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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

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Perché esistono conflitti dimenticati?

a cura di Giampiero Giacomello

La ricerca sui “conflitti dimenticati” ha avuto un carattere prevalentemente esplorativo. Lo studio si è sviluppato partendo da tre domande fondamentali:
- in quali paesi sono attualmente attivi conflitti armati?
- tali conflitti sono dimenticati in Italia?
- per quali ragioni sono dimenticati?

La prima domanda, ovviamente, non si pone tanto l’obiettivo di accertare l’esistenza o no di conflitti armati in corso, quanto di fornire un quadro generale della diffusione geografica di tali conflitti e della loro intensità/severità.
La terza domanda è stata accennata per la sua importanza prioritaria: tra gli scopi principali della ricerca, infatti, c’ è di comprendere i motivi per cui alcuni conflitti sono dimenticati, mentre altri non lo sono. Esistono motivi pratici e ragioni normative (spesso sovrapposti): sul versante normativo e della sensibilità politica, è necessario capire quali fattori determinino l’attenzione e l’interesse delle moderne democrazie del mondo industrializzato rispetto ai fenomeni in questione. Sul versante pratico, occorre considerare che l’attenzione dell’opinione pubblica nei paesi avanzati è cruciale per determinare – per esempio - l’invio di caschi blu o di aiuti umanitari in aree di crisi, un certo impegno nella ricostruzione e nellepolitiche di sviluppo, l’accoglienza dei profughi, l’apertura di linee di credito agevolate. In altre parole, l’attenzione dell’opinione pubblica nelle democrazie occidentali ha importantissime conseguenze per la risoluzione pacifica dei conflitti in corso e per l’attenuazione delle sofferenze subite dalle popolazioni locali. Oltre a ciò, l’analisi delle cause può identificare alcune fonti del conflitto che, se opportunamente prese in considerazione, potrebbero consentire di prevenire, o quantomeno limitare, l’insorgere di nuove situazioni conflittuali.
Quanto alla seconda domanda, essa rappresenta il punto centrale della ricerca. Prima infatti di capire perché ci siano conflitti dimenticati in Italia, è necessario stabilire se e come tali conflitti sono stati “dimenticati”. Per soddisfare questo interrogativo, si è deciso di ricorrere a una ricerca sul campo, prendendo come riferimento sette situazioni di conflitto internazionale, selezionate secondo una serie di criteri di tipo teorico-pratico. La decisione di selezionare un numero ridotto di situazioni di conflitto armato non è stata presa solamente per ragioni di “economia della ricerca”, ma soprattutto allo scopo di concentrare meglio l’attenzione sulla variabilità introdotta da un numero ridotto di casi.

Alcuni possibili fattori esplicativi
Più che giungere a stabilire connessioni di causa-effetto, l’obiettivo principale dell’indagine è produrre una batteria di possibili ipotesi esplicative, senza stabilire necessariamente tra queste e la variabili dipendente (il grado di dimenticanza dei conflitti), una correlazione di tipo matematico-statistico.
I fattori esplicativi considerati, che potrebbero spiegare il perché certi conflitti e non altri sono dimenticati, sono i seguenti:
(a) posizione geografica del paese in condizioni di conflitto: più lontano dall’Italia è il paese in questione, più l’opinione pubblica è disinteressata;
(b) severità del conflitto (numero di vittime, uso di armi “inumane”, trattamento dei civili, ecc.): più il conflitto è brutale, più attenzione suscita nell’opinione pubblica;
(c) durata: più il conflitto si prolunga, maggiore è la probabilità che venga dimenticato dall’opinione pubblica;
(d) rapporti culturali e storici (presenza di legami culturali tradizionali, di immigrati italiani, di operatori della cooperazione, missionari e soldati italiani): più legami culturali e storici esistono tra l’Italia e il paese in questione (per esempio, se il paese è una ex-colonia italiana), più elevata è l’attenzione;
(e) rapporti economici particolarmente rilevanti tra l’Italia e il paese in questione: maggiore è il livello della presenza finanziaria e commerciale dell’Italia nel paese in conflitto, maggiore è l’attenzione dell’opinione pubblica;
(f) intervento militare internazionale, ovvero attivazione nel conflitto di attori esterni (inclusa l’eventuale partecipazione di soldati italiani): se la Nato, l’Unione Europea o l’Onu si attivano per intervenire, l’interesse dell’opinione pubblica cresce (ancor più se il governo italiano decide di prendere parte attiva alle missioni di peacekeeping o peacemaking).
Chiaramente tali fattori sono correlati tra loro e gli effetti di alcuni di essi possono annullare gli effetti di altri.

Come cambia la natura dei moderni conflitti
Vi sono due aspetti del processo di evoluzione e cambiamento a livello internazionale, e questi aspetti tendono a rafforzare reciprocamente gli effetti sulla percezione che tutte le società, in modo particolare quelle democratiche, hanno dei moderni conflitti. Da un lato, seppur con diverse modalità, le moderne democrazie si sono “demilitarizzate”. L’esperienza bellica o militare appartiene ormai solamente a una minoranza di cittadini, che volontariamente scelgono di intraprendere “il mestiere delle armi”. In aggiunta a questa minoranza, vi è un altro gruppo di persone (certamente minoritario dal punto di vista numerico), che svolge attività di lavoro o di volontariato in zone ad alto rischio bellico. Il resto della pubblica opinione ha de facto rifiutato qualsiasi modello di vita e relazioni sociali che implichi una partecipazione più o meno diretta a eventi bellici o la permanenza in aree geografiche in cui la propria sicurezza personale possa essere a rischio.
Lo scoppio di ostilità in qualche zona del mondo viene seguito in maniera remota tramite schermi tv (la Cnn ha una posizione leader al riguardo), oppure, retrospettivamente, al cinema. La guerra è dunque vissuta solo “virtualmente”. L’esperienza personale diretta è (fortunatamente) quasi inesistente.
Le democrazie avanzate, come ha notato Edward Luttwak, sono dunque diventate risk-adverse; i cittadini-contribuenti ed elettori non vogliono rischiare le loro vite (né tantomeno quelle dei propri figli e figlie) in conflitti remoti che hanno solo una vaga e lontana rilevanza per la sicurezza e il benessere loro e del loro stato.
Il secondo processo di trasformazione che ha considerevoli conseguenze per ricerche sul tema dei conflitti è la loro nuova natura: ci si imbatte, in altre parole, in quelle che Mary Kaldor chiama “le nuove guerre”. Le guerre “tradizionali” tra stati sovrani che si scontrano a livello internazionale sono diventate, dopo la fine della Guerra fredda, l’eccezione piuttosto che la regola. Un numero sempre crescente di conflitti armati viene classificato come guerre civili o interne, o ancora considerato come azioni di polizia o conflitti “striscianti”. In tali circostanze, distinguere tra combattenti e non-combattenti e tra aggressori e aggrediti diventa sempre più complesso. La pluralità delle fonti di informazione garantisce che le opinioni più diverse o controverse trovino qualche forma di sostegno o legittimazione. Il conflitto arabo-israeliano è un esempio eclatante di questo fenomeno.

Allegati

  • Leggi il capitolo 2 della ricerca "I conflitti dimenticati" (Feltrinelli 2003)
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