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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

Bernardo Olivera

In Algeria fino alla morte

"Il Regno" n.13 del 1996

"L'opzione dei fratelli dell'Atlas non è unica né esclusiva. Tutti noi, in quanto monaci e monache della tradizione benedettina-cistercense, abbiamo fatto un voto di stabilità che ci ha vincolato alla comunità e al luogo in cui questa si trova, fino alla morte". In una lettera del 27 maggio 1996 all'Ordine cistercense della stretta osservanza, l'abate generale dom Bernardo Olivera inquadra nel carisma della congregazione la scelta compiuta dai sette monaci di Notre-Dame de l'Atlas – uccisi dai fondamentalisti islamici il 21 maggio; cf. Regno-att. 12,1996,361 – di rimanere nel loro monastero. "La vita e la morte dei nostri sette fratelli dell'Atlas è una testimonianza che non si può dimenticare. Né la diplomazia né la politica né uno sguardo privo di trascendenza su questi avvenimenti abbiano a privarci della voce dei nostri martiri né soffochino il clamore di questo grido di amore e di fede. ...È lo stesso grido che invita al perdono e all'amore dei nemici. La vita è più forte della morte: l'ultima parola è dell'amore!". (L'Osservatore romano 1.6.1996, 6; nostra revisione sull'originale spagnolo).


Carissimi fratelli e carissime sorelle,
in questi giorni, tra la domenica della Pentecoste e quella della Trinità, sia nella cattedrale di Algeri come in tutte le comunità dell'Ordine, facciamo memoria dei nostri sette fratelli dell'Atlante. Nello stesso tempo, mi sembra importante cercare di leggere alla luce della fede gli avvenimenti che ci hanno così profondamente colpiti, in seguito all'annuncio della morte dei nostri fratelli.

Una testimonianza da non dimenticare.
La lettera apostolica Tertio millennio adveniente in vista della preparazione del giubileo dell'anno 2000 ci ricorda che la chiesa del primo millennio è nata dal sangue dei martiri. "È una testimonianza da non dimenticare" (TMA 37; Regno-doc. 21,1994,650). I nostri fratelli dell'Atlas ci hanno lasciato oggi questa testimonianza, proprio mentre ci prepariamo a celebrare, nel 1998, i 900 anni della fondazione dei cistercensi e, poco più tardi, i 2000 anni della nascita e morte di Gesù. Non possiamo lasciare che questa testimonianza cada nella dimenticanza.

Il mistero dell'essere umano, di ogni essere umano si manifesta solamente in quello del Verbo incarnato, del Verbo umanizzato. La testimonianza dei nostri fratelli, come la nostra stessa testimonianza monastica, di credenti, può essere compresa solo alla luce di quella di Cristo. Ecco la testimonianza del testimone fedele: Dio è amore! Padre, perdona perché non sanno quello che fanno. Venga il tuo Regno! Perdona i nostri peccati così come noi perdoniamo coloro che ci offendono.

Voto di "stabilità" fino alla morte.
La stabilità vissuta dalle nostre comunità

L'opzione dei fratelli dell'Atlas non è unica né esclusiva. Tutti noi, in quanto monaci e monache nella tradizione benedettina-cistercense, abbiamo fatto un voto di stabilità che ci ha vincolato alla comunità e al luogo in cui questa si trova, fino alla morte. Diverse nostre comunità negli ultimi anni si sono trovate ad affrontare situazioni di guerra o di violenza: in queste circostanze hanno dovuto riflettere seriamente sul significato di questo voto e hanno dovuto prendere delle decisioni cruciali, se rimanere sul posto o partire. Questo è stato il caso delle comunità di Huambo e Bela Vista in Angola, di Butende in Uganda, di Marija Zvijezda a Banja Luka, in Bosnia e, più recentemente, della comunità di Mokoto in Zaire. La maggior parte di queste comunità hanno deciso di rimanere sul posto; i fratelli di Mokoto, per diverse ragioni, hanno scelto la via dell'esilio. In ognuno di questi casi la decisione comunitaria è stata presa dopo una seria riflessione da parte di tutti.

Come comprendere la profondità di questo voto nella vita di un monaco o di una monaca? Forse il testo della lettera che il padre Christian, superiore dell'Atlas, aveva pensato di inviare il 28 ottobre 1993 a Sayah Attiya, capo del Gruppo islamico armato (GIA) e del gruppo che irruppe nel monastero quella notte di Natale, può aiutarci a comprendere meglio il significato del nostro voto: "Fratello, mi permetta di rivolgermi a lei, da uomo a uomo, da credente a credente (...). Nel conflitto attuale che sta vivendo il paese, ci pare impossibile prendere partito. La nostra condizione di stranieri ce lo proibisce.

Il nostro stato di monaci (ruhba\^n) ci vincola alla scelta di Dio su di noi, che è quella di una vita di preghiera e di semplicità, di lavoro manuale, di accoglienza e di condivisione con tutti, specialmente con i più poveri (...). Queste ragioni di vita costituiscono una scelta libera di ciascuno di noi. Ci impegnano fino alla morte. Non penso che sia volontà di Dio che questa morte ci venga da voi (...). Se un giorno gli algerini riterranno che siamo di troppo, rispetteremo il loro desiderio di vederci partire. Certamente con grande dolore.

So che continueremo ad amare tutti e fra questi anche lei. Quando e come questo messaggio le arriverà? Poco importa. Sentivo il bisogno di scriverlo oggi. E l'Unico di ogni vita ci guidi. Amen".

Discernimento comunitario
Mi sembra ora importante ricordare le grandi tappe del discernimento fatto dalla comunità dell'Atlas dopo la visita di sei persone armate nel Natale del 1993. Il GIA cercava di compromettere i nostri fratelli e di obbligarli alla "collaborazione" (sia con l'aiuto medico ed economico sia con l'appoggio logistico), Il Walì (prefetto) di Médéa aveva offerto protezione militare, ma i fratelli rifiutarono di accettarla poiché volevano essere un segno di pace per tutti e ciascuno. Allo stesso modo non accettarono di trasferirsi in un luogo "protetto" a Médéa, preferendo rimanere nel proprio monastero. Furono solo d'accordo su due cose: chiudere le porte tra le 17,30 e le 7,30 e installare una linea telefonica collegata con la casa del guardiano.

Nei giorni seguenti i fratelli tennero una serie di votazioni comunitarie giungendo così alle seguenti decisioni: rifiutare ogni sorta di collaborazione con il GIA (salvo in caso di cure mediche nel recinto del monastero); rimanere all'Atlas pur riducendo provvisoriamente il numero dei membri della comunità; non accettare novizi sul posto; non ritornare in Francia, ma trasferirsi in Marocco nel caso si dovesse abbandonare il monastero; ritornare all'Atlas quando le circostanze l'avessero consentito.

Il nunzio apostolico, ben consapevole della situazione, aveva scritto loro, in data 24 di giugno, proponendo di trasferirsi nella proprietà della nunziatura. I nostri fratelli risposero che per il momento non ne vedevano la necessità, tuttavia, nel caso, avrebbero fatto discernimento assieme all'arcivescovo e al nunzio.

Il 16 dicembre del 1994 hanno luogo nuovi dialoghi comunitari. Vengono nuovamente confermate le decisioni prese l'anno precedente. Mons. Teissier, presente in monastero per la circostanza, lascia loro un messaggio di riconoscenza, in cui sottolineava il rischio che correvano nel loro desiderio di dare testimonianza con la loro presenza in una regione in cui si consolidavano le bande armate. L'arcivescovo li ringraziava per la loro fedeltà e manifestava tutta la sua riconoscenza per ciò che questa loro presenza di preghiera e di lavoro quotidiano a Tibhirine significava per la comunità cristiana in Algeria.

Possibilità di una morte violenta
Nel corso del discernimento che li ha condotti alla decisione di rimanere all'Atlas, nonostante lo stato generale di tensione, i fratelli erano ben consapevoli della possibilità di una morte violenta. La lettera inviata da Christian dopo l'assassinio di due religiose nel settembre nel 1995 lo dice con chiarezza: "La celebrazione era soffusa di un meraviglioso clima di serenità e di offerta. Riuniva una chiesa molto piccola, i cui membri erano coscienti che la logica della loro presenza doveva includere in anticipo l'eventualità di una morte violenta. Questo ha costituito per molti come una nuova immersione radicale nel carisma stesso della loro congregazione... e insieme un ritorno alla fonte della prima chiamata. Perciò è chiaro che il desiderio di tutti è che nessuno di questi algerini, a cui ci ha legato la nostra consacrazione, in nome dell'amore che Dio ha per essi, ferisca questo amore, uccidendo qualcuno di noi, qualcuno dei nostri fratelli" (lettera del 7 settembre 1995). La riflessione di Christian sulla possibilità di una morte violenta era diventata la sua preghiera, quella di un uomo che vuole essere totalmente disarmato, spoglio di qualsiasi forma di violenza davanti ai propri simili, suoi fratelli. "Signore, disarma me e disarma loro".

Almeno in tre circostanze, in particolare in occasione dell'assassinio di religiosi e religiose vicini al suo cuore, p. Christian evocherà questa possibilità.

Dopo l'assassinio di fr. Henri, marista, scrive: "Ero molto legato personalmente a Henri. La sua morte mi sembrava così naturale, così conforme a una lunga vita, interamente dedicata alle piccole cose. Henri mi sembrava appartenere alla categoria di coloro che io chiamo "i martiri della speranza", coloro dei quali non si parla mai, perché è nella pazienza del quotidiano che essi hanno versato tutto il loro sangue. È così che io comprendo il "martirio monastico". È questo istinto che ci porta, attualmente, a non cambiare nulla, a meno che non si tratti di uno sforzo permanente di conversione (ma anche a questo riguardo, nessun cambiamento!)" (lettera del 5 luglio 1994).

Dopo la morte delle agostiniane missionarie, quando i fratelli dell'Atlas confermarono la decisione di restare, nonostante i rischi: "Le comunità maschili sembrano confermare la loro scelta di rimanere. Ciò è chiaro, finora, per i gesuiti, i piccoli fratelli di Gesù, i padri bianchi nel loro insieme. Ed è chiaro anche per noi. A Tibhirine, come altrove, questa scelta comporta i suoi rischi, è evidente. Ciascuno dei fratelli mi ha detto di essere disposto ad assumerli, in un atteggiamento di fede nel futuro e di condivisione con i nostri vicini, sempre molto legati a noi. La grazia di questo dono ci è concessa giorno per giorno e con tutta semplicità. Alla fine di settembre abbiamo avuto un'altra "visita" notturna. Questa volta, i "fratelli della montagna" volevano utilizzare il nostro telefono. Abbiamo obiettato che eravamo ascoltati... ed era necessario mettere in risalto la contraddizione tra il nostro stato di vita e qualsiasi complicità con tutto ciò che potrebbe costituire un attentato alla vita degli altri. Ci hanno dato delle garanzie, ma la minaccia era lì, ben armata, naturalmente" (lettera del 13 novembre 1994).

Dopo l'assassinio delle suore di Nostra Signora degli apostoli: "Il papa ha avuto la grande delicatezza di inviarci un delegato speciale per presiedere le esequie, il segretario della Congregazione dei religiosi. Abbiamo potuto incontrarlo questo pomeriggio, in una riunione tra vescovi e superiori maggiori.

È stato particolarmente stimolante. Con il sorriso e molta convinzione, ci ha confermato nel nostro oggi, davanti alla storia della chiesa, al disegno di Dio e alla nostra vocazione religiosa, inclusa l'eventualità del "martirio". Tutto questo come esigenza di una disponibilità a questa forma di fedeltà personale che lo Spirito vuole suscitare e donare alla chiesa qui e ora. Ciò non impedisce certe disposizioni concrete e i più elementari riflessi di prudenza e di discrezione" (lettera del 7 settembre 1995).

Martiri di amore e di fede
Nel corso di questo XX secolo, due altre comunità del nostro ordine hanno dato alla chiesa e al mondo autentici martiri di amore e di fede: i 33 martiri di Nostra Signora della consolazione, in Cina, nel 1947-1948, e i 19 martiri di Nostra Signora di Viaceli, in Spagna, nel 1936-1937. La causa di beatificazione di questi martiri è già stata introdotta, a Roma. I sette fratelli di Notre-Dame de l'Atlas ci hanno anch'essi appena dato la medesima testimonianza di amore e di fede.

In ognuno di questi casi si è trattato di una grazia comunitaria e non di una grazia individuale. In un contesto cenobitico come quello di un monastero cistercense, non può passare inosservato il fatto di una vita vissuta e donata insieme. E questa grazia comunitaria del martirio è stata anche una grazia ecclesiale. L'amore dei nostri fratelli per la chiesa di Algeria e per la chiesa locale di Algeri è ben noto. La loro vita e la loro morte si iscrivono nel registro di tutti gli uomini e di tutte le donne, religiosi e religiose, cristiani e musulmani, che sono vissuti e sono morti per Dio e per gli altri.

In nome del Vangelo
Il 27 aprile 1996, appena un mese dopo il sequestro, il quotidiano Al Hayat pubblicava ampi stralci del comunicato n. 43 del GIA, datato il 18 aprile: l'"emiro" del GIA non riconosce l'aman, cioè la protezione concessa al monastero dal suo predecessore. Inoltre, questa "protezione" non sarebbe stata lecita, per il fatto che i monaci, stando al comunicato, "non hanno cessato di invitare i musulmani a vivere il vangelo, hanno continuato a proclamare i loro slogan e i loro simboli e a celebrare solennemente le loro feste". L'emiro afferma inoltre che "i monaci che vivono in mezzo alla gente possono essere lecitamente uccisi", e questo è il caso dei monaci dell'Atlas, i quali "vivono tra la gente e la allontanano dal cammino divino, incitandoli ad abbracciare il Vangelo". E continua dicendo: "È anche lecito applicare (a questi monaci) ciò che si applica ai non credenti, quando sono prigionieri di guerra, vale a dire la morte, la schiavitù o lo scambio con dei prigionieri musulmani". E per concludere, l'avvertimento: la mancata liberazione dei prigionieri del GIA avrà come conseguenza la morte dei monaci. "A voi la scelta. Se liberano, liberiamo; se non liberano, sgozziamo. Gloria a Dio". I nostri fratelli sono stati condannati a morte in nome del Vangelo che professavano. Condannati a morte per la "gloria di Dio"".

Il perdono dei nemici
Dopo la morte violenta di fr. Henri, p. Christian scriveva a un gruppo di amici: "Non c'è amore più grande che dare la vita per per i propri amici... diceva Gesù nel Vangelo di questo 8 maggio 1994. Se questa parola suona così appropriata nella vita di Henri, non è perché fu illustrata nell'ultimo giorno della sua vita, ma perché riconosciamo che al nostro fratello è stata essenzialmente "donata" fino al dono perfetto del perdono, incluso in anticipo nella prima frase che mi aveva inviato per adattare alla situazione attuale gli orientamenti concreti del nostro gruppo. Nelle nostre relazioni quotidiane, scegliamo apertamente il partito dell'amore, del perdono, della comunione, contro l'odio, la vendetta, la violenza" (lettera del 15 maggio 1994).

Alla fine del ritiro comunitario, in preparazione al Natale 1994, p. Christophe riassumeva i punti forti di questo ritiro, ciò che lo aveva colpito e interpellato. Bisognerebbe citare tutto il testo. Accontentiamoci di questo passaggio: "Mi rendo ben conto che il nostro particolare modo di vivere – come monaci cenobiti – è valido, ci porta e sostiene. Per essere più preciso. L'ufficio: le parole dei salmi sono attuali, fanno corpo con la situazione di violenza, di angoscia, di menzogna e di ingiustizia. Sì, ci sono dei nemici. Non possono costringerci a dire troppo in fretta che li amiamo, senza fare ingiuria alla memoria delle vittime il cui numero cresce di giorno in giorno. Dio santo. Dio forte. Vieni in nostro aiuto! Affrettati a soccorrerci!"

Durante la Pasqua del 1995 ho visitato le nostre sorelle della comunità di Huambo, in Angola, a pochi mesi dalla fine della guerra. La domenica di Pasqua, sr. Tavita ha fatto la sua professione temporanea. Aveva scelto come lettura biblica per la sua professione il Vangelo sull'amore ai nemici. L'avversità può costituire una esperienza che annienta, ma può anche dar luogo al perdono e all'amore dei nemici. Tutto ha un senso, un senso da accogliere e da riconoscere. Ed è forse solo la scoperta di questo significato che consente a p. Christophe di lasciare a fr. Luc l'ultima parola che conclude e sigilla la sua riflessione in occasione del ritiro spirituale: "Per il 1 gennaio 1994, inaugurando l'anno e il mese dei suoi 80 anni, in refettorio, abbiamo ascoltato la cassetta che tiene in serbo per il giorno dei suoi funerali: Edith Piaf che canta: "No, niente, non rimpiango nulla"".

Con l'Agnello sgozzato
"Poi vidi ritto in mezzo al trono circondato dai quattro esseri viventi e dai vegliardi un Agnello, come immolato" (Ap 5,6).
"Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo, poiché è stato precipitato l'accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte. Ma essi lo hanno vinto per mezzo del sangue dell'Agnello e grazie alla testimonianza del loro martirio; poiché hanno disprezzato la vita fino a morire" (Ap 12, 10-11).
"Dopo ciò, apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare... Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all'Agnello, avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani... Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello... L'Agnello... sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi" (Ap 7,9.13.17).

L'esecuzione
Il 23 maggio 1996 abbiamo ricevuto dal Ministero per gli affari esteri di Francia la seguente notizia: "Una radio del Marocco ha diffuso un nuovo comunicato (n. 44) del GIA...". Questo comunicato ci fa capire il significato ultimo dell'esecuzione dei nostri fratelli per mano dei loro sequestratori. Deve essere letto alla luce del comunicato precedente e dei motivi della condanna evocati dall'emiro del GIA, che prevedevano: la morte, la schiavitù o lo scambio con dei prigionieri musulmani. Siccome non c'era stato lo scambio di prigionieri, il GIA aveva deciso di applicare la sentenza prevista: "Il 18 aprile 1996 abbiamo pubblicato un comunicato (...). Già avevamo detto: Se liberano (Abdelhak Layada...), liberiamo (i monaci); se non liberano, noi li sgozziamo. Il 30 aprile 1996 abbiamo inviato un emissario all'ambasciata di Francia (...) latore di una cassetta audio che provava che i monaci sono sempre in vita e un messaggio scritto in cui si precisavano le modalità del negoziato, se essi (i francesi) volevano recuperare i loro prigionieri vivi. In un primo tempo, essi si sono dimostrati disposti (a farlo) e noi abbiamo scritto una lettera firmata e sigillata (...). Alcuni giorni dopo, il presidente francese e il suo Ministero per gli affari esteri hanno dichiarato che non avrebbero dialogato né negoziato con il Gruppo islamico armato. Hanno interrotto ciò che avevano iniziato e noi abbiamo tagliato la gola ai sette monaci, fedeli (in questo) al nostro impegno (...). Gloria a Dio (...). Ciò è stato eseguito questa mattina (21 maggio)".

Fate risuonare la voce dei nostri martiri
La vita e la morte dei nostri sette fratelli dell'Atlas è una testimonianza che non si può dimenticare. Né la diplomazia né la politica né uno sguardo privo di trascendenza su questi avvenimenti abbiano a privarci della voce dei nostri martiri né soffochino il clamore di questo grido di amore e di fede. Dal martirio del combattimento spirituale fino al martirio del sangue versato, è lo stesso grido che invita al perdono e all'amore dei nemici. La vita è più forte della morte: l'ultima parola è dell'amore!

Cari fratelli e care sorelle, all'alba di questo 9 centenario di Cîteaux e del giubileo dell'anno 2000, questi eventi sono "un segno dei tempi" per ciascuno di noi. Sono una parola di Dio che non ritornerà a lui senza aver fecondato i nostri cuori e senza aver prodotto i suoi frutti. Oggi, se ascoltiamo la sua voce, come persone singole e come comunità di persone, non chiudiamo i nostri cuori a questo invito pressante che ci chiama a perseverare nella conversione e nella sequela radicale di Gesù e del suo Vangelo.

L'esempio dei nostri sette fratelli ravvivi in noi la fiamma dell'amore (ferventissimo amore, RB 72) fino a non aver altro debito tra noi se non quello dell'amore fraterno, fino a giungere all'estremo di perdonare e amare coloro che hanno ucciso i nostri fratelli. Solamente così, perdonando e amando fino all'estremo, saremo cristiani come Christian e potremo giungere come lui alla fine della vita, facendo nostre le parole del suo testamento: "E anche tu, amico dell'ultimo istante, che non avrai saputo quello che facevi. Sì, anche per te voglio dire questo grazie, e questo "ad-dio", da te deciso. Ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se lo vorrà Dio, nostro Padre comune. Amen".

Con un grande abbraccio, in Maria di san Giuseppe.

dom Bernardo Olivera
abate generale


articolo tratto da Il Regno logo

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