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C'è anche la "buona morte"

Ogni ammalato ha il diritto di essere informato dal medico sulla propria condizione: anche se non c'è speranza. Nei tempi passati esistevano pratiche che aiutavano i moribondi ad accettare l'inevitabilità della propria fine.
Laurenti Magesa

Il virus dell'HIV-AIDS è stato riconosciuto e considerato come una seria minaccia alla vita umana in Africa, certamente nell'Africa Orientale, già nei primi anni '80. Da allora, sebbene ci siano ancora gravi problemi di discriminazione, più o meno scoperta, da affrontare, si deve ammettere che ci sono stati sostanziali miglioramenti nell'atteggiamento della società nel suo complesso nei confronti dei malati di AIDS.

Ci sono stati cambiamenti nella percezione sociale e nel modo di porsi con queste persone: dalla colpevolizzazione indiscriminata e l'esclusione sociale che prevalevano originariamente, si è passati ad un certo grado d'accettazione. Nel passato i malati sono stati evitati, tenuti a distanza con terrore ed isolati, ma ora c'è un migliore grado di accettazione e non viene fatta mancare loro assistenza medica e sociale.

Mentre si deve continuare a lottare per ottenere un trattamento veramente umano e dignitoso dei malati di AIDS per ciò che attiene ai loro diritti in ogni ambito dell'esistenza, è giunto il momento di prestare maggiore attenzione ad un'area critica che non ha ricevuto la considerazione che merita, probabilmente per via della sua natura particolare. Si tratta del diritto dei pazienti di essere informati dai medici riguardo la propria condizione e del dovere di religiosi ed operatori in genere di offrire un'assistenza realistica, onesta e leale. Ritengo si tratti di un ambito tanto importante quanto tutti gli altri afferenti la lotta per assicurare dignità a coloro che sono malati di questa tremenda malattia

Vediamo con un esempio di illustrare meglio ciò che voglio dire. All'inizio dell'anno scorso ho portato un nipote( che chiamerò Dan) ad una clinica locale. Dan soffriva da qualche tempo di febbri intermittenti, di una tosse persistente e di altri problemi di salute. Al momento in cui a gennaio l'ho accompagnato in clinica stava veramente molto male. Il giovane medico di servizio lo ha esaminato e gli ha prescritto delle medicine chiedendogli di prenderle a casa. Dopo averlo dimesso, il medico mi ha chiamato nel suo ufficio per dirmi che era certo che Dan non solo era siero positivo, ma che soffriva già di AIDS in uno stato avanzato. Mi ha chiesto perentoriamente di non informare Dan della sua condizione terminale, spiegandomi che la reazione della gente che soffre di questa malattia è imprevedibile, aggiungendo che se Dan avesse saputo della sua condizione era possibile che si suicidasse.

Dan è morto sei mesi dopo, lasciando la moglie ed un figlio, ma lo ha fatto senza sistemare le cose, i suoi affari, a beneficio della sua famiglia perché non sapeva che la sua malattia lo avrebbe presto condotto alla morte. Ho obbedito alle istruzioni del medico, poiché sapevo che ciò che mi aveva detto era effettivamente successo ad alcuni malati di AIDS. Non volevo che Dan potesse fare una cosa del genere, ciò non di meno, da quando è morto, mi continuo a chiedere se averlo tenuto all'oscuro dei fatti sia stata cosa giusta o sbagliata. Casi di suicidio di gente che è stata informata di avere l'AIDS giustificano l'istituzionalizzazione del silenzio come approccio generale al problema?

Mi sono anche messo a leggere quello che potevo riguardo l'argomento. La letteratura è molto chiara nello spiegare che ogni persona affronta la realtà della morte in modo diverso e che non esiste una modalità standard che deve essere usata da medici, sacerdoti, assistenti sociali nei confronti di ogni malato terminale. Ma, nelle mie letture, sono arrivato alla conclusione che, in linea di principio, a fronte di una diagnosi certa, i malati di AIDS dovrebbero essere informati che la loro condizione è terminale, in una maniera delicata, ma franca. Come dicevo questo dovrebbe valere anche per i religiosi, in quanto i pazienti dovrebbero ricevere lo stesso trattamento nel corso dell'assistenza spirituale che ricevono in modo da passare al meglio i giorni che gli rimangono e prepararsi materialmente, emozionalmente e spiritualmente alla fine che si avvicina. Una condizione questa che dovrebbe stare particolarmente a cuore ai ministri del culto.

Mi sono convinto di tutto ciò, osservando come gli Africani guardano tradizionalmente, culturalmente, alla morte. Nel villaggio dove sono prete da molti anni, la morte non è quella cosa nascosta, segreta e sterilizzata che è in America dove temporaneamente risiedo e lavoro. A Bukama, la località del nord ovest della Tanzania dove ho vissuto, l'atto di morire e la stessa morte sono un fatto pubblico cui sono incoraggiati o perfino richiesti di assistere parenti ed amici. Stando con la persona morente, comunicano con lui o con lei, spesso non verbalmente, qualche volta coralmente, sull'essenza, la natura vera della sua infermità.

Il morente legge l'inevitabile sui loro volti e viene così emotivamente aiutato ad accettarlo con il loro conforto, sapendo di non essere solo, specialmente in questo momento cruciale. Al paziente viene comunicato con questa presenza che costituisce ancora una parte importante della comunità, che ha ancora bisogno di lui. Si tratta di una forma di assistenza tradizionale che ha dato prova del suo valore nel corso di molti secoli.

Oggi, la situazione al di fuori delle zone rurali come Bukama e altrove nell'Africa Orientale, è decisamente cambiata. Queste strette relazioni di famiglia e di villaggio stanno rapidamente svanendo, anche perché, a causa dell'AIDS, molti giovani muoiono lontano da casa, nelle città e nei grandi centri della regione dove non hanno né parenti, né amici. Questi disgraziati vengono generalmente portati ai loro villaggi una volta cadaveri, solamente per la sepoltura, oppure portati a casa, privi di coscienza e sul punto di morire. In questo modo il tradizionale metodo di accompagnamento verso la morte diviene sempre meno importante e perde di valore per cause di forza maggiore. Oggi coloro che sembrano più vicini alle persone morenti sono i medici ed i religiosi cappellani degli ospedali, oppure gli assistenti sociali o paramedici, dove sono disponibili. Mi sembra che, oggigiorno, queste siano le figure cui viene demandato il compito di assumersi questa responsabilità.

Non esistono dubbi che ciò è ancora lontano dall'avvenire o non si pratica certo in modo soddisfacente. In un eccellente articolo apparso recentemente sul New Yorker, intitolato: "Parole Morenti" il dottor Jerome Groopman spiega che è sempre stata prassi che i medici non rivelassero ai loro pazienti che stavano per morire. Il medico, un oncologo, scrive riferendosi al cancro, che credo sia simile all'AIDS nei suoi effetti psicologici ed emotivi sul paziente; ambedue le malattie hanno un decorso lento e portano generalmente ad una morte dolorosa. Groopman scrive che negli Stati Uniti:" Più del 40% degli oncologi non comunica la prognosi al paziente, se non la chiede o se la famiglia desidera che non gli venga comunicata. Una percentuale simile di medici, solo su richiesta, si esprime con eufemismi girando intorno alla verità." In Europa, secondo l'oncologo, la situazione è la stessa, se non peggiore.

Groopman si dichiara favorevole e giudica utile il recupero di certe forme di assistenza tradizionale che possiamo ricondurre all' "Arte di Morire "; usanze che aiutano la gente ad affrontare l'aldilà, coltivate in circoli religiosi medioevali con l'intento di raggiungere la cosiddetta "Buona Morte". Queste pratiche preparavano i moribondi ad accettare l'inevitabilità della propria morte con maturità psicologica e spirituale, essendo utili inoltre ai religiosi che dovevano preparare i loro fedeli al regno dei cieli. Groopman suggerisce che anche i medici di oggi imparino che, sebbene il loro compito consista nel prolungare la vita, non possono conquistare la morte. A suo giudizio devono, in primo luogo, saper riconoscere quando un paziente è terminale ed in procinto di morire e comprendere che ciò non riflette una manchevolezza da parte loro; devono, in secondo luogo, imparare ad informare gentilmente, ma in modo veritiero il paziente e la sua famiglia, quando si trova vicino a lui.

Chiunque sia impegnato in una professione legata all'assistenza dei malati deve sapere, come dicono Joseph e Laurie Braga che:" La morte non è un nemico da battere o una prigione da cui scappare, bensì quella parte integrante della nostra vita che dà un senso all'esistenza. Pone un limite al nostro tempo in questa vita, spingendoci a fare qualcosa di produttivo con quel tempo, dal momento che ci spetta e va usato." (vedi E. Kubler-Ross, Morte: la fase finale della crescita, New York 1975). Anche un malato di AIDS può fare qualcosa di costruttivo nel tempo che gli rimane da sfruttare, come dimostrano diverse vittime di questa malattia che nei loro ultimi giorni hanno fatto uno sforzo per educare la società, specialmente i giovani, sui sistemi di prevenzione della diffusione del virus.

La cosa più difficile è trovare il modo di rompere il diaframma comunicativo ed aprirsi al paziente terminale; forse la barriera più insormontabile sta proprio dalla parte di medici e sacerdoti, piuttosto che da quella del malato. Anche su questo aspetto i Braga danno una mano a capire: la questione che dobbiamo comprendere in ogni caso, prima di rompere gli indugi e parlare al malato è come esprimersi con una persona cui si vuol bene e che sta morendo. Come trovare le parole e l'approccio giusto. Affrontato in questa maniera il problema diventa più facile da risolvere e gli effetti probabilmente meno devastanti di quanto inizialmente si possa immaginare.