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Sudan

Sudan ingordo con l’acqua del Nilo

La costruzione della diga di Merowe, nel Sudan settentrionale, che si prevede abbia inizio nei prossimi mesi, sta facendo riaffiorare lo scontento dei paesi attraversati dal Nilo per l’utilizzo sperequato delle sue acque. Si tratta di uno stato di cose causato anche da un trattato imposto nel 1959 dagli inglesi e che non è più attuale.
Matthias Muindi

Nonostante fra i nove paesi che condividono l’immenso bacino del Nilo continui a crescere l’insoddisfazione per lo sfruttamento scorretto e diseguale di questa sua preziosissima risorsa idrica, il Sudan ha fatto sapere che andrà avanti con la costruzione di una gigantesca diga per la produzione di energia idroelettrica nel nord del paese. Questa è stata una delle questioni che il governo di Khartoum ha affrontato durante una riunione che si è tenuta inennaio al Cairo per discutere il problema dell’utilizzo delle acque del Nilo. L’incontro, organizzato sotto gli auspici della Nile Basin Initiative (Iniziativa per il Bacino del Nilo), un raggruppamento regionale composto da organizzazioni internazionali e nove paesi africani che condividono il bacino del fiume, ha visto radunarsi solo i rappresentanti di Egitto, Sudan ed Etiopia. Non è dato di sapere come mai gli altri Stati non si siano presentati al Cairo, anche se non esistono dubbi che sono proprio questi tre paesi a detenere il maggior interesse per queste acque. Sudan ed Egitto, addirittura, dipendono letteralmente dal fiume, mentre l’Etiopia, attraverso l’affluente Nilo Blu contribuisce al grosso della sua portata.

Il progetto di Merowe rappresenta l’ultimo di una serie di investimenti e progetti compiuti dal Sudan sul Nilo negli ultimi tempi, di un’opera che ha tutta l’aria di non andare affatto a genio ad alcuni paesi che condividono il bacino fluviale. Ma, che per un paese che ha visto l’imponente afflusso d’investimenti stranieri abbattere in tre anni l’inflazione dal 200 al 5%, può valer la pena anteporre ad una possibile guerra per le risorse idriche coi paesi vicini.

A giugno dell’anno scorso, Jalal Yousif al-Dagir, il Ministro sudanese dell’Industria e degli Investimenti ha annunciato che s’intendeva investire in nuove piantagioni di canna da zucchero sulla riva orientale del Nilo Bianco per produrre 300.000 tonnellate di zucchero all’anno. 325 milioni di dollari freschi dal Kuwait che si sarebbero aggiunti al capitale della più grossa società produttrice di canna del paese, la Kenana Sugar, che già sforna 700.000 tonnellate di zucchero all’anno. Negli ultimi tempi la società ha registrato una crescita di ben il 15% l’anno e…, guarda caso, è dipendente al 100% dal Nilo!

Sempre l’anno scorso, altro annuncio a novembre, quando Khartoum ha dichiarato che stava facendo i preparativi per portare, entro aprile di quest’anno, l’area del paese coltivata a frumento da 300 a 500.000 acri. Secondo il Direttore Nazionale dell’Irrigazione, Ahmed el Badawi, tutte le attrezzature agricole erano pronte per un’operazione del genere, nelle regioni cerealicole di Shalamliyya, Nahr el Neel e Gezira. Nello stesso periodo alcuni finanzieri del mondo arabo avevano firmato accordi col Ministro sudanese delle Finanze, Ahmed Hassan al-Zubeir, per la prima fase della diga di Merowe, da localizzarsi sulla quarta cataratta del Nilo.

Altri finanziamenti dovrebbero aggiungersi entro la fine dell’anno, ma è già stato siglato l’accordo per un prestito di 100 milioni di dollari del Kuwait Fund for Economic Development e per un dono di 150 dell’Arab Fund for Social and Economic Development degli Emirati. Accordi del genere, sempre finalizzati alla costruzione della diga, avrebbero dovuto essere firmati entro la fine dell’anno scorso per un importo a dono di altri 150 milioni di dollari ciascuno da parte del Saudi Fund for Economic Development e dell’Abu Dhabi Fund for Development ,

Nel complesso, si stima che i Fondi Arabi si impegneranno a contribuire circa 780 dei 2000 milioni di dollari di costo complessivo della diga, così come reso noto dal Ministro sudanese dell’Irrigazione e delle Risorse Idriche Kamal Ali Mohammed. Sulla base di un accordo siglato ad agosto dell’anno scorso fra il Presidente sudanese Bashir ed il Primo Ministro malaysiano Mahatir, ci si aspetta che anche la Malaysia, che ha investito molto nell’industria petrolifera sudanese, partecipi all’investimento, con una somma che però non è stata ancora rivelata

Secondo Khartoum, i fondi ancora mancanti all’appello ( 1 miliardo e 220 milioni di dollari) saranno in parte resi disponibili dal governo e in parte reperiti presso le istituzioni finanziarie internazionali. A Londra e Khartoum hanno già cominciato a girare le gare per la prima fase che riguarda la costruzione del corpo in cemento armato della diga che dovrebbe generare, da sola, 1.250 dei 3.000 megawatt di fabbisogno nazionale. La nuova grande centrale dovrebbe, una volta per tutte, mettere fine alla cronica mancanza di energia di cui il paese ha sempre sofferto e a cui gli impianti idroelettrici di El-Rosieres e Sennar non hanno mai potuto sopperire.

Rosieres, l’impianto idroelettrico più potente del Sudan, si trova a 500 kilometri a sudest di Khartoum, sul Nilo Blu ed ha una capacità di generazione che arriva al massimo a 250 megawatt. Sennar, il secondo impianto in ordine d’importanza, si trova più a valle sullo stesso fiume mentre l’ancora più modesto Khashm al Qirbah si trova sul fiume Atbara e copre i bisogni della piccola area di Gedarif e Kassala, nel Sudan orientale.

Sennar e Rosieres, costruiti nel 1925 e 1966 rispettivamente, non sono certo molto efficienti, in quanto frutto di una trasformazione da sbarramenti per irrigazione in impianti di generazione idroelettrica. Nascono, infatti, da dighe costruite per far arrivare l’acqua a giganteschi comprensori agricoli sviluppati in quegli anni nel Sudan centrale, specialmente a Gesira. La forte domanda d’energia degli anni ’60 e ’70 ne ha suggerito l’adattamento tecnico con l’inserimento di impianti di generazione di energia in strutture che non erano nate per questo. L’uso promiscuo di questi impianti di sbarramento e l’inefficiente coordinamento fra le autorità demandate all’irrigazione e alla generazione sono da considerarsi la causa principale dei cronici black-outs che da sempre affliggono il paese. Ciascuno di questi dipartimenti governativi sembra preoccuparsi solo del proprio servizio, cercando di accaparrarsi tutta l’acqua disponibile per i propri scopi istituzionali.

Delle tre dighe che il Ministro dell’Energia e delle Miniere Awadh Al-Jaz ha approvato nell’aprile del ‘98, la diga di Merowe dovrebbe essere la seconda ad essere costruita. L’altra, quella di Kajbar, sulla seconda cataratta, è in costruzione dalla fine del ’98. La finanziano i governi di Sudan e Cina ed una volta terminata dovrebbe mettere in rete altri 300 megawatts. La Cina, che finanzia il 75 % dell’opera, ci ha speso finora già 200 milioni di US$.

Gli analisti fanno notare che in passato l’unica area importante del paese a godere di disponibilità di energia elettrica ad uso domestico è stata la regione centrale lungo il Nilo Blu, fra le città di Khartoum e Damazin vicino al confine etiopico. Negli ultimi dieci anni questa regione ha consumato quasi il 90% di tutta l’energia disponibile in Sudan e ciò va correlato al fatto che questa regione è servita dall’unico importante sistema interconnesso di generazione e distribuzione, la Rete del Nilo Blu. Questa rete ha fornito e tuttora fornisce energia sia alle città che ai progetti di irrigazione presenti nell’area.

Un sistema più piccolo serve un’altra regione ad est, verso il confine etiopico, mentre la Rete Occidentale serve alcune aree di quella zona; tutto il resto dei centri urbani riceve energia da generatori diesel municipali che hanno visto un significativo sviluppo da quando il paese è diventato produttore ed esportatore di petrolio di medio livello. Dei 220.000 barili prodotti giornalmente, dai 60 ai 70.000 vengono utilizzati nel paese per far fronte al consumo interno. La difficile situazione del settore elettrico sudanese potrebbe cambiare presto anche per un altro motivo. L’anno scorso il governo ha dichiarato il suo interesse ad aprire il settore elettrico statale agli investitori privati, stranieri compresi. Già nel settembre del ‘99 il governo ha promulgato un disegno di legge che permette ad investitori locali e stranieri di entrare nel settore della generazione e distribuzione d’energia. Sulla base di questa legge agli investitori interessati viene consentito di costruire centrali ed usare la rete di distribuzione nazionale, che comunque dovrebbe rimanere sotto controllo statale.

Ma, se, come pare, Khartoum è determinata a risolvere la sua crisi energetica ed aumentare l’area irrigata del paese, non ci sono dubbi che andrà a scontrarsi con gli interessi di altri paesi del bacino del Nilo, già fin d’ora insoddisfatti dell’Accordo sulle Acque del Nilo del 1959, che, appunto, disciplina l’uso e l’utilizzo del grande fiume. Negli ultimi mesi alcuni di questi paesi hanno chiesto a gran voce una revisione del trattato, adducendo il fatto che, semplicemente, è ben lontano dall’essere equo.

Quando, nel ’59, sotto gli inglesi, questo trattato è stato rielaborato sulla base di una precedente versione del 1929, solo Egitto, Sudan ed Etiopia erano paesi indipendenti della regione. Stranamente l’Etiopia, il cui Nilo Blu è un affluente che porta ben il 60% delle acque del Nilo, non venne inclusa fra i beneficiari del trattato, che assegnava all’Egitto l’82% dei 3,1 miliardi di litri al secondo portati dal fiume lungo 6695 chilometri, mentre il Sudan si prendeva il resto. Sin da allora tutti gli altri paesi della Valle del Nilo hanno potuto godere di quantità estremamente limitate dell’acqua del fiume, in quanto non possono alterare i volumi assegnati dal singolare trattato ad Egitto e Sudan. I paesi danneggiati dal trattato sono molti, ed esattamente: Kenya, Uganda, Tanzania, Etiopia, Burundi, Ruanda e la Repubblica Democratica del Congo. Alla Conferenza del Cairo, l’Eritrea, che non compare nell’elenco, ed è marginale alla Valle del Nilo, é stata invitata come semplice osservatrice.

Ancora il risentimento non ha raggiunto livelli allarmanti, ma alcuni paesi, come Etiopia, Kenya, Uganda, Burundi e Tanzania sono fermamente intenzionati ad affermare che è venuto il momento di rivedere lo status legale del trattato. Il rappresentante del Burundi presso la Nile Basin Initiative, Manasse Nduwayo, afferma che, per esempio, una gestione corretta ed equa delle acque del Nilo dovrebbe andare a beneficio di tutte le popolazioni del suo bacino. Per i paesi della regione dei Grandi Laghi, come Ruanda, Congo, Burundi ed Uganda, l’importanza di queste acque non è rivolta allo sviluppo agricolo, bensì alla generazione d’energia. Ma, per paesi come Etiopia e Kenya, viceversa, il valore di queste acque concerne sicuramente l’irrigazione. L’Etiopia, la cui popolazione cresce rapidissimamente e si stima abbia raggiunto i 65 milioni, ha un bisogno disperato di produrre più cibo, rafforzando la sua agricoltura. E per fare questo ha un impellente bisogno di acqua.

La Nile Basin Initiative, fondata a Dar es Salaam nel ‘99, si propone di attenuare la povertà nel bacino del Nilo tramite efficaci interventi nella gestione delle acque, la promozione commerciale e la generazione di energia elettrica. Purtroppo, risultati tangibili ancora non se ne vedono, tranne, se vogliamo, l’aver fatto convergere in passato ad una riunione diverse Agenzie e finanziatori di alto profilo, come la World Bank, UNDP (United Nation Development Programme) e la CIDA (Canadian International Development Agency ). Si è trattato di un convegno, tenutosi a Zurigo lo scorso giugno, in occasione del quale i donatori hanno promesso 140 milioni di dollari per la prima fase del progetto della Nile Basin Iniziative, che complessivamente dovrebbe costare la bellezza di 3 miliardi di dollari! Ma, ci vorrà ben altro, non solo denaro, per assicurare pace e prosperità nel bacino del grande fiume.