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Malawi

Educare la gente per salvare la natura

Fra ambiente ed economia c’è sempre stata battaglia, con il primo che il più delle volte ha avuto la peggio di fronte all’irrefrenabile sviluppo economico. Ma, ci sono per fortuna anche progetti, come il Parco Nazionale del Lago Malawi e la Riserva Naturale di Mlambe, che dimostrano come la salvaguardia ambientale possa essere vantaggiosa: basta istruire le persone.
Brian Likomeka

Due importanti iniziative, sebbene localizzate in parti diverse del Malawi e create in condizioni del tutto diverse, hanno diversi punti in comune. Ambedue rappresentano esempi molto positivi e interessanti di come l’ambiente naturale possa essere salvato, dopo essere stato saccheggiato dall’uomo. Sia l’uno che l’altro dimostrano, inoltre, che l’attività economica e la salvaguardia ambientale possono effettivamente andare di pari passo, senza scontrarsi, come purtroppo accade di solito.

All’interno dei confini del Parco Nazionale del Lago Malawi, che si trova nel sud del paese, ci sono sette villaggi enclave, di cui uno si chiama Chembe. Oltre vent’anni fa i pescatori di questa località, a quei tempi il più grosso villaggio dedito alla pesca di tutto il Paese, si lasciarono andare alla cattura indiscriminata di centinaia di migliaia di pesci, all’altezza di Cape Maclear, vicino a Mangochi. Non sapevano che la loro azione sconsiderata minacciava gravemente alcune fra le specie ittiche più rare e remunerative del mondo che si trovano solo nel lago Malawi.

Il governo si allarmò per il preoccupante livello di sfruttamento che stava per portare all’estinzione di un pesce della famiglia dei ciclidi, una specie rara chiamata localmente mbuna, caratterizzata da sgargianti colori e dall’habitat esclusivo nei fondali rocciosi del lago. Nel 1980 venne quindi creata un’area protetta, denominata Parco Nazionale del Lago Malawi, che consiste in circa 90 chilometri quadrati di territorio intorno alla penisola di Cape Maclear e di una porzione di lago che si estende fino a 100 metri dalla riva. L’istituzione del Parco non costituiva certo di per sé una garanzia che la flora e la fauna dell’area protetta rimanessero veramente immuni dall’interferenza degli abitanti della zona. Il problema sostanziale rimaneva quello di proteggere la fauna selvatica, ittica e non, da circa ventimila persone che risiedevano in sette villaggi situati all'interno dei confini del Parco .

Per i gestori del Parco la difficile sfida consisteva nel trovare il modo di far coesistere gli abitanti dei villaggi con la fauna ittica del lago. Sta di fatto che coloro che abitavano nel Parco, la maggioranza dei quali per la propria sussistenza dipendeva da sempre dalla pesca, si vennero a trovare ai ferri corti con guardie e funzionari governativi. Fu solo quando il governo, con l’aiuto di organizzazioni non governative, mise in atto un quadro progettuale costituito, fra l’altro, da programmi di educazione civica di grande impatto, che le cose cominciarono ad andare meglio. Organizzazioni e istituzioni come “Sviluppo della Piccola Impresa del Malawi” (SEDOM) e la Banca Mondiale si impegnarono a far capire alla gente come avrebbero potuto sfruttare al meglio le risorse naturali della zona, diversificando, contemporaneamente, la loro attività generatrice di reddito.

Anguye Chembe, capo del gruppo di villaggi di Cape Maclear, ci ha riferito che, a poco a poco, la gente ha cominciato a sensibilizzarsi alle campagne di educazione ambientale, fino al punto che oggi si può dire che tutti i componenti dei villaggi siano pienamente consapevoli dell’importanza scientifica ed economica della difesa delle risorse naturali della zona, specialmente del “loro” pesce, lo mbuna. Il capo racconta di essere rimasto molto contrariato quando, a suo tempo, venne a sapere che il governo intendeva stabilire una riserva naturale nella sua area. Prima di tutto perché rischiava di perdere l’autorità di comando, in secondo luogo perché si immaginava di essere trasferito, insieme alla sua gente, lasciando la sua terra e suoi pesci. Ma, soddisfatto, conclude che, fortunatamente, le cose sono andate, in positivo, ben diversamente.

La SEDOM ha iniziato i suoi programmi nel ’99 e li ha gestiti su base annuale, beneficiando, con i suoi interventi tipo, circa 500 persone alla volta. Ha offerto corsi nell’ambito della micro imprenditoria, distribuendo al contempo piccoli prestiti all’avvio di attività produttive della popolazione dei villaggi. In alternativa alla pesca la gente è stata indotta a impegnarsi in altre attività generatrici di reddito, come l’allevamento di conigli e faraone, la coltivazione di verdura ed alberi esotici.

Queste attività sono ormai diffusamente svolte, sia a livello individuale, che di gruppi conosciuti come Comitati per la Gestione delle Risorse Naturali di Villaggio. Oltre a tutto questo è comunque consentito ai pescatori svolgere la loro attività, al di là della zona di rispetto, a 100 metri dalla costa. Chiunque osi cacciare o pescare di frodo nell’area protetta viene arrestato da guardiani volontari dei villaggi ed in seguito condannato dai capi tradizionali, se la trasgressione non è particolarmente rilevante. I capi, viceversa, denunciano coloro che commettono reati più gravi alla polizia o ai guardia-parco.

George Banda, funzionario addetto all’educazione ambientale del Parco, afferma che il successo del progetto dimostra in maniera esemplare che essere umani e fauna selvatica possano coesistere e rimanere in soddisfacente equilibrio. A suo modo di vedere la validità di questo progetto risiede anche nel fatto che dimostra chiaramente e praticamente che la protezione e la conservazione della fauna non comportano necessariamente l’allontanamento con la forza della popolazione residente. Anche se occorre ricordare che mentre i pescatori di Chembe davano fondo alle riserve ittiche del lago, gli abitanti dei villaggi che ora fanno parte del progetto di Gestione delle Risorse Naturali di Mlambe, situato nella parte orientale del distretto di Mwanza, nel Malawi meridionale, stavano rapidamente radendo al suolo le foreste originarie che circondavano i loro insediamenti.

Negli anni ’70 la vallata di Shire, che comprende i villaggi di Chikwekwe, Gobede, George, Kam’mwamba e Manyenje, era ampiamente forestata, soprattutto perché il Distretto di Mwanza, nel suo complesso, era scarsamente popolato, poco sviluppato e dotato di poche strade. Un insieme di cose che rendeva le foreste intatte e quasi inaccessibili. Ma, a metà degli anni ’80 la situazione ha iniziato a modificarsi; in seguito alla costruzione di una certa rete stradale la gente ha cominciato a penetrare nella zona per insediarvisi. La popolazione dei cinque villaggi, che era rimasta ferma sulle 1.500 persone fino al ’74 è salita vertiginosamente fino a raggiungere le 4.000 nel ’98. Già nel ’95 solo 3.165 ettari dei 6.154 complessivi di tutta la regione erano rimasti coperti dalla foresta.

I nuovi venuti avevano tagliato le foreste per creare spazi arabili e coltivabili. Grazie alla vicinanza ed alla facilità d’accesso a città come Blantyre e ad altri centri commerciali era praticamente scoppiata da un giorno all’altro la richiesta di carbone da legna e legna da ardere. In queste circostanze, la regione, che prima era coperta da fitte foreste, cominciò a soffrire di un processo di deforestazione che si andava incrementando dell’1,6%, vale a dire al ritmo di 400 ettari di foresta perduti ogni anno.

Nel tentativo di arrestare questo processo, la Wildlife Society del Malawi (WSM), con il sostegno dell’Unità di Coordinamento Tecnico Forestale della Comunità per lo Sviluppo dell’Africa Meridionale (SADC), ha recentemente avviato un progetto del valore di 220.000 dollari, denominato “Gestione della Risorsa Naturale di Mlambe”, finanziato dalla Cooperazione Tecnica Tedesca ( GTZ ). Questa iniziativa mira a controllare e ridurre la deforestazione della zona, integrare le donne e i gruppi marginali nella gestione sostenibile delle risorse naturali e introdurre, infine, strategie per la coltivazione di produzioni forestali non arboree.

Rankin Mwamadi, funzionario del Programma Forestale della WSM, riferisce che il personale del progetto ha messo in atto delle campagne per educare le comunità locali alla consapevolezza dei pericoli della deforestazione. Iniziative pubbliche che ricorrono a rappresentazioni teatrali, dibattiti comunitari, utilizzando anche i media locali per diffondere il più possibile i messaggi della campagna. Mwamadi riconosce che la popolazione ha risposto inizialmente con riluttanza alle loro iniziative, ma il team di progetto ha insistito, lavorando sodo per convincere un target sensibile, i capi tradizionali. Conquistati questi, la gente ha cambiato atteggiamento, cominciando a rendersi conto dei benefici che poteva trarre da un utilizzo produttivo dell’ambiente, senza impoverire le risorse naturali disponibili.

Sempre secondo questo funzionario della WSM, la conservazione delle foreste non può avere luogo se la gente che vive nella zona non può in qualche modo trarre beneficio dalle “sue” risorse forestali. Tenendo conto di ciò, il progetto, per assicurarsi che le comunità siano in grado di sostentarsi con le risorse naturali della zona, difendendo al contempo l’esistenza delle foreste, ha facilitato la formazione di gruppi per la gestione, l’utilizzo e la commercializzazione di prodotti forestali diversi dal legname.

L’allevamento di faraone è diventata l’attività di maggior successo fra quelle introdotte dal progetto per impedire che la popolazione fosse troppo dipendente dal commercio del legname delle foreste. Si e’ insegnato alle comunità come addomesticarle, in quanto si tratta di uccelli selvatici. Dopo la fase d’addestramento, le comunità hanno costituito una quarantina di gruppi ai quali sono state consegnate più di mille faraone ed oggi molti membri della comunità stanno già allevando i loro propri animali, nati dal lotto di partenza. Emily N’gomba, un’allevatrice, spiega che questo tipo di allevamento si è dimostrato un’eccellente attività generatrice di reddito, vantando il fatto che con una faraona si guadagnano per lo meno quattro dollari e mezzo, il doppio di quello che si prende vendendo un sacco da 50 chili di carbone da legna.

L’apicoltura è un’altra attività generatrice di reddito, praticata da sempre nella regione. In questo contesto il progetto ha introdotto alcuni miglioramenti tecnologici ed un certo affinamento dei metodi tradizionali. Per la costruzione degli alveari si usava, per esempio, la corteccia d’albero, lasciando questi ultimi spelati a seccare e morire; la tecnologia moderna ha introdotto alveari assemblati con legno di alberi esotici a rapida crescita, permettendo il risparmio delle pregiate essenze forestali indigene.

A tutt’oggi sono stati creati ben 24 gruppi di apicoltura con 82 alveari, la maggior parte dei quali già colonizzati dalle api e in produzione. Gli agricoltori li sfruttano economicamente raccogliendo il miele e vendendolo. Il progetto, oltre all’introduzione dell’allevamento della faraona e dell’apicoltura migliorata, ha anche individuato e messo a disposizione degli agricoltori un adeguato mercato di sbocco per grandi quantità di frutta selvatica prodotta nella zona. Al centro commerciale situato presso la sede del progetto vengono posti in vendita frutti indigeni, come quello del baobab e il tamarindo. Ma, il progetto prevede anche l’acquisto della frutta e la relativa trasformazione in succhi, addestrando alcuni membri della comunità in questa lavorazione.

A cura del progetto vengono anche prodotti vari tipi di marmellate, utilizzando frutta prodotta nella zona, come limoni, arance, mandarini, ibisco e altre varietà locali. Le donne della comunità sono state preparate a svolgere questa attività ed ora sono completamente autonome nel gestire la produzione che ormai gira a pieno regime.

Philip Liwonde, dell’Area Forestale di Kamwamba, afferma che è praticamente da gente in schiavitù ridursi ad andare in boscaglia per produrre carbone da legna. Gli alberi vanno abbattuti e fatti bruciare per tre giorni e tre notti, per produrre dieci sacchi di carbone, venduti, se va bene, a due dollari e mezzo, quando si possono facilmente guadagnare trenta dollari vendendo frutta, che si trova dappertutto nella foresta.

La presenza del progetto ha praticamente già fermato quasi del tutto lo sfruttamento della foresta per produrre e commerciare carbone e legna da ardere. Possiamo senz’altro affermare che il progetto di Mlambe costituisce un brillante esempio di compatibilità possibile e praticabile fra una rapida crescita della popolazione e una gestione sostenibile dell’ambiente.