Nonviolenza

Nonviolenza: passato, presente, futuro

La storia - Il passato recente - Nella transizione - Il presente - Una nuova storia
14 maggio 2007

Nonviolenza: passato, presente, futuro
venerdì 13 aprile 2007

Gli appunti seguenti sono un tentativo di riflessione attorno al tema della prima sezione, “Tra passato e futuro”, del progettato convegno dell’8-9 dicembre 2007, “La pace è nonviolenza”, in occasione del 25° anno del Centro Studi Sereno Regis, di Torino. Sullo stesso tema stanno lavorando altri collaboratori del Centro Studi (info@cssr-pas.org ; http://www.cssr-pas.org)

Riguardo a violenza e nonviolenza nella storia umana, abbiamo parlato di «una storia di offese e di attese». Probabilmente è impossibile un bilancio generale del passato umano, una filosofia della storia sotto questo profilo. Ma si possono avvicinare dei frammenti.
È nota l’espressione di Hegel, ripetuta più volte anche da Bobbio: la storia come «grande mattatoio». All’opposto, Gandhi non dice solo che la nonviolenza è «antica come le colline», ma, interrogato sulla violenza nella storia, ritiene di poter dire che c’è più bene che male, più collaborazione che violenza. Questa è per lui come degli strappi nel tessuto, ma il tessuto della convivenza umana c’è. Potremmo dire lo stesso osservando la nostra vita quotidiana, per quanto siano gravi i problemi. Se la violenza fosse la legge della storia, dice Gandhi, l’umanità si sarebbe già distrutta. Se oggi stiamo mettendo le premesse di questo esito catastrofico, e se non lo eviteremo, avrà ragione Hegel.
Sembra, finora, di poter dire che la storia dunque è una storia di offese ai diritti umani, ma non è solo questo, a questo non si riduce. Inoltre, l’offesa non annulla, ma semmai evidenzia la dignità umana: nel colpirla la fa risaltare. L’offesa è offesa, è male e dolore, è una realtà negativa, proprio perché c’è una dignità, un valore che non deve essere offeso, e che, pur offeso, non è distrutto, ma grida la sua ragione, anche nel silenzio dell’ucciso, e reagisce spesso positivamente.
Una storia di offese e di attese, dicevamo. Davanti ai limiti dell’esistenza e alle violenze, non sono mai mancati miti, profezie, speranze, promesse, testimonianze, esperienze di una realtà umana emancipata dalle offese all’umanità e dignità di ciascuna persona.

Il passato recente
Ma guardiamo, con minori pretese, ad un passato recente, non a tutto il passato umano. Il Novecento è ritenuto il secolo più violento della nostra storia. Esso sta tra il tempo della modernità e il suo oltrepassamento, chiamato per ora post-modernità. È stato il secolo delle grandi stragi teorizzate, motivate da ideologie di discriminazione, dominio e annullamento (violenza culturale), ma anche delle stragi di fatto, praticate anzi sotto le vesti ideologiche di un progresso materiale indifferente o rassegnato a profonde diseguaglianze e ingiustizie (violenza strutturale).
Nel Novecento e nel 21° secolo Giuliano Pontara ha individuato «tendenze naziste», profondamente operanti, spesso anche dove si avversa a parole il nazismo.
Ci sono basi reali nella coscienza del nostro tempo per fondate attese di riduzione e superamento delle offese?
Ha osservato Jacques Ellul che la nostra «non è affatto l’età della violenza; è l’età della consapevolezza della violenza». Se le coscienze prendono reale consapevolezza del problema, siamo a metà dell’opera, potremmo dire.
Il pensiero della nonviolenza non ha trasformato la politica, l’economia, il costume, ma ha compiuto dei veri passi, nel nostro tempo: da morale personale è diventato una filosofia della politica e ha dato luogo a singificative esperienze di pratica politica. L’idea di pace è cresciuta: dalla pace interiore, spirituale, futura, solo escatologica, dalla pace di piccole comunità esemplari, dalla pace interna allo Stato, da pace temporanea quando la guerra tace, oggi la pace cerca di essere una qualità permanente della politica (quella che Kant chiamava “perpetua”, stabile, istituita).
Criterio e metro di questa pace è la cultura dei diritti umani, caratteristica del nostro tempo, che si traduce nella faticosa costruzione di ordinamenti cosmopolitici (prima SDN e poi ONU) per assicurare la pace. Questi ordinamenti sono ancora deboli e contraddittori, ma cercano una loro effettività (specialmente nelle convenzioni internazionali che sviluppano e articolano i diritti), sebbene siano aggrediti dalle enormi violazioni in atto del diritto internazionale con le guerre in corso e le economie della diseguaglianza strutturale. Il diritto internazionale è oggi la sovrapposizione stridente del vecchio fondamento nella sovranità degli Stati, assoluta e perciò belligena e indifferente ai diritti umani, e del nuovo fondamento nella dignità e diritto delle singole persone di tutta intera la famiglia umana. La guerra è delegittimata nel principio giuridico vigente, ma praticata anche nella forma aggressiva (preventiva), che è la più illegittima, con la pretesa di rilegittimarla.

Nella transizione
Ancora, il concetto di pace sta oggi sul limitare tra la pace negativa e minima (non si fa la guerra, ma alla guerra si può rispondere con la guerra difensiva) e la pace positiva: assenza di violenza sia bellica che strutturale e culturale. Il concetto di pace sta nella transizione da una concezione statica, la tranquillitas ordinis, di Sant’Agostino, cioè il non turbamento di un ordine naturale preesistente, ad una concezione dinamica: la capacità delle persone e dei sistemi di trasformare i conflitti naturali e di gestirli con mezzi costruttivi e nonviolenti positivi.
L’idea stessa di “non violenza” (due parole staccate: assenza di violenza) sta crescendo in “nonviolenza” (una sola parola, un concetto positivo e attivo di azione con i mezzi e con la forza umana della resistenza coraggiosa e della trasformazione dell’inimicizia in relazione costruttiva verso fini superiori comuni).
Naturalmente, in questi binomi, il cammino è lento e minoritario: la cultura delle società e ancor più delle classi politiche, è in ritardo, quasi sempre ferma sul primo dei due termini e spesso ignara o scettica sul secondo. Tuttavia, si tratta di un movimento profondo, realmente presente, che costituisce una delle “attese” della nostra umanità attuale.

Il presente
In questo nostro presente, registrate queste attese, possiamo vedere meglio qualche movimento positivo in atto? Oltre le offese e le attese – per continuare il gioco delle rime – possiamo vedere delle forze vive tese, protese, alla pace nonviolenta?
Allora, viene una serie di domande: quali e quante consapevolezze dei passaggi accennati ci sono nelle coscienze? Quali e quante volontà? Quali rappresentazioni artistiche? Quali modelli culturali? Utopistici, evasivi, concreti? Quali movimenti spirituali, cioè nelle culture profonde, nelle religioni ? Quali culture e programmi politici? Quali teorie del potere (politico, economico, militare, culturale, mediatico)? Quale cultura del conflitto? Quali culture e modelli antropologici, pedagogici, sociali, ambientali, economici, di sviluppo, di difesa?
Una miriade di interrogativi gettati su una situazione umana che vogliamo sperare in un passaggio di umanizzazione, da promuovere. Ma le opzioni positive e promotrici, in tutti questi piani e ambiti, sono nettamente minoritarie: per gli ultrarealisti sono ridicolmente minoritarie. Sono forse anche irreparabilmente in ritardo sulla catastrofe che si va preparando? Eppure, i pericoli oggettivi richiedono e forse alimentano e sollecitano le risorse alternative a mobilitarsi, a costruire sinergie tra quelle “forze tese” alla pace nonviolenta.

Una nuova storia
Ma se volessimo ora, dallo sguardo sul passato e sul presente, osare uno sguardo sul possibile futuro, cosa potremmo tentare di dire?
Al termine “futuro”, che è un modo del verbo essere, una continuazione del passato e del presente, già contenuta in questi, e dunque non molto più promettente, preferisco il termine di “av-venire”. Esso evoca una realtà nuova veniente, un’alterità, della quale possiamo avere diverse immagini: un “Altri” totale, Dio (nelle diverse concezioni) trascendente ma in relazione con la storia umana; una in-venzione dell’arte umana della convivenza, una forma finora non realizzata; l’emergere dell’«uomo inedito» nell’uomo attuale (Ernst Bloch, Ernesto Balducci) ; la “u-topia” concreta, non già presente ma possibile davanti a noi (di nuovo Bloch); la «realtà liberata» nella «compresenza» (Aldo Capitini); la storia in corso come «profezia in atto», nella concezione teologica (non deterministicamente provvidenzialistica) sottolineata da Benedetto Calati.
L’importante è non pensare il futuro come proiezione del passato, inciampando in un nuovo idolo baconiano, l’idolo temporis acti, del tempo passato visto come destino. È l’errore tipico delle persone colte, nutrite di tradizioni, contro cui reagisce l’arte di Ermanno Olmi nel film Centochiodi: la vita non irrazionale né incolta, ma liberata dalla soggezione al pensiero troppo codificato. Qualunque cosa la storia sembri promettere, o qualunque speranza sembri gelare, vale davanti ad essa questo atteggiamento di Gandhi (che troviamo, con altre parole, anche in Capitini): «Se dobbiamo progredire, non bisogna ripetere la storia, ma fare una nuova storia».

Enrico Peyretti

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