Le religioni producono sia violenza che nonviolenza

Dieci tesi su religioni, violenza e nonviolenza

Ambiguità e presa di coscienza - Verità - Elezione - Potere - Etica - Educazione - Pace - Miracolo morale - Contributi e ritardi
6 novembre 2009

DIECI TESI su RELIGIONI, VIOLENZA, NONVIOLENZA
(Articolo pubblicato in forma ridotta "Otto tesi su religioni, violenza, nonviolenza" in “Confronti” n. 9, settembre 2009, su "La violenza del sacro", pp. 67-68; redazione@confronti.net )

 

Si propongono qui, in forma di appunti, sempre da rimeditare e verificare, dieci possibili aspetti della relazione tra religioni, violenza e nonviolenza.

1. Le religioni producono sia violenza che nonviolenza.
Le religioni sono tensione, ricerca, relazione con qualche “verità”, o realtà ultima, che dà significato e coinvolge intensamente tutta la nostra personalità ed esistenza umana; verità e realtà maggiore delle prime apparenze; oppure sono relazione vitale con qualche vita più viva della nostra. Questi elementi sono colti da chi è religioso come un assoluto più fermo e più forte della nostra relatività e caducità. Proprio per questa convinzione forte e profonda, le religioni, specialmente nelle loro forme istituzionalizzate, possono essere tentate, quale più quale meno, di intransigenza, di totalitarismo esclusivista, di imposizione violenta.
Eppure, nello stesso tempo, proprio un tale rapporto personale alto e profondo, se vissuto seriamente e interiormente, con qualche assoluto che ci trascende, ci fa sentire relativi, dunque ci chiede e ci conduce ad essere umili, miti, rispettosi, nonviolenti, impegnati nel servizio agli altri. Il significato migliore e più vitale delle religioni esige che esse si facciano tutte sempre più chiaramente nonviolente.

2. Le religioni acquistino coscienza di questa loro ambiguità.
Se è vero che le religioni hanno questo possibile doppio rapporto con la loro “verità”, con effetti di violenza o di nonviolenza, allora hanno il compito di lavorare su se stesse per risolvere tale ambiguità in senso positivo. Questo è nelle loro possibilità, come dimostra il fatto che, davanti alle violenze potenzialmente finali presenti nel mondo di oggi, le religioni, ciascuna per sé e nel dialogo tra loro, cominciano a esaminarsi riguardo alla violenza.

3. Le religioni hanno un riferimento alla verità.
Alcune religioni hanno più forte il senso di una verità ricevuta. In ogni caso, la verità è sempre da comprendere meglio, e soprattutto da vivere fedelmente. Dunque, le religioni hanno oggi il compito di comprendere:
- che la verità non è mai posseduta ma sempre cercata, ricevuta, invocata, e sempre veduta solo parzialmente e imperfettamente;
- che essa, per quanto ci è dato conoscerla, non risiede tanto nelle menti e nelle definizioni intellettuali (peraltro utili alla vita buona, ma sempre perfezionabili) quanto negli atti pratici della vita autentica;
- che la verità, comunque la intendiamo, la esprimiamo e la pratichiamo, è sempre più grande della nostra comprensione e attuazione;
- che i nostri diversi approcci e interpretazioni della verità devono essere intesi come in relazione tra loro, pur nelle differenze dialettiche, e non solo in opposizione escludente;
- che la verità non si può diffondere o inculcare con la forza, elemento estraneo ad ogni sincera adesione;
- soprattutto, le religioni hanno oggi il compito di comprendere che la verità che possiamo conoscere non ci può armare mai gli uni contro gli altri (come nella storia ha fatto chi con arroganza ha pensato di tenerla in pugno e di imporla ad altri come verità armata), ma proprio ci "disarma", nel senso che ci rende più miti ed umili, impegnati continuamente ad imparare dall'ascolto reciproco, e a vivere una vita più giusta. La verità non ci arma, ma proprio ci disarma, per guidarci ad una vita personale e a relazioni umane più buone e più vere perché più miti. La «forza della verità» (Gandhi) non è offensiva, ma consiste nell’agire profondamente su di noi, in quanto la cerchiamo e le siamo fedeli, col renderci più veri, più forti nel resistere al male e nel vivere il bene.

4. Elezione come in/carico
Le religioni del ceppo di Abramo (ebraismo, cristianesimo, islam), che portano in sé l'idea di una "elezione", cioè la scelta di un messaggero o di un popolo da parte di Dio, hanno il dovere e il bisogno, nell'attuale opportunità e necessità di rispetto e dialogo con le altre religioni:
- di interpretare quella idea e consapevolezza di “elezione” alla luce della fondamentale unità della famiglia umana e del rispetto dovuto ad ogni tentativo di vita umana degna e dotata di senso (cioè, alle diverse culture, civiltà, religioni della storia umana);
- di escludere ogni interpretazione della elezione come un privilegio che conferisca qualche superiorità, in campo spirituale o addirittura in campo politico-etnico-territoriale, o in campo legislativo, o qualunque diritto superiore, perché elezione non può essere selezione;
- di comprendere invece l’elezione come la chiamata ad una responsabilità che impegna verso tutti, come un in/carico, un dono che è anche un onere, come una illuminazione ricevuta non per sé ma per essere messa a disposizione, con rispetto e mitezza, senza arroganza, di chi voglia prestarvi attenzione e vi si riconosca liberamente.

5. Religioni e poteri
Nel compito di convertirsi alla nonviolenza, le religioni sono aiutate od ostacolate dalla minore o maggiore potenza delle loro strutture istituzionali e dei loro legami con le potenze economiche e politiche, e dalla qualità delle loro teologie (quale immagine di Dio) e dottrine (quale antropologia e filosofia di vita).
Il potere politico-economico-culturale-mediatico-militare, quanto più è sottilmente violento, tanto più si procura l’avallo fornito dalle religioni, manipolandone e falsificandone lo spirito. Le religioni, più sono spiritualmente deboli, tanto più si rendono disponibili a servire il potere in cambio di protezione e favori, allontanandosi dal coraggio della giustizia e della nonviolenza, giustificando e persino sacralizzando la violenza.

6. L’etica giudica le religioni
L’etica dell’unità umana, cioè del valore inviolabile dell’umanità riconosciuta e venerata in ogni essere umano, giudica tutte le culture, le filosofie, le religioni, le politiche, le economie. Tutte le vie umane sono giudicate dall’etica di pace nonviolenta, cioè dal «rispetto per la vita» , come dal principio universale della reciprocità di valore e di comportamento (la “regola d’oro”, presente in tutte le culture).
È dunque possibile, secondo l’esperienza fatta da ciascuno, che questa etica porti al dovere di riformare sinceramente – anzitutto nella propria persona - la religione seguita, della quale si siano constatati tradimenti, errori, sordità, ritardi su questo punto primario dell’etica di pace, fino al diritto di rifiutare e abbandonare quella religione. Questo diritto spirituale di seguire, criticare, riformare, cambiare, negare una religione, appartiene alla dignità di ciascuno ed è inviolabile e incomprimibile da parte di qualsiasi potere, religioso, educativo, o politico.

7. Coscienza e educazione
Si può fondatamente pensare che la coscienza del «rispetto per la vita» e della premura per il diritto e il bisogno altrui, riconosciuto dello stesso valore del proprio (“regola d’oro”), sia un elemento costitutivo della nostra natura umana, in quanto iscritto nelle “viscere” del Samaritano (tipo dell’uomo umano nel vangelo di Luca, cap. 10), o nella “umanità” dell’uomo «sensibile all’altrui sofferenza», nella parabola del bambino e del pozzo, di Mencio.
Questo elemento può essere rafforzato e stabilizzato ma anche indebolito e spento nelle persone e nelle società secondo il tipo di educazione, di cultura e di ethos circostante. Quella coscienza è indebolita e distrutta dalla cultura di guerra, non poche volte approvata dalle religioni, cultura che mediante la “costruzione del nemico” degrada l’avversario a livello subumano per renderne possibile, e persino doverosa e onorevole, l’offesa, la sofferenza, la sottomissione, l’uccisione.
Quella coscienza umana, che in genere è educata e rafforzata dalle religioni, nelle loro versioni migliori, non dipende essenzialmente da una visione religiosa della vita. L’identificazione con l’altro, più evidente quando l’altro è in pericolo e ci muove istintivamente al soccorso, è un fatto originario, la cui interpretazione può essere o religiosa (appello divino) o razionale (appello della ragione). Ma la diversità di interpretazione non cambia il dato.
Nonostante le pesanti strutture di violenza impiantate nella storia e nelle culture, che ci fanno pensare anche che «homo homini lupus», è ben plausibile che noi siamo fatti gli uni per gli altri, quindi per la soluzione nonviolenta dei conflitti, e per il controllo della nostra distruttività, fino a diventare capaci di escluderla, o di ridurla al minimo, nei rapporti umani ad ogni livello. Ciò è avvenuto nella storia e avviene oggi, specialmente in società meno numerose, dove i rapporti personali sono meno anonimi. Tale possibilità è un impegno che accomuna le persone moralmente sensibili, che siano religiose o non religiose.

8. La pace, mito del nostro tempo
Si può dire con Raimon Panikkar che la pace, nonostante e contro l’impero della guerra oggi ristabilito, sia «il mito emergente del nostro tempo», un simbolo universale e fecondo, una specie – per così dire - di nuova religione universale, nuova fede, nuova morale, nuovo modello di civiltà. Questo si può dire purché lo si intenda nel senso seguente:
- mito, per Panikkar, non significa irrealtà, sogno, favola, e neppure un concetto razionale o un obiettivo pratico, ma qualcosa di più: l’orizzonte ultimo di intelligibilità di una cosa, il presupposto che rende comprensibile la comprensione, e rende ragionevole la ragione;
- l’ideale della pace non assorbe né sostituisce necessariamente le religioni tradizionali, ma le può unire, nel rispetto pieno delle loro differenze;
- l’ideale della pace costituisce un profondo punto d’incontro fra le persone non religiose, che lo praticano senza ricollegarlo ad alcuna religione, e le persone religiose, che in una determinata religione trovano alimento al loro impegno morale per la pace.

9. Il miracolo morale
L’amore fino ai nemici, il perdono delle offese, il male ricambiato col bene, ciò può essere considerato il maggiore “miracolo morale”: per i credenti è il segno più grande che Dio può dare di sé nell’umanità, per i non credenti è il grado più alto di elevazione dello spirito pratico umano. Oggi l’amore fino ai nemici (effettivo, non necessariamente affettivo) si attua nella nonviolenza attiva e politica, nella cultura della gestione costruttiva e nonviolenta dei conflitti; si attua, in ogni persona e in ogni gruppo umano, nell’abbandonare l’idolatria del proprio diritto assoluto, duro e impositivo, in favore dell’incontro, della trattativa e dell’accordo con l’altro, rispettato nella sua diversità. Forse in ciò sta la verità che ci salva dal male e dal dolore, verità che tutte le spiritualità religiose e le spiritualità non religiose cercano a tentoni, che trovano a pezzi e bocconi, nella fatica e nella gioia che sono la dignità delle persone umane.

10. Religioni e pace: contributi e ritardi
Nella cultura di pace e nel movimento per la pace e la nonviolenza, persone religiose danno un contributo essenziale, condividendo in forma laica, anche con chi non è religioso, la fede nella verità, la speranza nel bene, l'amore per l'umanità, l'impegno per la giustizia. Ma, all'interno delle diverse religioni strutturate (quale più, quale meno), l’impegno di pace, e di pace nonviolenta, è ancora acquisizione di pochi e non è senza contraddizioni, non è sempre chiaro, nelle espressioni ufficiali. Le ragioni di ciò, forse specifiche ad ogni religione, e di peso variabile dall’una all’altra, richiedono di esse indagate in concreto.

(Questo testo è una ulteriore rielaborazione di analoghe tesi proposte in forme successivamente corrette e integrate in vari articoli e in opere collettive fino dal 2003)

Enrico Peyretti

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