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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

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Enzo Dell'Olio

Il ripudio della guerra nella Costituzione italiana e nel diritto internazionale

www.mosaicodipace.it 13 gennaio 2004

Art. 11 della Costituzione italiana: precettivo o programmatico?


La riapertura del dibattito relativo alla natura giuridica dell’articolo 11 della Costituzione italiana impone una riflessione approfondita e puntuale alla luce del diritto internazionale contemporaneo.
È solo in tale prospettiva che può essere affrontata la questione sulla “programmaticitá” o “precettivitá” di tale norma costituzionale.
Come è noto, nell’articolo 11 si afferma che “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”; si afferma inoltre che l’Italia “consente, in condizioni di parità con altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni, e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.

Lo stato attuale del diritto internazionale
Il ripudio della guerra citato dalla Costituzione italiana costituisce un principio fondamentale nel diritto internazionale attuale.
Esso è sancito in primo luogo nella Carta delle Nazioni Unite all’art.2 par.4, in cui si afferma che “i membri devono astenersi, nelle loro relazioni internazionali, dalla minaccia o dall’uso della forza” , un principio di diritto universalmente riconosciuto tanto nei trattati internazionali quanto nella prassi degli Stati successiva alla seconda guerra mondiale, con l’annesso obbligo di “risolvere le loro controversie internazionali con mezzi pacifici” ex art.2 par.3.
Sono due norme che costituiscono il presupposto anche della regolazione pacifica delle controversie prevista dal capitolo VI, e che implicitamente sottintendono l’uso della forza da parte del solo Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Il Consiglio svolge un ruolo “sussidiario” di mediazione non vincolante secondo il capitolo VI della Carta, ma ciò è circoscritto alla regolazione delle crisi internazionali da parte degli Stati con mezzi pacifici, non qualificate, peraltro, dal Consiglio stesso come minacce o violazioni della pace ex art.39.
Quest’ultimo, infatti, determina l’unica azione di polizia internazionale riconosciuta dalla Carta secondo le modalità previste dagli artt.42-47.
Una deroga al divieto dell’uso della forza è costituita dal diritto di legittima difesa individuale e collettiva “nel caso in cui abbia luogo un attacco armato contro un membro ONU” riconosciuto agli Stati dall’art.51, e comunque in attesa delle “misure necessarie” intraprese dal Consiglio.
L’intervento armato di uno Stato nei riguardi di un altro rappresenta una tipica forma di aggressione, così come delineato dalla risoluzione 3314 dell’Assemblea Generale ONU del 1974, risoluzione ritenuta conforme al diritto internazionale generale dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’ONU.
L’uso della forza è consentito agli Stati o a gruppi di Stati solamente dietro la autorizzazione del Consiglio di Sicurezza secondo una prassi generalmente accettata dagli Stati consolidatasi a partire dall’intervento armato nel Golfo del 1991, seppur non prevista dalla Carta ONU.
Tale delega, tuttavia, subordina l’uso coercitivo della forza armata (peace-enforcement operations) soltanto al raggiungimento della pace e della sicurezza internazionale, quindi alla risoluzione e cessazione di un conflitto armato tra Stati o all’interno di uno Stato o per far fronte a una grave emergenza umanitaria.
Si tratterebbe, cioè, di un’azione militare di polizia internazionale “nello spirito del capitolo VII” della Carta ONU, e non di una delega all’uso indiscriminato della forza.
Il diritto consuetudinario, pur in deroga alla Carta, non autorizza in alcun modo una “guerra”, ma un intervento strettamente subordinato alle finalità del mandato assegnato da una risoluzione apposita del Consiglio di Sicurezza. Sempre più frequentemente, soprattutto dai primi anni ’90, si è consolidata la prassi secondo la quale il Consiglio autorizza gli Stati, singoli o in “ad hoc coalitions”, a usare la forza contro uno Stato o all’interno di uno Stato, rimettendone il controllo e il comando delle operazioni militari, seppure sotto l’autorità del Consiglio stesso.
Si tratta, cioè, di uno strumento normativo che, oltre al peace-keeping, sopperisce alla mancata realizzazione del corpo di polizia internazionale così come delineato dagli artt.43-47 della Carta.
La prassi trova un suo precedente importante nella guerra di Corea, e precisamente nella ris.83 del 1950, con la quale il Consiglio raccomandò agli Stati membri di soccorrere la Corea del Sud, attaccata dalla Corea del Nord, nonché dalla ris.84 con la quale si accettò che le forze operanti fossero poste sotto comando statunitense.
L’esempio, invece, che costituisce l’antecedente immediato di un ricorso sistematico a tale strumento autorizzativo è costituito dalla ris.678 del 1990, con la quale il Consiglio di Sicurezza autorizzò gli Stati membri, se l’Iraq non avesse abbandonato il Kuwait entro il 15/1/91, a usare “ogni mezzo necessario” per ottenere il ritiro.
Si possono, ancora, annoverare, tra le misure implicanti l’uso della forza autorizzate, le riss.816 e 836 del 1993 che concedono l’impiego delle forze aeree agli Stati sia singoli sia nel quadro di organizzazioni regionali nonché la ris.794 relativa alla crisi somala, che autorizzava gli Stati membri a utilizzare “tutti i mezzi necessari” per assicurare le operazioni di soccorso umanitario.
Altre misure riportabili a tali fattispecie sono i “blocchi navali”, che impediscono anche con la forza il commercio, da parte di navi straniere, con determinate coste: a parte la ris.221 del 1966 con cui il Consiglio raccomandava alla Gran Bretagna di impedire l’arrivo di petrolio in Rodesia, si può annoverare la ris.665 che rafforzava l’embargo bandito contro l’Iraq già con la ris.661, o la ris.787, di contenuto analogo, contro la Repubblica Jugoslava.
Riguardo al fondamento giuridico di tali autorizzazioni, esso non può certamente rinvenirsi alla stregua della Carta, poiché non esistono norme della stessa che riconoscano potere di delega al Consiglio.
Anzi, le delibere autorizzative “tradiscono lo spirito della Carta” perché gli artt.42 ss si riferiscono a un sistema di sicurezza collettiva gestito direttamente dal Consiglio, mentre le autorizzazioni in esame attribuiscono agli Stati una gestione autonoma e diretta.
La delega va, quindi, considerata come prevista da una norma consuetudinaria, che non trova opposizioni da parte degli Stati membri, e che porta il Consiglio ad assumere un carattere direttivo-normativo, piuttosto che operativo.
Il diritto internazionale generale, cioè, legittima l’adozione di misure implicanti l’uso della forza degli Stati che ricevano l’avallo della Comunità Internazionale, espresso dall’autorizzazione del Consiglio.
Nella prassi più recente, infatti, gli Stati avvertono la necessità di ritrovare nell’organo uno strumento di legittimazione, per cui interventi armati “umanitari” (spesso nelle crisi interne) del tutto unilaterali non sono consentiti: si pensi ai bombardamenti del 1992 degli Usa contro l’Iraq per far rispettare la “no flying zone” del nord e del sud del Paese, che hanno suscitato condanne e proteste di molti Stati.
La formazione di questa norma consuetudinaria non può, così, prescindere dai recenti mutamenti che hanno interessato l’ordinamento internazionale.
Si è, infatti, affermato un nucleo di norme che comportano obblighi “erga omnes”, al fine di tutelare valori essenziali per la Comunità internazionale: divieto di aggressione, divieto di dominazione coloniale, divieto di apartheid, divieto di danni all’ecosistema e di violazione dei diritti umani.
La violazione di tali obblighi comporta la commissione di crimini internazionali, che legittimano tutti gli Stati a una risposta collettiva contro lo Stato autore di tali illeciti, in quanto gestori “uti universi” di interessi collettivi della Comunità internazionale.
Con il consolidamento di tali norme di jus cogens dopo il crollo del blocco sovietico, che ha portato gli Stati a una “interdipendenza” nella gestione di interventi per conto della Comunità, si denota la gestione concreta di garanzia dell’ordinamento da parte degli Stati più “forti” del sistema, nonostante l’eguaglianza formale riconosciuta in merito agli Stati dal diritto internazionale generale.
Sulla base di questa evoluzione del diritto consuetudinario, si può giustificare la prassi autorizzativa dell’ONU all’uso della forza da parte degli Stati membri.
Questi interventi deliberativi sono incompatibili con la Carta, ma sono espressione di una trasformazione de facto del sistema ONU, che diventa funzionale alla gestione, da parte degli Stati, dei valori fondamentali dell’ordinamento internazionale.
Così, l’ONU viene investita di nuovi poteri non previsti dalla Carta, ma esercitati “nello spirito” del capitolo VII, in quanto concernono situazioni di “minaccia alla pace” che corrispondono alla violazione di obblighi erga omnes per la Comunità Internazionale.
Le autorizzazioni del Consiglio derivano dall’esigenza di sottoporre a controllo gli interventi gestiti dagli Stati nel campo degli obblighi erga omnes, per verificarne la legittimità.
È, tuttavia, da ricordare che la legittimità degli interventi armati degli Stati deve rispondere tanto alla prassi autorizzativa del Consiglio, che comunque li deve sancire e avallare, quanto alla propria conformità rispetto al diritto internazionale generale, in specie degli obblighi erga omnes affermatisi: la legittimità di tali interventi non è, infatti, automaticamente coperta dalle mere autorizzazioni del Consiglio di Sicurezza.
Da quanto precede, il passaggio, nella prassi, da un ruolo operativo, in primis nelle operazioni guidate dal Segretario Generale, a un ruolo in prevalenza direzionale e deliberativo non sminuisce la centralità del Consiglio nel mantenimento della pace internazionale.
Così come gli interventi armati unilaterali degli Stati, anche quelli effettuati da organizzazioni regionali, se non autorizzati ex art. 53 della Carta, non sono consentiti.
Il divieto dell’uso della forza si riflette, infatti, sia nel diritto generale, nonostante le sue evoluzioni nella tutela collettiva degli obblighi erga omnes, sia in quello pattizio del sistema ONU, e ad esso sono sottoposti sia gli Stati sia le organizzazioni regionali.
Qualunque di questi soggetti violi tale divieto, tranne i casi di legittima difesa e di autorizzazione del Consiglio, commette un crimine internazionale, violando un principio supremo dello jus cogens post-bellico, a nulla valendo qualsiasi giustificazione umanitaria.
Spetta alla Comunità Internazionale, rappresentata dal Consiglio di Sicurezza, legittimare qualsiasi uso della forza.
Anche quest’ultimo deve sottostare, infatti, al rispetto delle norme di jus cogens (divieto dell’uso indiscriminato della forza armata, rispetto del diritto umanitario).

La Costituzione italiana alla luce del diritto internazionale attuale
È unicamente in tale contesto che l’Italia può disporre dell’uso della forza, consentendo alle “limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra i popoli”, subordinando cioè l’uso coercitivo della forza a una risoluzione specifica del Consiglio di Sicurezza o l’uso della forza a fini conservativi e di interposizione nelle operazioni internazionali di peace-keeping.
Anche l’utilizzo della forza armata per legittima difesa, cioè in risposta a un attacco armato proveniente da un altro Stato, previsto dall’art.52 della Costituzione (“La difesa della patria è sacro dovere del cittadino”) è perfettamente conforme all’art.51 della Carta ONU, che riconosce il diritto di legittima difesa individuale e collettiva “fintantoché il Consiglio non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale”.
Come è facilmente desumibile, l’art.11 si conforma al diritto internazionale generale per quanto concerne il divieto dell’uso della forza.
E non potrebbe essere altrimenti, se si considera che l’art.10 della Costituzione prevede che “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute”.
Ciò significa che le norme internazionali consuetudinarie valgono all’interno dello Stato italiano finché sono in vigore nell’ambito della comunità internazionale.
Anzi, il diritto internazionale generale prevale, a titolo di lex specialis, sul diritto costituzionale italiano, tranne che sui valori ritenuti “fondamentali” nella Costituzione italiana, valori tra i quali tutta la dottrina costituzionale italiana annovera l’articolo 11.
È proprio in base alla necessaria conformità del diritto italiano all’ordinamento internazionale, previsto dall’articolo 10, che il ripudio della guerra ex art.11 non può assumere valore semplicemente esortativo o programmatico, ma vincolante e precettivo.
Una sua violazione, come già si è verificato durante il conflitto in Kossovo, costituirebbe non solo un illecito costituzionale, ma un crimine internazionale, una violazione grave di diritto cogente.


Bibliografia di riferimento
 Conforti “Le Nazioni Unite”, Ed.Cedam Padova 1996
 Conforti “Diritto Internazionale” Ed. La Scientifica Napoli 1999
 Conforti “In tema di azioni del Consiglio di Sicurezza a tutela della pace e della sicurezza” da “La Comunità Internazionale” 1993, p.701ss
 Iovane “La NATO, le organizzazioni regionali e le competenze del Consiglio di Sicurezza in tema di mantenimento della pace” su “La Comunità Internazionale” 1998, p.43 ss
 Picone “Nazioni Unite e obblighi erga omnes” su “La Comunità Internazionale” 1993, p.709 ss
 Villani “Il ruolo delle organizzazioni regionali per il mantenimento della pace nel sistema dell’ONU” su “La Comunità Internazionale” 1998, p.428 ss

articolo tratto da Mosaico logo

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