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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

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Una Chiesa profeta di pace

Giuseppe Alberigo
Fonte: "Mosaico di pace" gennaio 2006

La Pace non era all’ordine del giorno del Concilio Vaticano II. Neppure il dialogo con il mondo contemporaneo. L’apporto coraggioso di Lercaro. E di Dossetti.


Può sembrare paradossale a chi ricorda il clima degli anni Sessanta, ma nel programma del Concilio non c’era il tema della pace. Questo per chi conosce la preparazione del Vaticano II non sorprende molto. Oggi ci lascia sgomenti.
Il tema era caro a Giovanni XXIII, come uomo che aveva vissuto l’esperienza della I e della II guerra mondiale, in quest’ultima in particolare aiutando gli ebrei, da delegato apostolico in Turchia.
Uomo di pace dunque, ma che improvvisamente si trova insieme ai padri conciliari in quell’ottobre del 1962, quando il Concilio sta iniziando di fronte a quella che i meno giovani ricordano come l’ultima grande crisi atomica del mondo contemporaneo, la crisi di Cuba. È qui che si situa lo scatto dell’impegno di Giovanni XXIII e poi in certa misura del Concilio Vaticano II sul tema della pace.
Il Papa decide di intervenire con un appello sia nei confronti di Kennedy, presidente degli Stati Uniti, sia di Kruscev, responsabile dell’Unione Sovietica. È un appello che ha degli effetti incredibili. Che il Papa faccia un appello per la pace è in qualche modo una consuetudine, ma solitamente questi appelli cadono nel vuoto. In quel caso l’effetto è diverso perché si giunge alla fine del blocco che gli USA avevano imposto alle navi sovietiche che trasportavano i missili a Cuba e al ritiro da parte dell’Unione Sovietica delle medesime navi.
Tutto questo innesca in papa Giovanni uno scatto inatteso e inedito: bisogna che la Chiesa intervenga sul tema della pace in modo nuovo; qui nasce l’idea, la formulazione, la preparazione dell’enciclica Pacem in terris che uscirà alcuni mesi più tardi, alla vigilia della morte del Papa nell’aprile 1963.

Una guerra finalmente ingiusta
È l’enciclica che tuttora è segno di contraddizione perché sostiene che nell’età atomica non è più possibile ammettere una guerra giusta. Era da sant’Agostino che il cristianesimo, e poi il cattolicesimo romano affermava esattamente il contrario: c’erano tante guerre ingiuste, ma anche delle guerre giuste.
Nella Pacem in terris si legge: “In questa nostra età che vanta la forza atomica è contrario alla ragione” - ed è interessante che il Papa non abbia scelto di dire “è contrario alla fede cristiana” ma alla ragione – “che la guerra possa essere ancora idonea a ristabilire i diritti violati”.
Dunque non solo la guerra d’aggressione, ma anche quella che pretende di ristabilire i diritti non è più ammissibile.
Questo è lo sfondo del dibattito in quel Concilio che non aveva tra i suoi argomenti la problematica della pace che poi invece affronta. Così come non aveva al suo ordine del giorno tutta la tematica dei rapporti della Chiesa con il mondo contemporaneo, tema che, invece, poi si rivela centrale nei documenti conciliari, soprattutto grazie all’apporto del cardinale Lercaro e di Giuseppe Dossetti.
Il Concilio si sta concludendo, stretto da mille argomenti, proprio quelli che la preparazione aveva affastellato perché ciascuno dei membri della Curia romana si era fatto punto di onore di inserire almeno tre o quattro argomenti all’ordine del giorno. Il Concilio si trascina dunque questa zavorra e nei mesi da settembre a novembre 1965 i lavori sono gravati da una quantità innumerevole di testi e di argomenti spesso secondari da discutere e smaltire.
E in questa congerie di argomenti ve ne sono alcuni cruciali: c’è il rapporto della Chiesa con la Parola di Dio, che porterà alla costituzione Dei verbum, c’è il tema delicato e complicato nello stesso tempo del rapporto con la società contemporanea che il Concilio affronta senza nessuna preparazione remota, se si eccettua la dottrina sociale della Chiesa che pretendeva di ricavare meccanicamente dal Vangelo la risposta ai problemi contemporanei senza giungere a soluzione alcuna.

Una strana storia
La Pacem in terris aveva affermato non solo l’impossibilità di una guerra giusta, ma anche che bisogna affrontare i problemi della società contemporanea a partire da essi stessi. È lì che la Chiesa deve saper leggere i segni dei tempi che non sono una formula miracolosa o magica, ma il riconoscimento degli elementi evangelici nella vita degli uomini e delle donne del nostro tempo.
Lo Schema 13 – che diventerà la costituzione Gaudium et Spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo - è il contenitore di quel tentativo faticoso che il Concilio va facendo per esprimersi sui temi dell’umanità contemporanea.
Il cardinale Lercaro e con lui Dossetti erano convinti della necessità di questo impegno, ma anche allarmati della forte impostazione sociologica che l’argomento stava prendendo.
Verso la fine del settembre 1965 si venne a creare l’occasione di esprimere le incertezze e le perplessità sull’impostazione dello Schema 13 durante l’intervento di mons. Amici vescovo di Modena. Lercaro si proponeva un intervento esplicito, diretto sul tema della pace che divideva in modo netto il Concilio e che vedeva i vescovi nordamericani non disponibili a formulazioni che riprendessero alla lettera la Pacem in terris cioè che ponessero il problema degli armamenti e degli arsenali atomici, della deterrenza atomica e perciò la possibilità di una guerra giusta.
Lercaro ha questo orientamento e chiede che si prepari un testo, ma interviene una complicazione imprevista: papa Paolo VI decide di fare un viaggio all’ONU e lì durante il discorso ufficiale a proposito della guerra ne sostiene in qualche modo una legittimità.
A quel punto il testo che Lercaro aveva in mano era “bollente” perché riprendeva e sviluppava la tesi dell’enciclica di Giovanni XXIII. Vi si legge “la Chiesa oggi non deve solo parlare di pace, pregare per la pace, scongiurare gli uomini perché facciano la pace, (questo l’avevano fatto anche Benedetto XV e Pio XII) ma deve farsi con immenso coraggio, con l’audacia di Giovanni XXIII, profeta di pace, essa stessa facitrice di pace per le vie non umane ma prettamente spirituali che le sono proprie ed essa sola può dare al mondo la pace di Cristo stesso il quale ha stabilito e stabilisce la pace non attraverso i compromessi o i buoni uffici umani ma per mezzo del sangue della Sua croce. Ma per fare questo la Chiesa deve cominciare con il giudicare il mondo contemporaneo con l’umiltà più sincera, nella consapevolezza dei propri errori, delle proprie colpe, specialmente della sua politica temporale del passato, nel disinteresse più puro nella solidarietà più amante col mondo stesso la Chiesa deve tuttavia portare su di esso il suo giudizio. Deve, secondo la parola di Isaia ripresa da Matteo, annunciare il lieto annunzio alle genti”.
Questa era l’impostazione del discorso di Lercaro palesemente non allineato con quello di poche ore prima pronunciato da Paolo VI alle Nazioni Unite. Questo discorso non è mai stato pronunciato.
Il regolamento del Concilio prevedeva la possibilità che ci fossero degli interventi scritti e infatti il cardinale Lercaro decide di utilizzare il testo consegnandolo per iscritto intorno alla metà dell’ottobre 1965. In tal modo si è unito alla immensa mole di testi scritti presentati perdendosi nel numero. Il testo toccava anche il problema della fabbricazione delle armi e degli arsenali atomici.
Il cardinale non si è per nulla pentito di quella convinzione profonda espressa nel documento e l’ha ripreso in diverse occasioni specialmente nell’omelia del 1 gennaio 1968 in occasione della prima giornata della pace indetta da Paolo VI. Il problema della pace si era fatto più pressante per l’aggravarsi della guerra in Vietnam e per la decisione degli Stati Uniti di tentare di risolverlo con massicci bombardamenti.

Cogliere l’eredità
Questa omelia costò al cardinale l’esilio dalla Chiesa di Bologna.
Per certi versi si avverò per lui quanto si diceva nel documento presentato al Concilio “La Chiesa non si impegna alla pace mediante compromessi ma per mezzo del sangue della sua Croce”.
Quale l’eredità? È stato tutto disperso? Non credo, anche se il messaggio del Concilio e la problematica della pace sono tuttora per la Chiesa di difficile e laboriosa digestione.
Credo sia giusto ricordare la tesi degli interventi umanitari nei Balcani che Giovanni Paolo II ha più volte espresso non si sa se come forma elegante di legittimazione della guerra: gli va però riconosciuta una inversione di tendenza in occasione della guerra in Iraq. Ha posto in atto un cambiamento significativo: il rifiuto dell’intervento armato che si pone in linea di continuità con la grande ansia degli uomini e delle donne del nostro tempo, con quella di Giovanni XXIII e con la svolta da lui operata mediante l’enciclica Pacem in terris.
Il problema della guerra e della pace, del conflitto e dell’amicizia tra i popoli sono problemi che l’umanità si porta dietro da sempre e forse per sempre. La difficoltà è quella di essere fedeli all’impostazione evangelica che si pone come innovativa rispetto alla tradizione ebraica della guerra combattuta in nome di Jahvé.
Lo spirito del Vangelo è profondamente innovativo: cerchiamo di cogliere un’eredità bella e affascinante ma anche impegnativa come quella che Giovanni XXIII, il Concilio, il cardinale Lercaro ci hanno lasciato.

Giuseppe Alberigo, Direttore dell’Istituto per le scienze religiose Giovanni XXIII di Bologna

articolo tratto da Mosaico logo

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