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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

Carla Bellani

Ma è pace vera?

"Mosaico di pace" settembre 2004

Quasi mezzo secolo di guerre. A fine maggio la firma di un’intesa tra il governo di Khartoum e i ribelli dello Splm/a. Ma intanto nel Darfur…


Durante la visita che con la delegazione della Campagna Sudan realizzammo lo scorso anno nelle zone controllate dal governo di Karthoum incontrammo un anziano catechista che con la consueta saggezza africana disse che la firma degli accordi di pace somiglia tanto a quei tali che “vogliono tenere la mucca per le corna per poterla mungere meglio!” Un giudizio pesante e forse tragicamente realistico…
Gli accordi di pace sono giunti alla fine di maggio dopo un percorso estenuate e travagliato, patrocinati dall’Autorità Regionale IGAD, alla presenza di rappresentanti di Stati Uniti, Inghilterra, Norvegia, Italia, in qualità di osservatori e membri “IGAD Partners Forum”.
Arrivare alla pace in Sudan è stata, dall’11 di settembre in poi, una priorità più volte dichiarata dall’Amministrazione statunitense che ha voluto supportare in modo diretto la trattativa e i contraenti: Osman Taha per il Nord (vice presidente sudanese) e Jhon Garang leader dell’Splm/a per il Sud. Dunque una pax americana, pilotata da iniziative politiche e diplomatiche volte a portare il Sudan fuori dalla rete del terrorismo islamico e allo scopo di esercitare un controllo geopolitico nel Paese e nell’area limitrofa: il tutto in linea con la strategia

La tragedia del Darfur
Nella cittadina di Tawila, nel Darfur del Nord, mi portano a vedere le rovine del centro commerciale completamente bruciato. Poi parlo con una donna terrorizzata e con dei bambini lì attorno, che hanno vissuto le atrocità perpetrate quattro mesi fa. Alcuni fra loro oggi hanno per casa solo un riparo di sterpi. Guardarli, vedere i loro miseri effetti personali, i focolai per cucinare marci di pioggia, significa scrutare nell’abisso dell’inumanità dell’uomo verso i propri simili. Grazie al cielo “Save the children”, l’Ong che opera in questa zona, sta per portare loro coperte, teli di plastica e attrezzi da cucina. C’è anche in corso un’operazione di pronto soccorso medico che sta salvando Dio sa quante vite. Che cosa è successo a Tawila? L’attacco della temibile milizia Janiaweed si è concentrato in un’area di 20 miglia attorno alla città. Circa 34 villaggi sono stati saccheggiati o bruciati, un centinaio di persone uccise, le donne e i bambini violentati e quasi l’intera popolazione costretta a fuggire nella savana. Quanto questo sia da imputare alla pulizia etnica è difficile stabilirlo. Gli esperti del governo sudanese potrebbero dire che è servito solo, insieme agli altri attacchi, a impartire agli abitanti del Darfur una lezione indimenticabile.
In ogni caso, ciò che vedo è orribile. Perché il mondo è stato così lento a reagire? Perché ci è voluto così tanto tempo per salvare questa gente?
Stiamo parlando di un milione di profughi, di cui 700 mila hanno urgentemente bisogno di cibo e soccorso e 150 mila saranno completamente isolati dall’imminente stagione delle piogge. «Abbiamo bisogno di mille volontari in più – mi ha detto una fonte delle Nazioni Unite – ed è già tardi».
Ma arrivare in questa remota parte del mondo è maledettamente difficile.
Mancano del tutto le infrastrutture. Non c’è regola né legge. Le organizzazioni umanitarie hanno incontrato molte difficoltà nell’ottenere i visti per i loro collaboratori, anche se la situazione, dopo pesanti pressioni su Khartum, si è sbloccata. La sicurezza è usata come pretesto per impedire ogni movimento. Ci sono volute quattro ore di mercanteggiamenti per riuscire a entrare a Tawila. Come il segretario dell’Onu Kofi Annan ha recentemente scoperto, il governo è estremamente desideroso di nascondere l’accaduto e le sue tremende conseguenze. La burocrazia governativa qui vive di vita propria e il regno del terrore, stabilito soprattutto per allontanare gli africani dai territori che gli arabi vogliono per sé, ha avuto conseguenze che sono andate persino al di là delle intenzioni: ha portato a una chiusura ermetica, che impedisce ogni tipo di comunicazione.
I darfuriani sono così terrorizzati che non osano abbandonare i campi dove hanno trovato rifugio. Ho visitato un enorme campo vicino a El Fasher dove 30 mila dei 40 mila occupanti sono bambini. Gli uomini cercano lavoro per cercare di tirare avanti. I bambini sono traumatizzati. Le donne sono impaurite.
Molti rifugiati occupano le case altrui e questo porta ulteriore confusione.
È impressionante sentirli parlare dell’incombenza domestica quotidiana più consueta in tutta l’Africa, andare a far legna. «Se mandi gli uomini saranno uccisi. Se mandi le donne o i bambini saranno violentati. Se mandi le vecchie si limiteranno a picchiarle».
(Fonte: Copyright The Daily Telegraph)
di un governo unilaterale del mondo. Il risultato è stato un accordo tra i signori della guerra che si sono spartiti il potere, le risorse, gli eserciti per un periodo ad interim di sei anni che dovrebbe concludersi con un referendum per decidere l’autodeterminazione del Sud: o secessione, o unione al Nord. In questa direzione il nostro anziano amico sudanese forse aveva visto giusto!
Restano forti dubbi sull’effettiva volontà politica delle parti in causa, visto che hanno stipulato una pace guerreggiata. La notizia dell’avvenuto accordo arrivava infatti simultanea a quella dell’acuirsi della crisi nel Darfur (Sudan nord occidentale) dove, dal febbraio 2003, è in atto quella che Kofi Annan ha definito “la più grave crisi umanitaria del momento” e che solo ultimamente è riuscita a bucare i media. Da una parte, il governo di Khartoum trattava con il Sud, dall’altra, sferrava uno dei più crudeli colpi appoggiando i Janjawid, (predoni arabi) nel compiere razzie, distruzioni di villaggi, stupri su donne e altre brutalità sulla popolazione cristiana e musulmana.
Il fronte di liberazione locale (Als e Mje) contrattaccava con decisione mentre sul campo restavano, secondo stime Onu, circa 20.000 morti, oltre un milione di sfollati interni, quasi 130.000 profughi riparati in Cihad.
Ma la trattativa di pace non ha trascurato solo il Darfur. Anche altri focolai presenti nel Paese sono stati completamente ignorati. Un esempio per tutti, il Bahr el Ghazal (Sud Sudan) con gli scontri di Malakal e Rumbek o quelli nella regione orientale dei Beja che vivono una situazione di drammatica dimenticanza. Se a questi disordini aggiungiamo l’insoddisfazione dei Nuba riguardo agli accordi, non è difficile intravedere (secondo alcuni attenti osservatori) il rischio di una saldatura tra questi movimenti e di una conseguente nuova possibile spaccatura tra Nord e Sud, nonostante l’intesa raggiunta sulla carta.
Una trattativa che non includa tutte le parti in lotta e non porti a un effettivo cessate il fuoco in tutto il Paese, non pone buone premesse a una pace “totale”. E perché la pace diventi anche “duratura” occorre che il cessate il fuoco sia adeguatamente monitorato, occorre un controllo permanente dell’effettivo rispetto dei diritti umani e della corretta applicazione degli accordi: garanzie che possono essere messe in campo solo da una decisa e congiunta azione da parte della comunità internazionale.
I temibili Janjaweed
Nella tormentata regione del Darfur, assurta alla cronaca internazionale, i guai sono causati in gran parte dai Janjaweed, conosciuti anche come Janjawid o Jingaweit. Leggendo i dispacci d’agenzia, questi signori, descritti come “uomini a cavallo armati di carabina”, vengono quasi sempre indicati come i responsabili delle nefandezze che tormentano la martoriata regione occidentale del Sudan.
Secondo le informazioni raccolte da varie fonti locali, i Janjaweed sono una milizia filo-governativa sudanese, composta da predoni appartenenti alla famiglia estesa dei Baggara, insediata nel Sudan Occidentale e nel Ciad Orientale. Il sostantivo Baggara comprende in effetti vari gruppi etnici semi-nomadi quali ad esempio gli Humr/Messiria, i Rizaygat, i Shuwia, i Hawazma, i Ta’isha, e i Habbaniya. Il termine Janjaweed, dal punto di vista etimologico pare legato alla parola ‘jawad’ (‘cavallo’) ed è la versione moderna di ‘Murahilin’ che letteralmente significa ‘coloro che sono in movimento’, ‘nomadi’. Da sempre queste tribù arabe sudanesi hanno ridotto in schiavitù le popolazioni ‘nilotiche’ o ‘nere’ in generale, scagliandosi in particolare contro gli animisti e i cristiani. Si tratta di un fenomeno che negli anni ‘80, e anche successivamente, ha fortemente penalizzato i gruppi etnici del Sudan meridionale (ad esempio i Denka). La prima denuncia fu lanciata nel 1987 da due docenti dell’Università di Khartoum, il professor Suleyman Ali Baldo e il suo collega Ushari Ahmed Mahmud. Sfidando la censura del regime sudanese, dichiararono che una vera e propria tratta degli schiavi era già in atto dal 1985. Da quando, in altre parole, lo stato maggiore dell’esercito sudanese ritenne opportuno definire alcune strategie per arginare l’attività dell’Esercito di liberazione popolare del Sudan (Spla) di John Garang. Tra queste fu proposta e approvata la formazione di una milizia armata di cavalieri Baggara. In sostanza, si trattava di operare dei veri e propri raid in quei villaggi Denka, del Sudan meridionale, e più precisamente nel Bahr el Ghazal, in cui erano presenti possibili sostenitori dello Spla.
(Fonte MISNA)
Un altro punto debole è che importanti settori della società politica e civile non sono stati coinvolti in nessuna delle fasi negoziali: i partiti, i sindacati, le chiese, le associazioni o i diversi gruppi tribali ed etnici non hanno potuto portare la loro voce per costruire il “nuovo Sudan”. Una pace calata al di sopra e al di fuori della partecipazione dei corpi civili intermedi difficilmente troverà i canali per radicarsi nei contesti locali, nella vita sociale e nella convivenza tra etnie, culture, religioni. La Conferenza episcopale sudanese (lettera pastorale 01/01/04) ha chiesto che nel promuovere il nuovo sistema di leggi e la nuova Costituzione trovassero posto i diritti e le domande della gente; ha chiesto modalità di leadership aperte al dialogo e al consenso pubblico negli ambiti decisionali. Si prevede invece, una transizione gestita dai vecchi leader e dal loro entourage di militari che, toltasi l’uniforme, indosseranno gli abiti civili per esercitare funzioni di governo, trascinandosi dietro anche i misfatti compiuti in tanti anni di guerra. Una risoluzione del Parlamento Europeo (31/03/04) ha invitato le autorità sudanesi “a porre fine alla pratica dell’impunità per funzionari governativi e militari e a perseguire penalmente chiunque abbia partecipato a violazioni dei diritti umani”. Per consentire al Paese una svolta verso uno stato di diritto, i responsabili di gravissimi reati non possono restare ai posti di comando ma devono essere giudicati dal Tribunale Penale Internazionale. Accertare la verità sui crimini compiuti è il primo passo, come sostengono i vescovi, per un vero processo di riconciliazione che possa mettere in atto una giustizia riparativa, l’unica in grado di ricostruire davvero la convivenza di un paese lacerato da profonde e antiche ferite.
Ma questi non sono i soli problemi che l’accordo di pace pone. Avanzano anche nuovi ed enormi problemi che, se non risolti adeguatamente, possono innescare altre tensioni e conflitti. Il più immediato è il ritorno ai villaggi di oltre quattro milioni di sfollati, poi le profonde divisioni tra i gruppi tribali, la dibattuta e non risolta questione della svaria (la legge islamica): il fatto che i profitti del petrolio possano tornare a vantaggio della gente, la costruzione di interi sistemi di infrastrutture in un Paese che ne è totalmente privo.
E poi nuove sfide: la speranza, come afferma Abel Alier, autorevole fautore della pace in Sudan dal 1972 ad oggi, che “gli accordi rappresentano comunque un risultato importante e che ora, da parte di tutti, resta il compito di tradurli con un’ azione concreta ed efficace”. Una speranza da percorrere in salita: perché la pace vera sarà il frutto di un processo lungo e delicato che domanda l’accompagnamento di tanti soggetti istituzionali e civili.
Per questo la Campagna italiana Sudan continuerà, come nel passato, a fare la sua parte a fianco delle vittime e di tutti i sudanesi impegnati a costruire un futuro di vita per il paese.

Carla Bellani, Campagna italiana Sudan

articolo tratto da Mosaico logo

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