[Date Prev][Date Next][Thread Prev][Thread Next][Date Index][Thread Index]

come hanno raccontato Perugia Assisi - rassegna stampa 15/10/01



DA GENOVA AD ASSISI

CURZIO MALTESE

Una marea di ventenni ha travolto parole e duelli rusticani, luoghi comuni e ideologie, e ha trasformato la marcia PerugiaAssisi nel più grande corteo pacifista della storia d'Italia. Erano attese sessantamila persone, al massimo ottantamila come nel ‘91, l'anno della Guerra del Golfo. Ne sono arrivate tre, quattro volte tanto, come a Genova. Ma senza black bloc e cariche di polizia, nessuno ha rovinato la festa.

Neppure le eterne polemiche da talk show nell'Ulivo e nella sinistra fra leader di ieri, oggi e forse domani, dei quali a questi ragazzi non importa nulla, poco interessati come sono, secondo il sociologo Diamanti, «alla personalizzazione della politica» .
Non ci sono stati ceffoni metaforici né reali, né la temuta «replica del G8», né il rogo di stelle e strisce. L'unica bandiera americana presente è arrivata sana e salva a destinazione, dopo venticinque chilometri. Così come Massimo D'Alema, simbolo della sinistra «guerriera», che si è preso soltanto pochi fischi all'inizio, senza perdersi d'animo. Ulivo e no global hanno marciato vicini, se non a braccetto, contenti di esserci tutti, Fassino e Bertinotti, D'Alema e Casarini, Castagnetti e Agnoletto. In fondo è più nobile una sinistra che si divide sulla guerra che una destra unita contro le rogatorie.
E' stata un'occasione migliore di Genova, dove la violenza ha oscurato tutto, per conoscere le ragioni di un movimento che s'identifica con una generazione, quella dai 18 ai 25 anni. Una generazione cresciuta dopo la caduta dei muri, che chiede una nuova politica e di fronte alla quale siamo tutti a corto di argomenti e strumenti. E' ridicolo paragonare questo pacifismo a quello filo sovietico e «a senso unico» degli anni Cinquanta, quando non erano nati neppure i loro padri. Altrettanto assurdo liquidare il fenomeno con l'etichetta dell'antiamericanismo, che è stato il grande assente della marcia umbra. Forse bisognerebbe parlare della prima generazione di europei. «Nessuno pensa che l'America incarni il male» dicono «ma neppure che sia sempre e soltanto il bene». Del resto, non è facile essere sempre d'accordo con l'America quando neppure l'America è sempre d'accordo con se stessa. Il Bush che oggi s'affanna per l'emergenza dell'antrace non è lo stesso che al G8 del luglio scorso si era detto contrario perfino al controllo mondiale sulle armi batteriologiche? Quello che aveva annunciato la fine di ogni intervento pubblico nell'economia non è lo stesso presidente che oggi lancia il più grande piano di aiuti statali all'economia dal dopoguerra? Il mondo cambia e la storia non si è fermata con la fine del comunismo, come volevano i profeti del neo liberismo. La storia corre più in fretta di prima, e i ventenni lo sentono e lo vivono più di tutti.
Le ragioni contro la guerra non sono ideologiche. Sono piuttosto dubbi, domande semplici, a volte banali, che si fanno tutti. Servirà davvero bombardare Kabul e Kandahar per prendere bin Laden? Basterà prendere bin Laden per vincere la lotta al terrorismo? Non c'è il rischio che allargare il conflitto, come i dicono i falchi del Pentagono, significhi ritrovarsi nella terza guerra mondiale? Perché tutti fingono che il petrolio non c'entri? Che senso ha pretendere di «occidentalizzare» il Sud del mondo con il modello consumistico americano quando si sa che le risorse non bastano, che cinque miliardi di frigoriferi e automobili non si possono produrre, pena la distruzione del pianeta?
Sono domande serie sul futuro, com'è normale che le pongano dei ventenni, alle quali qualcuno prima o poi dovrà dare risposte serie. Invece di aggrapparsi all'ideologia, al conformismo, all'anticomunismo che è defunto come il comunismo, a decrepite analisi, all'americanismo che tiene tutto e ricorda le barzellette coloniali del secolo scorso («A Londra ci sono gli inglesi, gli anglofili vivono a Ceylon» ). O peggio ancora, alle demonizzazioni («siete con i terroristi») o agli insulti: «viziati», «senza palle». Chi avrà detto poi che ci vogliono più palle a bombardare un villaggio da diecimila metri d'altezza, piuttosto che arrivarci disarmati portando medicine e cibo, come hanno fatto in questi anni centinaia e migliaia di pacifisti italiani.
Non è stata «una replica di Genova», come temeva Rutelli. Ma c'erano le stesse facce, gli stessi striscioni, le stesse domande del luglio scorso. E stavolta non sarà facile liquidare tutto parlando d'altro, di teppisti vestiti di nero e assalti alle camionette, lasciando che qualche capetto vada a sputtanarsi da Vespa e Santoro. (REPUBBLICA 15/10/01)

LINEA DI CONFINE
Sinistra, errori di ieri illusioni di oggi

di MARIO PIRANI

Le difficoltà della sinistra in tempi di guerra non nascono oggi e neppure durante il conflitto del Golfo o l'intervento nel Kosovo. Neppure sono riducibili alla sola sinistra italiana. In questi giorni in Francia, dove pure la «gauche plurielle», inventata da Jospin, è al governo e, quindi, porta le responsabilità delle decisioni della Nato, le divisioni ricalcano quelle dei marciatori di Assisi. L ‘ultimo comunicato dei Verdi parigini denuncia «la logica della guerra che aggiunge la violenza armata a quella terroristica», mentre il Pcf ogni giorno che passa accentua i distinguo e le critiche contro «l'ingranaggio dalle terribili conseguenze» messo in atto dagli Usa.
Alla base di tutto ciò vi è la difficoltà a fare i conti con l'eredità di una tradizione pacifista che si ripresenta all'incirca negli stessi termini ogni qualvolta le crisi internazionali minacciano di sfociare in un conflitto armato. Anche se i tardivi eredi non ne sono probabilmente neppure consapevoli le loro scelte odierne sono dettate da un Dna che riproduce comportamenti assolutamente analoghi di un passato ormai lontano, non solo nell'asserzione dei valori del pacifismo ma, altresì, negli errori di giudizio politico che, con impressionante coazione a ripetere, li accompagnano.
Le origini vanno cercate nella vocazione umanitaria e pacifista del movimento operaio che a cavallo tra il XIX e il XX secolo percepì giustamente come a far le spese delle guerre per la spartizione dei mercati e per l'egemonia internazionale, fosse in primissimo luogo il proletariato agricolo e urbano, chiamato a dissanguarsi per cause lontanissime dai suoi interessi. Il comandamento marxista «Proletari di tutto il mondo unitevi» suonava, del resto, anche come una risposta preveggente ai coinvolgimenti «patriottici».
Così, quando, nel 1914, quasi tutti i partiti socialisti europei vi contravvennero votando i crediti di guerra chiesti dai rispettivi governi, l'un contro l'altro armati (solo gli italiani si astennero, sotto lo slogan «né aderire, né sabotare»), la crisi della Seconda Internazionale sembrò irreversibile.
Quella esperienza tragica segnò profondamente le sinistre fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, ma, mentre i comunisti monitoravano di volta in volta il loro pacifismo o il loro interventismo, alla luce della difesa della «Patria del Socialismo», i socialdemocratici erano talmente timorosi di ricadere, come nel ‘14, nella «union sacrée» da non far loro percepire il pericolo hitleriano. E' altamente istruttiva in proposito la lettura della documentazione raccolta da Leonardo Rapone nel suo libro «La socialdemocrazia europea tra le due guerre» (Carocci, 1999, ed.) dove si ritrovano, quasi alla lettera, gli «originali» delle attuali prese di posizione. In questa sede posso dare solo qualche caso. Per esempio quando nel 1934 Hitler cominciò a riarmarsi e il governo inglese avanzò ai Comuni la richiesta di fondi per il potenziamento dell'aviazione, i laburisti all'opposizione risposero con una mozione di censura, riponendo la loro fiducia «nel sistema di sicurezza collettiva sotto l'egida della Società delle Nazioni... considerando una politica di riarmo non idonea ad accrescere la sicurezza del Paese ma destinata a mettere a repentaglio le prospettive del disarmo internazionale». Questa posizione rimase invariata anche quando la ricostruzione della potenza militare tedesca divenne plateale: per tre anni i laburisti votarono contro il riarmo e solo nel '37 passarono all'astensione.
«Le motivazioni laburiste - commenta Rapone - vanno ravvisate nella difficoltà di adattarsi alla prospettiva di un conflitto che avesse il carattere non di una operazione di polizia internazionale, relativamente indolore, ma di un sanguinoso conflitto tra Stati potentemente armati ed anche nella riluttanza a compiere atti politici che potessero dare l'impressione di un idem sentire tra laburisti e conservatori». Il loro leader, Clement Attlee esclama ai Comuni: «Non pensiamo che si possa scacciare Satana con Belzebù!». Non dissimile la linea dei socialisti francesi. Il loro capo, Leon Blum, mentre il pericolo nazista si fa sempre più attuale e Hitler reintroduce la coscrizione obbligatoria stracciando il trattato di Versailles, vota contro il prolungamento della ferma militare e critica i progetti di modernizzazione dell'esercito francese, presentati da un certo colonnello de Gaulle. E dichiara: «Hitler e il regime hitleriano ci fanno orrore ma la guerra ci fa ancor più orrore». Non prevedeva certo che, qualche anno dopo, sarebbe stato deportato a Buchenwald. (REPUBBLICA 15/10/01)

La marcia dei duecentomila
PerugiaAssisi, dieci chilometri in fila per la pace

DAL NOSTRO INVIATO UMBERTO ROSSO

ASSISI - San Francesco ha fatto «un altro miracolo», se la ridono i frati del convento mentre sulla Rocca ormai il sole sta scendendo. Che giornata. Chi temeva una Genova bis è stato smentito. Un fiume incontenibile, pacifico, allegro e colorato, erano in duecentomila, mai vista tanta gente in 40 anni di marcia. Alle quattro del pomeriggio, quando gli scout alla testa del corteo raggiungono Assisi, la coda è dieci chilometri più giù, ancora a Collestrada. Niente incidenti, i politici e i noglobal non si sono fisicamente intercettati. La grande tensione della vigilia, a conti fatti, si è dissolta in qualche bordata di fischi degli ultra pacifisti a D'Alema, che imperturbabile alla guida dello stato maggiore ds si è fatto buona parte della marcia, raccogliendo anche tanti applausi. Qualche piccola contestazione anche per Rutelli e gli uomini della Margherita, che come previsto non sfilano sotto le insegne del proprio partito ma «sciolti» nel movimento.
I «ceffoni umanitari» promessi dal Social Forum son rimasti del tutto metaforici, «ma solo perché quelli dell'Ulivo sono stati bene attenti a non venirci a tiro», insiste il napoletano Francesco Caruso. Nessuna traccia neanche dei promessi «gavettoni» con «acqua benedetta» da don Vitaliano, il prete avellinese dei contestatori, peraltro assente (per il no del suo vescovo), così come don Gallo, l'altro prete noglobal.
Ma di polemiche dentro e fuori l'Ulivo, di spaccature sopra e sotto i noglobal, in realtà ai duecentomila di Assisi non importava granché. Cattolici, comunisti, pensionati, studenti, contadini, donne, islamici, bambini e ambientalisti ieri sono arrivati qui a Perugia da ogni parte d'Italia in nome di sé stessi e di un mondo di pace. Una festa di popolo. Alle otto del mattino al Frontone, nel centro storico di Perugia, c'è già il tutto esaurito. Dall'alba il popolo della pace è in piedi. Colonne di autobus sono in coda, bloccati alle porte della città. La presenza della polizia è discretissima. Cibo, acqua e lavoro per tutti, recita lo striscione della Tavola della pace. Più in là, altri giovani sventolano il vessillo dell'Ulivo, ma è solo una presenza simbolica. Perché i politici non prendono la testa della manifestazione. Rutelli, in polo e jeans, con Castagnetti, Franceschini, la Bindi, Bordon con la figlioletta sulle spalle arriva un po' più tardi, si piazza fra le migliaia di scout presenti. Bertinotti, con i parlamentari del Prc, è a metà corteo. Agnoletto e Casarini verso il fondo, dietro lo striscione Noglobal. Il movimento di Genova però si è diviso, i Cobas per esempio rifiutano di sfilare, aspettano la marcia a Santa Maria degli Angeli. Alle nove e un quarto la più grande manifestazione pacifista degli ultimi anni muove i primi passi.
Partono i primi fischi del Prc per Rutelli. «Mi contestano? Del tutto legittimo, c'è libertà di opinione. Ma il coraggio vero è quello di schierarsi contro il terrorismo». Il leader dell'Ulivo poi va incontro a Walter Veltroni, sindaco ed ex sindaco di Roma fanno sotto braccio un pezzo di strada. Commentano, comunque con soddisfazione, la scelta di stare in piazza, a costo di una polemica durissima con altri pezzi dell'Ulivo. Assenti invece il democratico Parisi e il socialista Boselli. Di tutto questo si discuterà probabilmente in una riunione del coordinamento, forse già martedì.
Si vede anche qualche bandiera americana. Una la porta il presidente dell'Arci. Una sventola da una finestra. Un'altra, cucita alla bandiera islamica e a quella europea, la portano i verdi Francescato e Pecoraro Scanio, che rivendicano il dissenso rispetto alla mozione parlamentare dell'Ulivo. Lo fa anche il segretario dei comunisti, «così si è facilitato il dialogo con tutti», spiega Oliviero Diliberto.
Alle dieci, il primo passaggio delicato. A Ponte San Giovanni si è dato appuntamento un pezzo di Social forum, che si immette nel corteo. Ma non rintracciano il leader dell'Ulivo, il bersaglio resta il solo D'Alema che continua a sfilare. E' il momento dei fischi, ma dura poco. Poi, arriva l'altro momento a rischio. I Cobas, che hanno deciso di non mescolarsi al corteo, sono radunati a Santa Maria degli Angeli. I blindati della polizia presidiano, ma a debita distanza. Tutto fila liscio, perché non ci sono gli uomini politici che gli antiglobalizzatori aspettavano. Vittorio Agnoletto, dall'altoparlante montato sull'utilitaria, avvisa i parlamentari del centrosinistra: «Stasera, quando tornate a casa riflettete. E poi tornate alla Camera per revocare il sì alla guerra». I radicali sono al cimitero di guerra britannico, li vicino, per distinguersi dai pacifisti in marcia, si schierano con Blair. Le ultime salite, Assisi è in vista. Flavio Lotti, il leader della Tavola della pace, può chiudere con un sospiro di sollievo e un gigantesco grazie, «a tutto il popolo della pace della marcia, poliziotti compresi». (REPUBBLICA 15/10/01)

"Coraggio, il meglio è passato"
le tante facce del popolo pacifista

Applausi, fischi, slogan, canzoni, i maccheroni preparati dai volontari della protezione civile

DAL NOSTRO INVIATO CONCITA DE GREGORIO

PERUGIA - Se davvero un altro mondo è possibile, come qui dicono tutti, non sarebbe male che somigliasse a questo. Questo mondo grande quanto una città in marcia, duecentomila, forse di più, in discesa tra i colli di un quadro del Perugino, il sole, gli applausi, i fischi, i vecchi con la maglia del Che e i giovani con quella di gatto Silvestro, le donne incinta e i ragazzi in carrozzella, le borracce che passano di mano, le suore, le "canne", le canzoni di Battisti e Bella Ciao, «Cristo cammina con te» e avanti a chi manca, c'è posto per tutti.
Posto per i nuovi entusiasmi e vecchi rancori, la marcia solitaria e in un certo senso eroica di D'Alema basterebbe da sola a spiegare: «Sì, Linda, sono più avanti, non ti puoi sbagliare: sono dove tutti gridano buffone», risponde alla moglie al telefonino, e infatti Linda arriva con i figli. Il piccolo, Francesco, è vestito da boy scout. C'è posto per D'Alema in maniche di camicia che resta a prendersi gli insulti («Ti do tempo fino a martedì per cambiare idea», gli grida uno. «Bravo, così sì fa. Fino a martedì», risponde lui), per Rutelli che alla prima curva si allontana. Per Bertinotti che si fa tutto il corteo in trionfo al braccio della moglie e per Veltroni avvistato in uscita all'altezza di un caffè. Per i pacifisti pugliesi che ballano la pizzicata, quelli di Acerra che portano lo slogan più bello, «Appaciammece», e per il vecchio del paese che gli cammina dietro, Augusto Cenci, 92 anni, si aggiusta l'apparecchio acustico all'orecchio e borbotta «pace, pace. Ma qualcuno lo dice che quelli che ammazzano devono essere ammazzati?». No, effettivamente. Proprio così non lo dice nessuno ma qualcuno articola il concetto. Castagnetti Franceschini e Rosi Bindi, per esempio, i popolari della Margherita che quando è proprio necessario «si deve anche imbracciare il fucile. Anche i partigiani bianchi erano armati», per dire. Staino il vignettista con una mazzetta di giornali così sotto il braccio, «dolorosamente per la guerra». Fassino che ha votato sì alla Camera, e qui si prende un palloncino pieno d'acqua in faccia, unico corpo contundente visto volare fra i duecentomila.
Però la maggioranza no, a essere onesti. La maggioranza mangia pane e pseudonutella fornita dal commercio equo e solidale, sfila sotto la fonte «dove nel 1282 si fermò a dissetarsi San Francesco d'Assisi», porta adesivi che dicono «no global war» e grida cose come: «Vogliamo uno scambio a pari condizioni/dateci Bin Laden e vi diamo Berlusconi». Donne sandwich portano cartelli con frasi di Anna Maria Ortese, francamente mai viste in corteo: «La ragione dovrebbe illuminare continuamente tutto...». I giovani imprenditori agricoli di Reggio Calabria socializzano con un giovane in maglia rossa, «Io NON HO votato Berlusconi».
I curdi vendono le bandierine con la faccia di Ocalan, gli scout che li superano non hanno la minima idea di che si tratti: «Fichissimo, hai visto? Ce la compriamo una bandiera con Saddam?». Sotto il ponte San Giovanni una suora dirige il coro dell'istituto Sacro cuore di Bitonto. «Cristo cammina con te, canta e cammina con la pace nel cuore», cantano una ventina di bambini di otto anni. Diliberto il comunista passa e un po' si commuove, toglie gli occhiali, li guarda meglio, anche Marisa Laurito in total orange accanto a lui, arancioni anche le scarpe da ginnastica, all'idea che Cristo le cammini vicino si concentra sul coro, «carini i piccoli». Cofferati sfila con la faccia di Cofferati, imperturbabile, Agnoletto con il telefonino incorporato all'orecchio. Luca Casarini, che ieri sera era in un "tete a tete" privato in pizzeria, anche i più duri dei no global hanno un cuore, adesso è qui a dire che «gli schiaffoni da dare al centrosinistra che ha votato la guerra sono solo metaforici, abbiamo due manone di gommapiuma, eccole». Almeno 15 mila del Genoa Social Forum, calcola, e almeno un genovese riconoscibile: il padre di Carlo Giuliani, morto a Genova, qui a parlare di pace in nome del figlio.
Visto dall'alto, dall'elicottero, il corteo è un fiume di colori che non è ancora uscito da Perugia quando ha già raggiunto Assisi. Ventidue chilometri. Per avere un'idea: a fermarsi in un punto e vederli sfilare tutti ci vogliono due ore e quarantacinque minuti. Tre ore meno un quarto di serpente ininterrotto, Emergency di Gino Strada, le ragazze palestinesi con il velo bianco, gli studenti con le filastrocche «sopra la bonba la gente campa/sotto la bomba la gente crepa», i ragazzini del liceo che quando sono stanchi e non gli viene in mente più niente cantano «Dolce Remì», cartone animato anni Novanta, l'altro ieri, quando erano bambini. Di bambini veri moltissimi. Su un carretto di mamme organizzate che ne sono nove, «attento Matteo che caschi». Padri cinquantenni in monopattino, di quelli che hanno fatto i figli a quaranta perché prima il pubblico poi il privato. Majorettes, sindaci, un tipo che porta un quadro a olio di Gesù Cristo, un vecchio in bianco con barba apocalittica e un cartello che dice «Usa e Israele i veri terroristi». D'Alema: «Lo vede quello, Nosferatu? Ecco, quello mi segue dall'inizio». Un paio di bandiere Usa, le portano i verdi insieme a quelle dell'Islam.
Gianni Minà insieme a Frey Betto, teorico della teologia della liberazione. All'arrivo a Santa Maria degli Angeli, sotto Assisi, sono il doppio di quanti erano alla partenza. Moltissimi sono entrati in corteo lungo il percorso. Stremati, mangiano i maccheroni preparati dai volontari della protezione civile, cinquemila compresa l'ombra del tendone. Bevono similcoca Freeway, coca no logo. Gli scout continuano a cantare «ari ari ari e», hanno obiettivamente una resistenza soprannaturale. Tutti si sono già persi troppe volte per continuare a cercarsi, e poi i telefonini non prendono la linea: «Rete occupata». Ogni tanto una madre da casa rompe il muro dell'etere, «pronto, stai bene? Nessun incidente? Meno male. Sai che ci sono anche i tuoi fratelli. Ma sì, siete tutti e quattro lì», roba che neanche dai nonni al pranzo di Natale. I politici sono spariti, all'arrivo. Tutti compreso il sindaco del Polo di Assisi, che non ha ritenuto di accogliere questo popolo in marcia. Peccato, il Santo avrebbe avuto da ridire. E poi, comunque, era uno spettacolo. Vederli arrivare sulla piazza davanti alla Basilica, sorridersi senza neanche più riconoscersi e buttarsi a terra sotto l'ultimo cartello: «Coraggio, il meglio è passato». (REPUBBLICA 15/10/01)

Giuliani: i giovani
oggi sono qui
il personaggio


PERUGIA - Alla Marcia per la pace c'era Giuliano Giuliani, padre di Carlo, il ragazzo ucciso a Genova durante il G8. Ai giornalisti che lo hanno riconosciuto, Giuliani ha spiegato di non essere contrario all'azione angloamericana contro l'Afghanistan, a condizione di essere «attenti e critici»: reagire al terrorismo è giusto, ha detto, sottolineando la necessità di non travolgere le popolazioni civili. Giuliani sottolinea l'importanza della presenza di tanti giovani: «Si pensava che questa fosse una generazione che ignora la politica e l'impegno civile, invece oggi sono qui». (REPUBBLICA 15/10/01)

D'Alema tra fischi e applausi
"Ma è anche la nostra marcia"

DAL NOSTRO INVIATO ANTONELLO CAPORALE

PERUGIA - Dieci volte gli hanno gridato «pagliaccio», solo otto «buffone». Poi «vergognati» (quindici volte includendo la più generica e allarmata «vergogna !»), tre «vaffanculo», due «sparisci», e un solo, ma disorientante, «hai fatto campagna elettorale per Berlusconi». La durata e l'intensità dei fischi per Massimo D'Alema, non essendo aritmeticamente sommabile, è invece da valutare liberamente. La via crucis è iniziata prima dei tempi regolamentari, cioè alla fine della partita PerugiaRoma di sabato sera, con fischi rigorosamente perugini e pallonari, ed è proseguita oltre il limite previsto: davanti al cancello dei frati francescani di Assisi alle tre del pomeriggio di domenica. «Siete fuori tempo massimo, ragazzi» ha annotato con scrupoloso puntiglio il presidente dei diessini.
Ciò che doveva prendere ieri D'Alema l'ha preso. Che non fossero fiori si sapeva. Ceffoni no, ma insulti, spintoni, urla sì. Lui è riuscito a farsi pungere dalle spine dei contestatori - giovani di Pax Christi, noglobal, rifondatori - senza mai sanguinare: «Provino soltanto a cacciarci, voglio vederlo. Noi abbiamo il diritto di marciare, questa è anche la nostra marcia». Una mattinata fradicia di cattive parole, una sfida accettata e imposta al gruppo dirigente del partito. «Non accadeva da anni partecipare a un corteo così ostile, diciamo che non accadeva dal ‘77». Altri tempi, lì si faceva a botte: «Beh, lì era molto più impegnativo». E' l'una e D'Alema, soddisfatto, si dirige all'auto di servizio con moglie e figli. L'unica cosa chiara dopo questa marcia, ammesso che non lo sia già per i più, è che il congresso finisce ancor prima di iniziare. L'unico capo che i Ds hanno si chiama D'Alema. Walter Veltroni non c'è, la sua fascia tricolore è stata inghiottita dai gonfaloni. Cofferati sta con la sua Cgil. E l'Ulivo era sparito già da un bel po': Rutelli è andato via al primo curvone, il mite Castagnetti qualche passo dopo. A chi dunque ieri la gente guardava? Chi insultava o anche applaudiva?
A lui, Massimo. Al centro di una squadra corta, silente e po' stralunata. Piero Fassino è sembrato che non ci fosse: trasparente. Giovanni Berlinguer (i due candidati si sono fatti fotografare abbracciati) ha potuto fare poco di più per spiegare che la sua testa non è in quota alla maggioranza: «Dopo i missili sui civili afgani la nostra linea deve cambiare. Io ho un rimorso, dobbiamo fare autocritica». Macchè. D'Alema spiega che «noi siamo qui con le nostre idee. Ancora non ho udito uno slogan contro i terroristi. E vedo che chi ci insulta ha le facce dei militanti di Rifondazione, non dei noglobal. Forse questa è la rivincita di Bertinotti». Lui solo parla: «Ci gridano "andatevene", ma se andiamo via noi quanti ne restano qua?». Livia Turco non riesce a rispettare l'impegno a restare muti davanti agli insulti e al militante che urla «vergogna» grida: «Vergognati tu». E Gavino Angius, al comunista che gli ricorda il dettato costituzionale («leggitela buffone») replica incredulo: «La Costituzione a noi ?».
Ecco un viadotto e un grumo di contestatori che aspettano lassù. Cosa faranno? «Un gavettone» mormora una voce anonima nel corteo dei pentecostali. Fassino mira di sopra e prega. Gli porgono un bimbetto, «prendilo in braccio per la foto». Si passa incolumi, all'orizzonte c'è un secondo viadotto. Il corteo tende ad arrestarsi, il servizio d'ordine chiude i diessini in un abbraccio nervoso e un po' contundente. «Vergognatiiiiiii !», urla una barba da Karl Marx. Un pacifista impugna il fischietto e fa male alle orecchie. E Rutelli, onorevole D'Alema? Rutelli dov'è? «Mica si gioca una partita tra me e lui ?». Gli insulti rallentano il passo, e molte volte lo fermano. E' una camminata asmatica, afflitta dal dolore e dalla pena delle ingiurie. Il corteo si blocca, di nuovo spintoni: ora è Armando Cossutta che tenta di avvicinarsi e unirsi ai diessini. Va male anche per lui. D'Alema non lo vede, o fa finta di non vederlo, e il cordone non si apre al compagno Armando. C'è Linda, la moglie di Massimo, che chiama al telefono: «Dove sei ?» «Dove senti gridare buffone, lì sono io», gli risponde. Non crede sia pericoloso fare tutta questa strada? «Se lo credessi non avrei portato la famiglia, i ragazzi». Eccoli, Giulia e Francesco. Sono vicini a papà e l'ora non è proprio felice. Giulia, appena adolescente, ha la forza di assistere serena a uno spettacolo mai visto prima. Il fratellino soffre di più, forse ha paura, com'è giusto che sia. Ma la prova che papà ha imposto al partito e chiesto persino ai suoi cari finalmente termina. Gli applausi si fanno più intensi, il budello si trasforma in una strada piana e larga. Ecco l'auto: si va ad Assisi, i frati francescani lo attendono per pranzo. (REPUBBLICA 15/10/01)


Gli obiettivi incerti del pacifismo

MA I BELLICISTI DOVE SONO?

di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

Con la presenza di migliaia di persone alla marcia di ieri da Perugia ad Assisi abbiamo dunque avuto la dimostrazione che il pacifismo e i pacifisti esistono. A questo punto è inevitabile porci la domanda: e dov’è il bellicismo? Chi sono i guerrafondai? Si tratta, come si capisce, di una domanda decisiva per dare un senso politico alla marcia e ai marciatori, nonché al pacifismo nel suo complesso. Solo se ci si oppone a qualcuno o a qualcosa, infatti, se si è in grado di individuare un avversario, si è sul terreno della politica, si fa azione politica. Altrimenti no. Altrimenti si fanno cose utili e nobilissime, magari, ma che con la politica non hanno molto a che fare. La cosa singolare è che neppure gli organizzatori della marcia hanno voluto fornire la minima indicazione su chi, secondo loro, rappresenti oggi il partito della guerra, chi sia il nemico della pace. Naturalmente sappiamo benissimo il motivo di tale silenzio. Se avessero deciso di parlare sarebbe emersa la spaccatura insanabile tra chi approva in sostanza l’attuale azione americana contro l’Afghanistan e chi, invece, la contesta nel modo più radicale. Ma così è accaduto che da una pace senza nemici nominabili si è passati ad una genericità ancora maggiore: «Cibo, acqua, lavoro per tutti» è stato lo slogan ufficialmente adottato dalla marcia, dove per «tutti» si intendevano naturalmente tutti gli abitanti del pianeta.
Ma come riuscire in un’impresa così ambiziosa? Con quali risorse? Ottenute come? Con quali attori, con quali politiche? Anche qui silenzio assoluto e nel silenzio il pacifismo italiano trapassa così dalla politicità antioccidentale, sia pur loscamente dissimulata che lo ha caratterizzato fino ad ieri, al puro e semplice buonismo. Diviene anzi il vertice di quel buonismo in cui negli ultimi anni il popolo di sinistra (in cui è entrato a far parte anche un settore del mondo cattolico) è venuto identificando sempre di più il suo volto pubblico, quello che si mostra nelle manifestazioni, negli appelli, negli slogan giovanili. Buonismo che consiste precisamente nell’additare principi superiori, obiettivi etici da cui nessuna persona per bene oserebbe dissociarsi, ma dimenticandosi regolarmente di indicare i mezzi concreti per realizzarli. Dando così ad intendere che in fondo i mezzi basta volerli per trovarli.
Questo buonismo politicamente sprovveduto e politicamente diseducatore - che è uno dei tanti aspetti dell’avanzata dell’antipolitica nella società italiana post-tangentopoli, e dunque è in certo senso fenomeno recente - affonda tuttavia le proprie radici in un sentimento antico, costitutivo fin dall’origine della mentalità di sinistra, del suo Dna: il bisogno di sentirsi dalla parte del bene e la convinzione di esserlo per definizione. Fino a che c’era il comunismo, questo bisogno era in gran parte bilanciato dal miraggio della rivoluzione e dalle sue inevitabili esigenze. Ma dopo l’89, svanito il comunismo, il buonismo ha avuto libero corso. La sinistra italiana attuale vuole sentirsi innanzitutto buona. E proprio per ciò si è abituata istintivamente a disprezzare ogni approccio realistico, e con questo alla fine anche la realtà: perché essa scorge giustamente nella realtà il massimo pericolo per le proprie illusioni sentimentali. Così come scorge nella piazza il luogo per antonomasia dove il bene si manifesta, dove si celebrano le nozze storiche non più, forse, tra le «masse» e la «rivoluzione», ma se non altro tra la «gente» e i «buoni sentimenti». Da qui dunque la sua difficoltà a stare lontano dalla piazza, la sua pena quasi fisica, si direbbe, a rinunciare ad un corteo: Dio non voglia poi ad esserne l’obiettivo polemico. Equivarrebbe a rinunciare pubblicamente al bene, ad accettare l’idea che Babbo Natale non esiste e che, ahimè, gli anni passano e bisogna diventare grandi.
(CORRIERE DELLA SERA 15/10/01)

I pacifisti sfilano da Perugia ad Assisi. L’imam di Torino: giusto combattere la guerra santa

Duecentomila contro la guerra

Fischi dei «no global» ai leader dell’Ulivo. D’Alema: neanche uno slogan antiterrorismo

Marcia della pace: duecentomila persone, e forse più, hanno sfilato ieri da Perugia ad Assisi, con canti e slogan per dire «no» alla guerra. Tra le file del centrosinistra hanno sfilato Rutelli, Castagnetti, Veltroni, D’Alema. Dai «no global» sono partiti fischi contro i leader dell’Ulivo, alcuni dei quali hanno lasciato il corteo a metà percorso. Massimo D’Alema ha risposto a chi lo fischiava: «Mi stupisce che non si levi un solo grido contro il terrorismo che ha provocato 7 mila morti». E ha sottolineato: «Se siamo in tanti è anche perché ci sono i Ds». A Torino, l’imam Bouriki Bouchta, 36 anni, al centro di polemiche per aver consentito, nella preghiera del venerdì, la lettura di una lettera anti-Usa e slogan pro Bin Laden, giustifica la guerra santa come «lotta di autodifesa dell’Afghanistan. Qualcuno sarebbe pronto a partire, anche da Torino, per affiancare il popolo afghano». (CORRIERE DELLA SERA 15/10/01)

Assisi, duecentomila in marcia per la pace

Un fiume di gente da Perugia con canti e slogan. Nessun incidente. Politici e no global in disparte

DA UNO DEI NOSTRI INVIATI
ASSISI - Un corteo lungo venti chilometri per coprire un percorso che ne conta venticinque. Duecentomila persone, dicono le stime ufficiali, ma come si fa a contare un fiume di uomini, donne, ragazzi, bambini anche, che invade Perugia e Ponte San Giovanni, Bastia Umbra e Santa Maria degli Angeli, che si arrampica su per la rocca di Assisi quando quelli che stanno in coda si sono appena mossi dai Giardini del Frontone? E’ un fiume allegro e colorato ma con una richiesta terribilmente seria: pace. Pace per i disperati in fuga dall’Afghanistan e per i palestinesi, per i curdi e per i popoli delle guerre dimenticate. Ma pace anche per l’America colpita e ancora minacciata da Osama Bin Laden e pace per chiunque possa incrociare il proprio destino col terrorismo islamico o di qualunque altra specie.


ADDIO POLEMICHE - Sono quarant’anni che da Perugia ad Assisi si ripete la marcia per la pace, ma stavolta è diverso. Stavolta c’è stato l’11 settembre, le Twin Towers non esistono più e Kabul è sotto le bombe. C’è una guerra, e allora quest’appuntamento diventa la prima e forse irripetibile manifestazione pacifista svolta in Italia. E quel fiume allegro e colorato che conterrà probabilmente più di duecentomila persone, forse anche 250 mila, inghiotte le polemiche della vigilia, le dimentica perché i protagonisti oggi non sono i politici e non sono i no global. Ci sono sia gli uni che gli altri, ma questa è la manifestazione delle mille anime che le danno vita. Gli organizzatori contano l’adesione di seicentocinquanta sigle, dai boy scout a Emergency a Legambiente, tanto per citare qualcuno, visto che tutti sarebbe impossibile. Ma in questo che più che un corteo è una specie di catena umana che unisce Perugia e Assisi, ci sono migliaia e migliaia di persone che non hanno una targa, non hanno una etichetta, spesso non hanno nemmeno uno striscione o un manifesto e neppure l’adesivo giallo e nero con la scritta «No global war» attaccato sul petto. Però stanno qui, e ci stanno dall’inizio alla fine.
Escono invece di scena dopo i primi chilometri i politici. Da Rutelli, bersagliato da una sfilza di baci da un gruppo di donne che lo incontrano alla partenza, a D’Alema, bersagliato invece da qualche coro ostile, a Fassino, Veltroni, Cossutta. Solo Bertinotti arriva fino in fondo. E escono di scena presto i no global, presenti solo con una delegazione e solo per un’ora o due. Poi preferiscono mettere in piedi una «piazza tematica» a Santa Maria degli Angeli e starsene per conto loro. Non si incrociano nemmeno, politici e contestatori. E non c’è quindi l’occasione - se mai ci fosse stata la volontà - per creare tensioni.
Gli unici problemi li creano i telefonini: evidentemente ce ne sono troppi per i ripetitori di questa zona, e allora è quasi blackout totale. Ognuno prova a contattare qualcuno, e ognuno impreca nel proprio dialetto di fronte al cellulare che resta muto. E ci sono proprio tutti, i dialetti e gli accenti d’Italia. Da nord a sud sono arrivati a Perugia con migliaia di pullman, che alla fine della manifestazione sarà un’impresa recuperare nei tanti parcheggi organizzati tra Santa Maria degli Angeli e Bastia. Ed è buio, quando i gruppi cominciano a sciogliersi, gli striscioni vengono riavvolti e molti se ne vanno in giro senza scarpe perché venticinque chilometri non sono uno scherzo anche se percorsi in nome della pace nel mondo. Era buio anche quando sono cominciati ad arrivare i primi gruppi più o meno organizzati. Tanti zainetti e tantissimo entusiasmo.


FANTASIA - I più inquadrati sono gli scout, ma quelli con più fantasia sono forse i maestri elementari di Bastia Umbra, che nei giorni scorsi hanno chiesto ai loro alunni di scrivere un pensiero o fare un disegno sulla guerra e sulla pace. Poi hanno incollato tutti i lavori su un’unica striscia di carta che alla fine è venuta lunga tre chilometri. E riescono a portarla quasi intatta fino a Santa Maria degli Angeli. I più vivaci sono una cinquantina di napoletani tutti sui vent’anni. Fanno canzoni blues in dialetto e sono molto affiatati e molto applauditi. Il più soddisfatto è Flavio Lotti, uno degli organizzatori, che lancia frecciate al sindaco di Assisi perché «in quarant’anni è stato il primo sindaco a non partecipare a quest’appuntamento ed è riuscito a non venire a salutare nemmeno il patriarca di Gerusalemme (monsignor Michel Sabbah, presente anche lui alla marcia, ndr)». I più inossidabili sono i ragazzi del social forum di Terni, che mettono su una bancarella per vendere magliette con le immagini e le frasi celebri dei leader rivoluzionari della storia, e soprattutto lo sono i loro clienti. Che in pochi minuti esauriscono le t-shirt con la foto più famosa di Che Guevara.
(CORRIERE DELLA SERA 15/10/01)

Assisi, in 200 mila per la pace
Lunedì 15 Ottobre 2001

Marcia-record dopo le divisioni dei giorni scorsi
Giacomo Galeazzi
inviato ad ASSISI Perugia-Assisi, in 200 mila per invocare la pace. Marcia record ieri in Umbria e a causa dell’inatteso numero di partecipanti, per la prima volta, è stata chiusa al traffico la statale. Manifestazione pienamente riuscita, quindi, dopo i gravi timori provocati dalla minacciata contestazione violenta. I politici sono stati invitati dai pacifisti a rimanere dietro, ma non hanno subito alcuna aggressione, soltanto qualche fischio. «E’ assurdo demonizzare le tute bianche - protesta don Angelo, tonitruante e corpulento sacerdote romagnolo, attorniato da giovani parrocchiani con la chitarra e la bandana - mentre i capi dei gruppi ecclesiali si sono affannati a prendere le distanze dal popolo di Seattle, la base cattolica ha abbattuto da sè gli steccati e ora parla un’unica lingua, quella della lotta alle ingiustizie planetarie». A dare l’avvio alla manifestazione è stato alle 9 il toccante appello di una donna afghana che dal palco ha detto: «Basta con la guerra, non vogliamo vedere ancora i nostri figli uccisi». Nelle passate edizioni, mai si era vista una così larga partecipazione popolare. I gonfaloni dei comuni e le grandi bandiere hanno trasformato i 24 chilometri di strada in un fiume multicolore. Decine gli slogan in favore delle Nazione Unite, le bandiere di Rifondazione Comunista, quelle Usa-Islam issate assieme dai Verdi, oltre ai numerosi cartelli che invitano a diffidare sia di Bush sia di Bin Laden. Sotto la coltre di apparente unanimismo, però, il corteo riserva sorprese nell’effettiva articolazione delle posizioni. «Non sono affatto convinta che si possa far giustizia senza ricorrere alle armi - ammette Carlotta, 20 anni, diessina toscana - partecipo alla Marcia pur essendo diffidente nei confronti del pacifismo a senso unico. Se ci rifugiamo nell’empireo dei sognatori diventiamo complici dei terroristi. E’ ovvio che preferirei non dover sparare un colpo per prendere Bin Laden, ma sto attenta a non cadere nell’utopia». Sono tanti e silenziosi i giovani che marciano convinti dell’opportunità di un’operazione militare mirata ad individuare i responsabili delle stragi. Sanno che è impopolare e difficile distinguersi, soprattutto quando il mosaico delle convinzioni è tutt’altro che definito. Nella magmatica evoluzione del mondo pacifista, infatti, si susseguono da settimane prese di distanza e spaccature nei vertici che, evidentemente, hanno disorientato parte della base. «Nella terra di San Francesco - osserva con soddisfazione il celebre domenicano Frei Betto, presentato ieri mattina da Gianni Minà, direttore della rivista Latinoamerica, a Valter Veltroni (tra i pochi politici applauditi), Achille Occhetto e Giovanna Melandri che ha ricordato la sua prima Perugia-Assisi, fatta da scout a 14 anni - si è raccolto un popolo colorato e festante di 150 mila persone che non vedono nella guerra una panacea. Il terzo millennio ha avuto inizio martedì 11 settembre con la distruzione delle torri simbolo dell’impero yankee. L’atto terroristico è esecrabile e ogni terrorismo beneficia solo l’estrema destra, però ognuno nella vita raccoglie ciò che pianta. Se gli Stati Uniti sono oggi attaccati in forma tanto violenta è perché umiliano popoli ed etnie». Bush come Bin Laden, dunque? «Il nemico attuale degli Usa, ossia i santuari del terrore - precisa Frei Betto, guida carismatica dei cattolici brasiliani negli anni della dittatura brasiliana, oggi responsabile della pastorale operaia nel centro metallurgico di São Bernardo do Campo e direttore del mensile "Americana Libre" - sono parimenti fuori da ogni etica, con l’unica differenza che essi non dispongono come gli americani di forum internazionali per legittimare la loro azione criminale. L’America Latina è la prova di come gli Usa interferiscano direttamente nella sovranità di decine di Paesi, seminando il terrore. Maurice Bishop, il rivoluzionario che ha lottato per la liberazione dell’isola di Granada, è stato assassinato dai berretti verdi nel 1983; il governo sandinista è stato rovesciato dalle stragi provocate da Reagan; i cubani continuano a vivere sotto embargo dal 1961, senza diritto a relazioni normali con gli altri paesi del mondo». I militari a lungo al potere in Brasile, Argentina, Cile, Uruguay e Bolivia, denuncia il più autorevole teologo della liberazione, hanno perpetrato terribili stermini con il patrocinio della Cia. Violenza attira violenza, diceva monsignor Helder Câmara. Visibilmente soddisfatto per la partecipazione record alla Perugia-Assisi anche il comboniano padre Gino Barsella. «La scelta pacifista - commenta il torrenziale direttore di "Nigrizia" - non si esaurisce nel criticare gli Usa perché tengono sottomesso l’Onu. Dopo Genova, in Italia sta maturando una seria strategia politica che mette insieme cattolici e laici. In piena guerra, poi, è fondamentale che tante persone di buona volontà abbiano dato il loro contributo a un serio ripensamento sull’ordine mondiale. La Perugia-Assisi ha confermato di non appartenere a nessuno: né all’arcipelago pacifista, né alla Tavola della pace, né ai partiti o leader politici, né ai movimenti antiglobal, né ai sindacati e alle associazioni religiose». Il dato più significativo, secondo padre Barsella, è proprio il fatto che non sia stata una passeggiata autoreferenziale in cui ciascuno ha ribadito le sue posizioni ma un crogiolo utile per negoziare porzioni della propria identità e delle proprie convinzioni. E ciò è avvenuto attraverso l’ascolto delle le ragioni dell’altro, cambiando la qualità della politica, oggi «appiattita sui tatticismi e sugli imperativi economici». (LA STAMPA)

Rutelli «esce di scena» e beffa i contestatori
Lunedì 15 Ottobre 2001

FA DISCUTERE L’IMPROVVISA «SCOMPARSA» DEL CAPO DELL’ULIVO
Al quarto chilometro il leader dell’opposizione lascia il corteo Fino a quel momento solo battute e urla isolate «vergogna!» Delusi i centri sociali che aspettavano i politici di centrosinistra

inviato a ASSISI
LUNGO la strada che digrada dolcemente da Perugia verso Assisi, Francesco Rutelli sta marciando con la proverbiale professionalità: rilascia saluti, strette di mano, domande fuggevoli («Da dove vieni?»), ignorando i fischi rarissimi e le urla belluine («Vergogna!») che qua e là sibilano dal ciglio della strada. Da 50 minuti Rutelli è in marcia nella campagna umbra e finora - con quei dissensi isolati - gli è andata più che bene. Ma allo scoccar delle 10,03, dopo un bisbiglio tra gli uomini della scorta, Rutelli cambia espressione. Si rivolge, sia pure scherzosamente, ai giornalisti e dice: «Non vi sembra che possa bastare con le telecamere? Seguite la marcia, non soltanto me, io sono uno dei tanti...».
Difficile capire subito il motivo di tanto altruismo, ma cento metri più avanti se ne capisce di più: i manifestanti che precedono Rutelli proseguono lungo il percorso prefissato della marcia, mentre il capo dell'opposizione vira a sinistra e si infila in una stradina laterale. E qui - uscita non si sa da dove - si materializza l'autoblu. Rutelli vi sale sopra, la portiera blindata si richiude e il capo dell'opposizione se ne va. Sono le 10,11: la marcia della pace di Francesco Rutelli è durata quattro chilometri e mezzo, percorsi in un'ora: il tempo di esporre la propria faccia, incassare molti applausi, rarissimi dissensi e, naturalmente, di esternare davanti ai microfoni le dichiarazioni per i tg. Missione compiuta, missione riuscita, ma come mai così breve?
Per provare a capirlo, basta proseguire il corteo, proprio là dove lo ha lasciato Rutelli: in via Pieve di Campo alla periferia di Ponte San Giovanni. Esattamente duecento metri dopo il punto dell'addio rutelliano, ecco schierati centinaia di ragazzi dei centri sociali: ne sanno qualcosa Massimo D'Alema e Piero Fassino che, appena arrivano da quelle parti, vengono investiti da una raffica di fischi e di parole aspre. Che quei ragazzi fossero concentrati proprio lì, nel centro di Ponte San Giovanni e non prima, lo sapevano tutti dalla sera prima: organizzatori, polizia e politici. I diessini hanno consapevolmente sfidato il dissenso, mentre Francesco Rutelli, evidentemente ha preferito preservare l'immagine del capo dell'opposizione, non esporla ai lazzi dei contestatori.
E qualche ora più tardi, i servizi sui Tg "prandiali" di Rai e Mediaset sembrano dargli ragione: si dà conto, sia pur di sfuggita, dei dissensi che hanno investito D'Alema, senza stare a sottilizzare sul fatto che la marcia del presidente ds è stata sensibilmente più lunga di quella di altri. Interpellato più tardi sul perché i capi dell'Ulivo abbiano marciato in ordine sparso, D'Alema risponderà con nonchalance: «Rutelli non l'ho visto e io ero un disperso nella folla...».
Veterano della Perugia-Assisi, ieri mattina Francesco Rutelli si è presentato alla partenza della marcia con un look casual ma non troppo - Lacoste celeste, pantaloni aderenti color cachi e scarpe scamosciate da passeggiata - un look diverso da quello alla "Sant'Egidio" sfoggiato dal segretario popolare Pierluigi Castagnetti (t-shirt blu e golfino grigio), da Rosi Bindi (zainetto nero e camicetta celeste), dal popolare Beppe Fioroni (polo grigia), da Willer Bordon, accompagnato dalla moglie Rosa e dalla figlia Valentina, di 5 anni.
Rutelli va a mettersi nella parte iniziale del corteo, ma non nella "testa" dove ci sono gli scout, boccia la "linea" Marini («Fatti circondare da mille ragazzi della Margherita») e inizia il corteo senza la protezioni di "scudi umani", tanto è vero che accanto a lui c'è persino meno scorta del solito: soltanto un carabiniere in borghese. Accanto a Rutelli si alternano Walter Veltroni, Rosi Bindi, Ermete Realacci, Pierluigi Castagnetti («Io sono qui per l'ennesima volta...») e nei primi chilometri di marcia non ci sono contestatori organizzati, prevalgono gli applausi e le richieste di autografo, tanto è vero che Rutelli arriva a dire: «Un'accoglienza bellissima».
Naturalmente non mancano le battute brucianti. Come quella dello scout Giorgio: «Voti la guerra e vieni alla marcia della pace: Rutelli sei un fico!». Nelle dichiarazioni rilasciate lungo la strada che porta verso Assisi, Rutelli tiene il punto («Oggi bisogna avere il coraggio di schierarsi e combattere contro il terrorismo») ma cerca di restare il coagulo di una coalizione laceratissima: «Rispettiamo chi chiede pace assoluta», «dobbiamo costruire una pace che sia anche giustizia e sappia risolvere i problemi più gravi del mondo: la fame, la miseria, le malattie».
Dichiarazioni che tengono conto dei giorni difficili vissuti recentemente da Rutelli: stretto tra D'Alema e i diessini che volevano venire a tutti i costi ad Assisi e il vicepresidente della Margherita Arturo Parisi che aveva proposto di disertare la marcia, alla fine Rutelli ha scelto di esserci. Per restare il "baricentro" dell'Ulivo e «per non regalare la Perugia-Assisi ai Ds», come riconoscono gli amici del leader.
E infatti ieri, Rutelli non ha lasciato il campo ai Ds, anche se ha preferito deviare quando hanno cominciato a sibiliare i primi insulti. Il più "gettonato" era: «Vergogna!». Un chilometro dietro Rutelli ci sono i diessini, c'è Massimo D'Alema con la moglie Giuva, il figlio Francesco e la figlia Giulia. E' proprio lei, con distillato di dalemismo puro, a sibilare ironica: «Solo vergogna sanno dire?».
(LA STAMPA)



D’Alema «il gladiatore»: sulla guerra non cambio idea
In marcia fra contestazioni e applausi, protetto dal servizio d’ordine «Ci gridano "a casa", ma se lo facessimo qui resterebbero in pochi»
LA STAMPA Lunedì 15 Ottobre 2001

Maria Teresa Meli
inviata ad ASSISI «Come il "Gladiatore"»: Linda Giuva, moglie di Massimo D’Alema, sorride e lancia uno sguardo affettuoso al marito. Mentre i militanti ds battono le mani ritmicamente per coprire i fischi e gli insulti all’ex premier, la consorte del presidente della Quercia paragona questa scena a una famosa sequenza del film di Ridley Scott. Per la verità c’è molto meno pathos, e il D’Alema in maniche di camicia assomiglia assai poco al Russell Crowe che combatte nel Colosseo. Tra i tanti motivi, anche perché, al contrario dell’attore australiano, è protetto da un imponente servizio d’ordine. Che fa la sua apparizione proprio quando arriva l’ex premier. Appena giunge D’Alema, infatti, la delegazione della Quercia viene subissata di fischi, per oltre un’ora, fino a quando il presidente del partito si infila in una via laterale e sale in auto con famiglia al seguito.
Ma, a onor del vero, D’Alema i fischi se li prende anche prima, quando è sprovvisto di super servizio d’ordine, e ha le guardie del corpo che lo accompagnano normalmente. Colpa del ritardo con cui il presidente della Quercia raggiunge gli altri del suo partito. Rimane solo, indietro, e un gruppo di esponenti di Rifondazione e dei centri sociali lo contestano duramente. «Facci vedere le scarpe!», gli urlano. Ma questa volta il presidente della Quercia ce l’ha da ginnastica, e nemmeno griffate. «Perché sei venuto con la scorta?», gli ringhia dietro un giovane. D’Alema si volta e replica: «Tanto tu non riusciresti a farmi nulla nemmeno da solo». Il preside di un liceo lo avvicina, e gli dice: «Non fate come gli eroi greci che tornavano sconfitti e cadaveri dalla guerra». D’Alema risponde così: «Se tu dai retta a Bertinotti, torni sconfitto e neanche da eroe». In quel mentre l’ex premier incrocia Vittorio Agnoletto. I due fanno finta di non conoscersi. Ora tocca alle Iene. L’intervistatore incalza D’Alema, lui ridacchia e osserva: «Sei bravissimo, dovresti fare il direttore di Parlamento in , altro che Vigorelli».
Nel frattempo, nella delegazione diessina, c’è agitazione per l’assenza di D’Alema. Qualcuno teme che possa capitargli un incidente. Giovanni Lolli lo chiama: «Mandiamo dei compagni a prenderti», grida al cellulare. «Ma dov’è D’Alema? Perché non viene con noi?», chiede Pietro Folena. «Tranquilli, tranquilli - dice l’oggetto delle apprensioni ds, quando giunge finalmente dai suoi - ho già camminato e ho già preso i miei fischi». Prima del suo arrivo, infatti, i vari Piero Fassino, Giovanna Melandri (che si eclissa dopo una ventina di minuti), Livia Turco, Marco Fumagalli, Gavino Angius, Pietro Folena, Vincenzo Vita, non vengono contestati. Tanto meno Giovanni Berlinguer che, a sorpresa, annuncia che i ds, se gli Usa continuano a fare vittime civili, potrebbero ripensare la loro posizione sull’intervento. Nemmeno Cesare Salvi viene investito di improperi, anche perché non c’è, e analoga fortuna tocca in sorte a Veltroni, perché sfila dietro il gonfalone del comune di Roma. Comunque i diessini, senza D’Alema, marciano quasi indenni. Solo qualche sporadico grido: "Criminali, criminali". Già, nel bene (gli applausi, perché ci sono anche quelli, benché i fischi siano molti di più) e nel male, il leader è D’Alema. E’ a lui che si indirizzano insulti e ironie. Che il presidente della Quercia fa mostra di non temere. «E’ una contestazione - spiega ai compagni di partito - organizzata da Rifondazione. Ci sono alcuni che sono proprio dei professionisti. Ne ho individuati tre che mi seguono sempre. Ma figuratevi, io ieri sono passato sotto la curva del Perugia con la sciarpa della Roma: non ho paura di quei tifosi, figuriamoci dei tifosi di Bertinotti». Maria Rita Lorenzetti, presidente della regione umbra, che è accanto a D’Alema, annuisce e dice: «Questa è robetta rispetto a quello che i nostri hanno fatto a Bertinotti, qui alla marcia, nel ‘97».
Così D’Alema continua a passeggiare tra i fischi e gli improperi ostentando tranquillità. «Non è facile - spiega - cacciarci dalla piazza. Siamo un partito di 500 mila iscritti. Ci gridano "a casa, a casa", ma se andassimo a casa noi, qui non rimarrebbero in tantissimi. Metà è dei nostri. E i nostri si stanno incavolando, ma dobbiamo tollerarci a vicenda». E se un giornalista gli fa presente che anche la base ds è in sofferenza per la guerra, l’ex premier risponde secco: «Si stanno svolgendo i congressi di sezione, che dimostrano che la stragrande maggioranza del partito sta su queste posizioni». Ossia, quelle sue e della mozione Fassino. Poi D’Alema critica i contestatori: «Mi stupisce che non si sia levato un solo grido contro il terrorismo». Il servizio d’ordine continua a scortare il presidente e gli altri ds. E a fatica tiene a bada Berlinguer, che ogni tanto "scappa via" e si ferma a parlare con i manifestanti. E con i giornalisti a cui dice: «Se gli Usa dovessero continuare a colpire anche civili, i ds potrebbero cambiare la loro posizione rispetto all’intervento». Ma qualche metro, più in là, prima dell’ultimo fischio, e anche dell’ultima richiesta di stretta di mano con fotografia annessa, D’Alema osserva, con l’aria di chi non ammette repliche: «Non cambiamo idea sull’uso della forza». E non sembra proprio che nemmeno l’ennesimo grido - "assassino, assassino" - possa fargli mutar parere.




Tutti ad Assisiville, dove si canta e si fischia
Lunedì 15 Ottobre 2001

LE MILLE FACCE DELLA MANIFESTAZIONE DAI PUNKABESTIA A ROSI BINDI
Maria Laura Rodotà (LA STAMPA)
inviata ad ASSISI ANZIANO infuriato: «Assassini! Lo sapete che il 20 per cento dell’umanità si mangia l’80 per cento delle risorse?». Giovane no global romano in caduta di zuccheri: «E a noi lo vieni a dì?».
Signora umbra con messa in piega, ai dirigenti Ds che sfilano: «Vergogna! Guerrafondai!». Marito umbro allineato: «Ma la vuoi smettere? Se non te mena il servizio d’ordine te meno io».
Valentina di Bari alle amiche, alla vista di D’Alema: «Eccolo! E’ Massimo! Wow!». Punkabestia che si sposta col gruppo per urlare contro D’Alema ma ha una crisi di milanesità classica: «Ma vai a lavorare!».
Chissà se la sinistra italiana muore o si rimodula (termine di Francesco Caruso, il no global degli schiaffi che poi non ha dato) sullo stradone di Ponte San Giovanni. Di certo è passata tutta lì tra le undici e mezzogiorno di ieri, tutta contemporeamente, tutto e il contrario di tutto, tutte le passioni e le scemenze e le serietà e i tic e gli abbigliamenti-segnale. Il pacifismo da socialismo umanitario e la voglia di gridare battute e litigare, la disciplina di partito e il gusto della manifestazione incasinata, le magliette «Peace Now» in vendita accanto a quelle «Continuons le combat». I ragazzi no global e i vecchi compagni, non necessariamente sulle posizioni che uno si immagina. Molti vecchi compagni fischiano dai marciapiedi. Molti dei tantissimi ragazzi pacifisti di sinistra non sono del tutto contrari a questa guerra. Più che rimodulata, la situazione sembra magmatica.
I ragazzi, alla marcia per la pace, sono maggioranza più che mai. Prova deambulante dei freschi studi che indicano come nell’ultimo anno il 40 per cento chi ha tra 15 e 24 anni ha partecipato a «iniziative ecologiste, ambientali, pacifiste». E che questa è, per la prima volta da vent’anni, la fascia sociale più a sinistra di tutte. Ora poi è diventata (frase del sociologo Ilvo Diamanti) «generazione 11 settembre»: coinvolta, con voglia di partecipare ancora di più, ma ancora confusa senza leader. Alla fine della marcia, a Santa Maria degli Angeli sotto Assisi, D’Alema e il portavoce del Genoa Social Forum Vittorio Agnoletto si incrociano e si ignorano. Ma neanche i ragazzi li filano più di tanto, sono beghe tra quaranta-cinquantenni, certo ci sono pure queste, ad Assisiville.
E ad Assisiville, la marcia multicomprensiva (tra l’altro, boy scouts e "Iene", curdi e Rosi Bindi), come nel film multi-caratteri americani "Nashville" di Robert Altman, l’unica è cantare. "Bella ciao". Dieci volte di fila, a intervalli, se è il caso. Va bene ai cattolici, i ragazzi la sanno tutti, fa memoria storica della sinistra e fa sentire bene. In più rincuora sia la mozione Fassino sia il Correntone che sulla guerra ha votato a malincuore, perché è innegabilmente interventista, praticamente neo-blairiana nazionalpopolare.
E poi la generazione 11 settembre canta coi quarantenni canzoni che grazie a Dio i quarantenni sanno, la pacifista "Ballata dell’eroe" di De Andrè subito prima di "Comandante Che Guevara" (sempre record di magliette). "Il mio nome è mai più" di Jovanotti-Pelù-Ligabue diffusa dal camioncino di un collettivo di studenti bolognesi subito prima di "In morte di S.F." di Guccini; e lì i quarantenni si agitano, devono rimettersi in macchina, ‘sti ragazzi non sanno che quando loro erano piccoli portava male. Nel generale sincretismo confuso, i riferimenti, le icone, sono quasi tutte di qualche generazione fa. In compenso ci si divide sui segnali esterni. Il gruppo di mezza età è sobriamente griffato (Fassino-Ralph Lauren, Rutelli-Lacoste, Gavino Angius-Fred Perry) o in button down (D’Alema e Agnoletto uniti nella camicia). I ragazzi sono in maglietta e fascia-turbante, anche molti maschi. E la metà delle ragazze: si riparano dal sole con sciarpe colorate arrotolate in testa, come odalische in un vecchio quadro. Con effetto etnico-alternativo-no global-però global, ora lo portano in tutte le parti del mondo dove non c’è l’obbligo del chador.
Dopo Ponte San Giovanni D’Alema e Fassino vanno via, e si smette di litigare a capannelli nel corteo. Tra le chitarre e i flauti andini e le bande di ottoni e i gonfaloni; tra Bobo e Berlinguer (Giovanni); tra gli sconvolti e le suore, tra le famigliole con passeggino cigolante, tra lo striscione di Emergency e le due manone in gommapiuma dei social forum che non daranno veri schiaffi al centrosinistra, sono lontani e hanno deciso di no. Nell’hinterland di palazzine rosa postmoderne da giunta rossa felix, di concessionarie centri commerciali e capannoni, va meglio del previsto perché non ci son state vere risse. E ha sfilato un popolo pacifista con molte idee diverse su come fare la pace. Dopo Assisiville, è probabile che continui.

«Era una marcia contro l’Occidente»
Lunedì 15 Ottobre 2001 - LA STAMPA

Le manifestazioni di Polo e radicali: difendiamo l’America

ROMA
La marcia della pace e «quelli che non ci stanno». Mentre migliaia di persone sfilavano da Perugia ad Assisi, non tutti gli «altri» se ne stavano con le mani in mano. Al di là delle dichiarazioni e delle polemiche, centrodestra e radicali hanno espresso il proprio punto di vista sulla delicata situazione internazionale con alcune contro-manifestazioni.
Proprio nella sede del palazzo comunale di Assisi, i giovani di Forza Italia hanno organizzato un incontro-dibattito. «Abbiamo voluto esprimere il nostro sentimento di vicinanza agli Usa - ha affermato il coordinatore nazionale Simone Baldelli -, abbandonando la marcia alle discussioni e ai litigi della sinistra. Non può esserci pace senza giustizia e senza libertà: per questo abbiamo ritenuto necessario rilanciare lo spirito vero e profondo di riflessione e di preghiera di Aldo Capitini, e prendere le distanze dalle posizioni strumentali di chi, come alcuni esponenti del movimento no global, ha preteso di giocare senza alcuna legittimità il ruolo del padrone di casa». «All'inizio avevamo aderito - ha concluso - ma ce ne siamo allontanati quando abbiamo visto che sarebbe stata marcia contro l'Occidente».
Nella sala del Comune, dove erano state esposte una bandiera americana e una di Forza Italia, si sono incontrati anche l'on. Sandro Bondi, Antonio Baldassarre, presidente emerito della Corte Costituzionale, Padre Fortunato e Giorgio Bartolini, sindaco di Assisi. Proprio lui ha spiegato il no dell'amministrazione comunale alla tradizionale sfilata Perugia-Assisi: «Perché - ha detto - per la prima volta nella sua storia è stata una manifestazione "sui generis", arrivata dopo Genova, dopo l' 11 settembre». Secondo Bartolini, la marcia «è stata strumentalizzata in modo pesante da certi partiti della sinistra e noi - ha aggiunto - l'abbiamo lasciata nelle loro mani. La pace - ha aggiunto - è una cosa seria, non è dei partiti, è di tutti». Il sindaco ha poi affermato che nella città oggi «alcuni esercizi pubblici hanno chiuso per paura». «Mi chiedo - ha osservato - perché deve mettere paura una marcia della pace».
Anche Alleanza nazionale ha espresso pubblicamente la sua presa di distanza dalla marcia. E lo ha fatto a Perugia, andando a deporre una corona di fiori al monumento ai caduti di tutte le guerre, in via Fanti. L'iniziativa - ha spiegato il consigliere regionale Andrea Lignani Marchesani - «nata come risposta ad un evidente pacifismo di facciata, assume in questo contingente contesto internazionale un particolare significato: la pace è infatti un valore che ha un prezzo e talvolta va purtroppo difesa con quelle che vengono chiamate operazioni di polizia internazionale».
Quanto ai Radicali, hanno fatto ciò che avevano promesso nei giorni scorsi: una loro delegazione si è recata al cimitero dei caduti inglesi di Rivotorto d'Assisi. «Il nostro - ha detto il segretario Daniele Capezzone - è un paese in cui c'è chi brucia le bandiere americane e quelle inglesi. Ma c'è anche chi, come noi, quelle bandiere le alza. Sono bandiere di libertà e di democrazia per il passato quanto per l'oggi. Per questo, con gratitudine e commozione, abbiamo visitato stamani il cimitero di Rivotorto». «C'è un'altra cosa - ha aggiunto Capezzone - che voglio dire a molti "pacifisti". La Corte Suprema americana, in nome del primo emendamento, consente in quel paese il rogo della bandiera nazionale. Ecco, l’America è un paese che consente a chiunque, e consentirebbe anche a loro, di bruciare il simbolo a stelle e strisce. Provino, se possono - ha concluso - a bruciare la bandiera cinese a Pechino o quella cubana a L'Avana».