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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

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Jean-Léonard Touadi

Geopolitica del cinismo

"Mosaico di pace" ottobre 2004



L’Africa subsahariana ha iniziato alla fine degli anni ’80 un’epocale fase di ristrutturazione politica interna. Il sogno di libertà, portato dal vento dell’indipendenza, si è tramutato nei decenni 1960-1990 in un incubo per i popoli. L’indipendenza è stata confiscata da una élite poco preparata e soprattutto formata alla scuola coloniale e, quindi, incapace d’inventare istituzioni nuove e modalità originali di gestione della “res pubblica”. Gli Stati africani, nati dall’arbitrio del tracciato imperialista europeo uscito dalla Conferenza di Berlino (1884-85), erano entità artificiali che non tenevano minimamente conto delle continuità storiche e delle compatibilità antropologiche esistenti tra i popoli che li componevano. Né l’indipendenza è stata il momento fondatore di una volonté générale tra le varie etnie o gruppi sociali per negoziare un patto nazionale, cercando e identificando le nuove ragioni dello stare insieme dentro confini tracciati da altri.

Lotta per il potere
I principi ispiratori della nascita dell’Organizzazione dell’Unità Africana (1963) contribuirono ulteriormente, con la dichiarazione dell’“intangibilità delle frontiere ereditate dalla colonizzazione”, a congelare lo status quo coloniale senza porre le basi politiche di una convivenza pacifica tra le etnie. In assenza di un progetto nazionale credibile, la gestione del potere all’interno degli Stati africani ha assunto i contorni drammatici di una lotta mortale per il potere, dove il fattore etnico ha finito per prevalere.
Dal punto di vista delle scelte economiche, la nuova classe dirigente africana si è accontentata del tentativo di realizzare modelli di economia pianificata ispirata ai Paesi del Patto di Varsavia o di accenni di capitalismo liberale, seguendo i principi dell’economia di mercato di stile occidentale. Qualunque sia stato l’indirizzo scelto o subìto, le performance economiche dell’Africa subsahariana sono tra le peggiori della graduatoria stilata annualmente dalle istituzioni economiche internazionali. Nonostante il non-allineamento orgogliosamente proclamato a parole, il Corno d’Africa (Somalia, Eritrea, Etiopia), l’Africa Centrale (Zaire, Congo-Brazzaville, Angola), l’Africa australe e il Golfo di Guinea hanno conosciuto instabilità politica e guerre, frutto avvelenato della guerra fredda.
L’onda lunga del genocidio ruandese (una ferita ancora aperta nella regione dei Grandi Laghi), il tramonto del regime di Mobutu insieme a tutte le connivenze internazionali che lo avevano sostenuto, il tentativo disordinato e naufragato della classe politica congolese di porre le basi di un nuovo patto nazionale basato sui principi di pluralismo e di trasparenza, l’inedita e vigorosa ricomposizione geopolitica che ha visto contrapporsi nella regione interessi francesi e americani e le mire espansionistiche di alcuni vicini del Congo (Ruanda e Uganda) sono gli ingredienti che precedono, senza totalmente spiegarla, la crisi violenta che scuote il Congo.

Una metafora
Il gigante in ginocchio nel cuore dell’Africa rappresenta una metafora della storia recente dell’Africa. Prima di tutto le sue dimensioni (2.345 mila kmq) e la sua posizione geostrategica. Da un lato i Paesi dell’Oceano indiano, dove si sta giocando una partita decisiva che mette in moto le mire neoespansionistiche del mondo islamico, soprattutto delle sue frange più radicali, attraverso il Sudan, l’Etiopia e l’Eritrea, e gli interessi strategici occidentali minacciati dalle convulsioni del Corno d’Africa (l’importanza del controllo del Mar Rosso) e dall’instabilità della penisola arabica. Dall’altro lato, il Congo guarda verso il Golfo di Guinea e le sue riserve petrolifere definite d’interesse geostrategico per gli Stati Uniti che sperano di esportare dalla zone il 25% del proprio fabbisogno petrolifero da qui al 2015 contro l’attuale 16%.
In questo senso, controllare il Congo significa sbarrare la strada all’avanzata dell’integralismo islamico che, a partire dal Sudan, mirava a raggiungere i Paesi al di sotto dell’equatore (era la dottrina Clinton, in larga parte ancora valida oggi) e avere accesso ad alcuni dei territori tra i più ricchi di petrolio come l’Angola e l’enclave di Cabinda (le stime parlano di 2 milioni di barili al giorno nel 2008), il Congo-Brazzaville, la Guinea Equatoriale, il Gabon.
Ma la quantità e diversità delle risorse del suolo e del sottosuolo del Congo stesso (uno scandalo geologico gridavano i coloni alla fine dell’Ottocento!) rappresenta un fattore d’attrazione per le superpotenze occidentali e le medie potenze regionali. Alcune di queste risorse sono strategiche per lo sviluppo delle tecnologie nucleari come l’uranio. Il coltan (colombo-tantalite) è essenziale nella fabbricazione dei componenti elettronici dei telefoni cellulari, dei computer e nelle tecnologie aeronautiche. A questo occorre aggiungere l’intramontabile valore dell’oro, del diamante, del rame, del legname e di tutti gli altri prodotti altamente commerciali presenti in Congo.
Ecco perché, crollato il Muro di Berlino e tramontata l’era del dittatore Mobutu, garante inflessibile degli interessi occidentali nella regione, il Congo è diventato un gigantesco laboratorio insanguinato della “geopolitica del cinismo” dove a contrapporsi non sono più gli interessi ideologici dei due blocchi, bensì corposi interessi economici che alimentano il circuito perverso fatto di vendita di armi, sfruttamento selvaggio delle materie prime e sostegno a gruppi militar-affaristici locali. Un saccheggio sistematico del Congo, su sfondo di violazioni gravi dei diritti umani, documentato da numerosi rapporti ufficiali dell’Onu e chiaramente descritto con nomi, circostanze e connivenze.

Una guerra perfetta
In quest’ottica la guerra del Congo non è “dimenticata” perché questo territorio continua ad alimentare le economie dei Paesi occidentali attraverso le esportazioni insanguinate di prodotti strategici per la “new economy” e per la corsa agli armamenti. Non è una “guerra etnica”. È la perfetta guerra del ventunesimo secolo dove i soldati e le vittime sono locali ma gli interessi geopolitici ed economici in gioco nascono e si consumano altrove. E i governi dei Paesi ricchi, a volte anche l’opinione pubblica, si nascondono dietro l’umanitario per non nominare i genocidi in corso in nome della salvaguardia del modello di vita occidentale. Il silenzio sulla guerra in Congo è voluto e colpevole.
Ecco perché lavorare per la pace in Congo, ancora fragile e costantemente minacciata da rivalità interne e da pesanti ingerenze dei suoi vicini (Ruanda, Uganda e Burundi) significa accogliere alcune delle richieste della Conferenza episcopale congolese che, in un “Memorandum al Segretario generale dell’Onu” chiede: la convocazione di una conferenza internazionale sulla regione dei Grandi Laghi sotto l’egida dell’Onu e dell’Unione Africana; la firma di un “patto di non aggressione” tra gli Stati della zona; una conferenza internazionale degli operatori economici (multinazionali, Paesi del G8) per mettere fine all’“economia di guerra” e annullare i contratti illegali stipulati tra i signori della guerra e multinazionali; il sostegno alla transizione politica in corso nel Paese; l’intensificazione dei processi di pace e riconciliazione attraverso la “Commissione Verità e Riconciliazione” prevista dagli accordi sulla transizione politica.
Ma più nelle mani dei politici e dei loro accordi formali, la pace in Congo è nelle mani del suo popolo, sempre in piedi nonostante le sofferenze di questi anni, e in quelle della sua società civile sorprendente per vitalità e creatività. La piattaforma, che le vittime della guerra scrivono con il sangue e il sudore sulle strade della resistenza e dell’anelito alla pace, merita di essere sostenuta da tutti i costruttori di pace.

articolo tratto da Mosaico logo

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