della Confessione e che invece sono molto più importanti perché non fanno che richiamare e confermare con l'autorità del Risorto la frase del Padre Nostro "rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori", dimostrano che la facoltà e la grande responsabilità di perdonare o non perdonare il male commesso e quindi in qualche modo di decidere, fatti salvi sempre la misericordia divina e il valore di remissione dei peccati dell'Eucaristia, la salvezza eterna del nostro prossimo, è stato affidato non solo alla Chiesa, ma anche a ciascuno di noi per mezzo del perdono reciproco, con la forza dello Spirito (il quale, tenendo conto di quanto si legge in Matteo, 18, 18:
- 18In verità vi dico: tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo.-,
forma anche, operando nei diversi secoli sulla sensibilità morale mutevole nel tempo, ciò che si può laicamente chiamare coscienza collettiva), perdono che, ciò considerato, credo convenga a tutti, poiché, evidentemente, ci si salva tutti insieme.
Tutto ciò viene indirettamente confermato, non certo smentito, dalla medesima richiesta di perdono per i propri carnefici sulla croce, perché, chiedendolo al Padre, è come se Gesù lo avesse chiesto a se stesso, essendo lui stesso Dio.
È importante però, a questo punto, evidenziare come il perdono non significa assolutamente resa al male stesso, né annullamento della giustizia, di cui i cristiani sono chiamati ad avere fame e sete, nonché a praticarla, visto che da una parte bisogna necessariamente contestarlo a chi lo commette, ovviamente evitando accuratamente ogni tentazione di violenza e di azioni fai-da-te che oltretutto metterebbero la vittima sullo stesso piano del carnefice, per metterlo di fronte alle proprie responsabilità, con quella correzione fraterna la cui gradualità è tanto ben descritta nel Vangelo di Matteo, 18, 15-17:
“15Se il tuo fratello commette una colpa, va' e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; 16se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. 17Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all'assemblea; e se non ascolterà neanche l'assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano.”,
quanto così difficile da realizzare nella società odierna, e dall'altra si può ben dire che non può esistere il perdono senza la giustizia (oltre che la pace), visto che il compito della giustizia stessa è appunto quello di individuare da chi il male stesso viene commesso (naturalmente quando essa non finisce col cercare solo capri espiatori), al medesimo fine di metterlo di fronte a quelle responsabilità e a quel dovere del risarcimento, in tutti i casi ciò sia possibile, che è requisito preliminare perché possa instaurarsi un percorso di ravvedimento personale e di perdono da parte della vittima e poi, magari insieme ad essa, di reinserimento sociale.
A tale funzione, anzi a tale dignità delle sia pur imperfette e talvolta immorali (si pensi ad aborto, divorzio, unioni civili) giustizia e legislazione umane viene pertanto riconosciuta, direttamente e indirettamente, da Gesù un’autonomia, anzi un'indipendenza totale, che si riscontra nel citato episodio dell'adultera, in cui non viene messa in discussione la tremenda, diseguale e sproporzionata, nei confronti della donna, disposizione di Mosé sulla lapidazione -"la legge è dura ma è la legge", avrebbero commentato i Romani-, ma la sua applicazione; nella giustificazione dell'altra disposizione sul ripudio (Matteo, 19, 8) a cui segue un passo poco conosciuto sulla convenienza del matrimonio che meriterebbe un articolo a parte; nel simbolismo della visione della Trasfigurazione in cui Gesù e Mosé, simbolo della Legge, conversano tra pari e soprattutto nella risposta data a quel tale che gli chiedeva di convincere il fratello a dividere con lui l'eredità (Luca, 12, 13-14):
13Uno della folla gli disse: "Maestro, di' a mio fratello che divida con me l'eredità". 14Ma egli rispose: "O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?".
a significare che Dio non vuole entrare nella regolazione delle futili ed effimere contese umane operate attraverso le leggi e i giudici che le applicano (ma anche che ogni lite dovrebbe essere superata e quindi annullata dall'amore fraterno).
Ma tutte queste legittime e validissime considerazioni teologiche e filosofiche, in questo come in tutti i casi, vanno calate, e soprattutto sapute calare, nelle carni vive, dolenti e sanguinanti delle vittime (un principio purtroppo molto spesso dimenticato anche nella Chiesa, una circostanza quantomeno contraddittoria per una religione come la nostra che si basa sull'Incarnazione del Verbo, ossia sulla realizzazione concreta dell'Idea) e allora il percorso si fa maledettamente accidentato e complesso: mi fa letteralmente andare in collera, tanto per cominciare, l'imbecillità di quella domanda:- Lo perdona? - rivolta da certi giornalisti a chi magari ha appena perso una persona cara per colpa di un pirata della strada o ad opera di una mano criminale o per la negligenza di colui che avrebbe dovuto curarla, o ne è rimasta vittima in prima persona, ricevendone la vita in ogni modo cambiata per sempre.
A quella domanda, che resta comunque sullo sfondo, si può reagire così con una gamma molto varia di possibili risposte individuali: c'è chi proprio non riesce, per quanti sforzi faccia, a perdonare e a cui non resta che affidarsi alla misericordia divina, c'è chi, anche legittimamente, concede il perdono ma solo dopo la richiesta in ginocchio dei colpevoli come la vedova di quel poliziotto ucciso dai mafiosi a Capaci, chi cerca in qualche modo di andare oltre il male ricevuto, per esempio mandando in dono, a chi ha operato nell'intervento riuscito male, un libro con una dedica che riproduce anche graficamente il cammino compiuto, mettendo tra parentesi il sentimento negativo del rancore, fino all'azione eroica di Giovanni Paolo II che perdonò il suo attentatore Alì Agca andandolo a trovare in carcere per un memorabile e commovente colloquio, in cui forse avrà ascoltato con compassione una storia di sofferenze e di male ricevuto che spesso si cela dietro il male compiuto.
Personalmente quindi, se dovessi dare il solito consiglio, il solito parere di Perpetua circa un motivo pratico per perdonare, vi chiederei di considerare le sofferenze a cui la vita, prima o poi, chiamerà a sopportare tutti noi, vittime e carnefici, e a cui si è chiamati dunque a dare anche questo senso di purificazione dai propri errori, e che tanto il male subito ci sarà risarcito dopo la morte, in Paradiso.
Del resto non si ricava forse dal Vangelo di Matteo,18,34-35 che ciascuno di noi sarà "consegnato agli aguzzini finché non avrà perdonato di cuore" (sebbene si sa benissimo che non può essere "di cuore" un perdono ottenuto con la violenza e quindi ciò andrà inteso nel caso limite di chi proprio non vuol perdonare neanche su richiesta e nel senso del risarcimento alla vittima e della purificazione attraverso le sofferenze offerte per i propri peccati ma anche per quelli altrui, se non si vuole pensare ad errori di traduzione), che si legge nell’Apocalisse, 21,4 come il Signore
“ tergerà ogni lacrima dai loro occhi;/ non ci sarà più la morte,/ né lutto, né lamento, né affanno,/ perché le cose di prima sono passate"
e che sul finire dei Promessi Sposi Fra' Cristoforo conduce Renzo di fronte a Don Rodrigo alle prese con le sofferenze dell'agonia per farlo perdonare dallo stesso Renzo? A proposito, pare che in passato qualcuno abbia proposto di beatificare Alessandro Manzoni. Non era, e non è, una cattiva idea.
Perpetua