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Zimbabwe

Lavoro part-time? Cercare l’oro

In Zimbabwe setacciare la sabbia alla ricerca dell’oro non è più un’attività per soli uomini. Le donne ci sono buttate con risultati sorprendenti e rappresentano il 30% delle 500.000 persone che si dedicano a questa ricerca artigianale.
Rodrick Mukumbira

Fra le decine di uomini che lavorano immersi fino al ginocchio in pozze fangose in una zona aurifera vicino a Mbalabala, 80 chilometri a nord di Bulawayo, la seconda città dello Zimbabwe, c’è anche un gruppetto di donne che sgobba con indosso vestiti stracciati, sporchi di fango. Fra di loro c’è Marita Kyere, una nonna, vedova, senza terra, che cerca l’oro ormai da sei anni. Ci sono anche la ventottenne Netiwe Makaza, una madre divorziata che con questo mestiere riesce a sfamare due ragazzini ed Eunice Nkala, di ventisei anni, che spala di fianco al marito, mentre sua madre bada ai bambini.

La loro vita e le loro condizioni sono diverse, ma le tre donne concordano sul fatto che l’estrazione dell’oro, nonostante sia un lavoro estremamente duro, consente di guadagnarsi da vivere. L’oro, d’altronde, costituisce, in Zimbabwe, la seconda fonte di valuta straniera in ordine d’importanza, dopo il tabacco. Alcuni studi stimano che si estraggano circa dieci tonnellate d’oro all’anno in questa maniera artigianale; il minerale è venduto prevalentemente sul mercato nero da questi micro- imprenditori e costituisce circa la metà della quantità complessiva di metallo estratto e venduto legalmente nel paese.

L’attività di sfruttamento delle vene aurifere provoca deforestazione e guasti all’alveo dei fiumi, gravissimi danni ambientali, ma il governo fa finta di non vedere, considerato l’imponente numero di persone che vi si dedica, sbarcando il lunario. Già ai tempi della peggior siccità che, a memoria d’uomo, ha colpito il paese nel ‘91-‘92 si calcola ci fossero 100,000 cercatori sparsi per il paese. Ma, oggi, David Musabayara, che ha condotto uno studio sullo sfruttamento dell’oro alluvionale per conto dell’Istituto di Ricerca Mineraria dell’Università dello Zimbabwe, stima ce ne siano ben 500,000, indaffarati a lavorare nelle ricche vene aurifere ed almeno il 30% di questi sono donne.

Per diversi aspetti la ricerca delle pagliuzze si adatta bene agli impegni e allo stile di vita delle contadine. Infatti, possono dedicarvisi nel tempo libero dalle faccende domestiche, oppure nei tempi morti della raccolta di caffè e cotone. Non richiede tecniche particolari né costose attrezzature, ma, semplicemente, con un piccone, un badile, il classico setaccio, un secchio e un pezzo di tessuto a maglia si è perfettamente in grado di lavorare!

La ricerca dell’oro alluvionale richiede l’impiego d’un minimo di due persone: un paio di mogli dello stesso marito, madre e figlio, sorelle, vicini ed amici possono facilmente dedicarvisi. I bambini piccoli vengono lasciati alle cure dei parenti, oppure portati sul posto a giocare nei pressi degli scavi. Le donne possono partecipare attivamente a tutte le fasi del lavoro, dal trasporto dei secchi d’acqua, allo scavo, alla setacciatura, ma anche praticando la fusione e dedicandosi al commercio dell’oro che ricavano.

Contemporaneamente a questa “nuova” attività, le donne, sempre ricche di fantasia e dinamicità, ne esercitano molte altre, più tradizionali, come il commercio di carne, di prodotti ortofrutticoli e di cibi già cotti e pronti da mangiare. Ma, le si trova facilmente anche a vendere vestiti, a lavorare a maglia e vendere golf, gestire spacci alimentari e piccoli bar, produrre pane, birra e…a vendere sesso. Constance Mugedeze, autore l’anno scorso di uno studio per le Nazioni Unite sulle donne impegnate nella microattività d’estrazione mineraria, afferma che ci troviamo di fronte ad un evento sorprendente, allo sviluppo di una nuova sub-cultura e di un inedito sistema economico.

La nuova fonte di reddito tende a rimanere al di fuori del tradizionale controllo maschile della ricchezza, incentrato sulla proprietà della terra e del bestiame. Mugedeze rileva che le donne si dedicano volentieri alla ricerca e alla vendita dell’oro raccolto perché ciò le fa sentire a loro agio, padrone di se stesse. Anche quando le mogli devono consegnare i guadagni ai mariti, sono in grado di riaffermare la loro capacità e forza di produrre risorse, acquisendo più indipendenza e rispetto.

Giles Munyoro, presidente dell’Associazione dei Microimprenditori Minerari, afferma che le donne, ora come non mai, sono riconosciute nelle campagne come un’importante fonte di produzione di reddito famigliare. Spiega che con il ricavato della raccolta dell’oro comprano sementi e fertilizzanti, buoi ed attrezzi agricoli, pagano la scuola e le divise dei figli, in certi casi addirittura la birra e gli spostamenti dei mariti. L’estrazione dell’oro, secondo Munyoro, garantisce quella marcia in più a tante famiglie rurali.

La ricerca di Musabayara mette in risalto che, fin dal ’94, il reddito indipendente da estrazione dell’oro delle donne sta trasformando le relazioni famigliari. “Le cercatrici ci hanno detto d’avere ora molta più voce in capitolo nei rapporti e nelle decisioni famigliari ” dice il ricercatore, ricordando un’interessante affermazione di una donna, fiera del fatto che, ormai, sono passati i tempi in cui una moglie doveva litigare col marito per avere i soldi per comprare lo zucchero e il sale.

Cento chilometri ad est di Mbalabala, vicino alla città mineraria di Zwishawane, Teresa ha cominciato a dedicarsi alla ricerca dell’oro durante la siccità, provocata nel 2000 dal ciclone Eline. Dopo i lavori di casa la giovane madre di tre figli, divorziata, si era messa a fare un chilometro per raggiungere il fiume Lundi e setacciare la sabbia. Spesso i suoi figli non andavano a scuola per aiutarla o, in ogni caso, erano con lei a dare una mano dopo la scuola, nel pomeriggio. I 2000 dollari zimbabweani, 36,50 americani, che guadagnava mensilmente le servivano per sopravvivere e pagare le tasse scolastiche. “D’altronde, non lo sapete che gli uomini, i mariti, non si preoccupano affatto se un figlio non ha da mangiare e non ha uno straccio di vestito?” ci chiede seccamente. Sebbene la ricerca dell’oro sia illegale, pericolosa e comporti il fatto di dover passare molte ore in compagnia di uomini sconosciuti, Teresa non ha esitato ed i suoi vecchi genitori non hanno avuto niente da dire per questa sua nuova attività. “ Era una questione molto chiara, di sopravvivenza: d’avere soldi o non averne, “ spiega. “ Che cosa potevano dire?”

Il presidente dell’associazione Munyoro sottolinea che inizialmente i mariti non erano molto d’accordo che le loro mogli svolgessero l’attività di ricerca dell’oro, ma poi hanno cominciato ad accettarlo, spesso portandole con sé per lavorare insieme, come fanno gli Nkala a Mbalabala. Quando Simon Nkala ha preso il diploma della media inferiore, sei anni fa, non ha trovato lavoro e ha cominciato a fare il cercatore per conto del proprietario di una concessione che gli pagava l’oro che trovava, giorno per giorno. Poi, sua moglie si è unita a lui e racconta: “ E’ stata una mia idea che lei ha dovuto semplicemente accettare. Questo mestiere è meglio della raccolta del cotone, perché in quel caso hai un padrone e sei costretto a lavorare. Nella ricerca dell’oro, viceversa, lavori quando hai bisogno di soldi, altrimenti te ne stai a casa tua. E’ un lavoro duro, ma è pagato meglio, perciò il gioco vale la candela.”

Il giorno prima della nostra intervista la coppia aveva guadagnato solo 300 dollari zimbabweani (5,54 dollari americani), ma in un giorno buono possono arrivare a 1000 dollari ed anche più, mentre, con la raccolta del cotone non possono fare più di 70 dollari, naturalmente zimbabweani, al giorno. Alla luce di questi fatti non può sorprendere che le donne continuino ad ingrossare le fila dei cercatori d’oro dello Zimbabwe, nonostante i pericoli che derivano dalla repressione della polizia, dalle impalcature che crollano, dalle pessime condizioni sanitarie di lavoro; nonostante gli affollati insediamenti spontanei dove si concentrano i cercatori, lo sfruttamento dei caporali, gli stupri e l’AIDS sempre incombente.