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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

M.E. G.

La colpa del silenzio

"Il Regno" n. 6 del 1995

Le organizzazioni Pax Christi International, Caritas-Secours international, Coopération internationale pour le développement et la solidarité (CIDSE), Jesuit Refugee Service (JRS) e la Conferenza europea della commissione Giustizia e pace, informate dello spostamento di migliaia di persone in fuga dal Burundi verso la Tanzania, hanno pubblicato il 28 febbraio scorso un appello, intitolato Evitare una catastrofe in Burundi: se la comunità internazionale è stata assente nella condanna e nella prevenzione del genocidio del Ruanda, non può permettersi nuovamente di stare a guardare anche la crisi del Burundi.

"Sono tutsi, me l'ha detto mio padre"
Alla fine di febbraio, 24.000 persone, tra burundesi e ruandesi sfollati, si sono riversate in Tanzania. Le tensioni maggiori sono nate a seguito di manifestazioni dei militanti dell'UPRONA (partito dell'opposizione tutsi), che hanno chiesto la destituzione del primo ministro, perché troppo conciliante con il FRODEBU (a maggioranza hutu), il partito al governo. La situazione del paese è di sospetto e di violenza diffusa: attentati contro la popolazione, contro chi appoggia il governo, contro gli oppositori. Migliaia i morti. Attentati e conflitti sono connotati dall'aggettivo etnico. In verità le radici sono sociali: i "tutsi" sono coloro che occupano le posizioni chiavi del paese: scuola, sanità, università; l'esercito, come la magistratura, è formato da tutsi al 95%. "Hutu", gli altri. Manca, inoltre, una cultura politica democratica, si rifiuta di condividere il potere e, di conseguenza, i privilegi acquisiti. I tutsi vivono mescolati agli hutu; hanno la stessa lingua, le stesse strutture socioculturali, economiche e religiose. Ciò che varia è la composizione numerica: minoranza, i tutsi, maggioranza gli hutu. L'identità etnica è una tradizione di famiglia: "Sono tutsi perché me l'ha detto mio padre", dice un proverbio.

Nessuna legalità
In Ruanda, il governo del vittorioso Fronte patriottico ruandese (FPR) non ha ancora ristabilito quel minimo di stato di diritto che possa garantire "la sicurezza in seno alla popolazione" e quella dei "rifugiati" che ritornano in patria: così si esprime la ricostruita gerarchia ecclesiastica del Ruanda in un messaggio del 12 gennaio al governo.1 I soldati del FPR occupano ancora le proprietà dei ruandesi e molti degli edifici ecclesiastici. Inoltre, altre fonti concordano sul permanere di esecuzioni extragiudiziali, sulla scomparsa o l'incarcerazione di persone senza capi d'accusa, su azioni di rappresaglia contro civili. Il genocidio continua (cf. Regno-att. 12,1994,361; 14,1994,428), con la motivazione della vendetta, in silenzio, senza il pubblico dei mass-media.

Occorre ristabilire un minimo di legalità per ricostituire un tessuto sociale per ora inesistente. Il problema per la chiesa locale e per quella universale è tanto maggiore se si considera la forte presenza cattolica nel paese.

Il letargo della chiesa
Qual è il punto su cui poter far leva in un uomo che uccide, che denuncia la propria famiglia, che tradisce i legami più intimi? Da dove ripartire per poter ricostruire le comunità e arrivare al perdono? Una commissione di lavoro della diocesi di Butare ha pubblicato un testo, intitolato Per il rilancio delle attività pastorali (ANB-BIA, 269,1.12.1994,3). Vi si afferma: "Pochi ruandesi si sono dimostrati capaci di "preferire la morte piuttosto che il tradimento". Non si dovrà, quindi, soltanto ricostruire il legame ("riconciliazione"), ma anche e soprattutto riaffermare le personalità portandole a compiere un "lavoro di lutto" che le porterà a piangere amaramente, ma poi... le porterà a rimanere fedeli fino al martirio". Una tale "sbandata cristiana" è in gran parte dovuta alla mancata trasmissione da parte del clero e dei religiosi degli insegnamenti del Vaticano II. La chiesa dovrà compiere un'opera di autocritica e "domandare pubblicamente perdono ai fedeli (secondo l'esempio del CELAM agli amerindi). Infine, il popolo cristiano domanderà pubblicamente perdono alla nazione per non aver saputo evitare l'olocausto, poiché, nella nazione, egli rappresenta la famiglia più numerosa e, in linea teorica, la più "umana"".

Nella diocesi di Kabgay, si sta organizzando una pastorale del perdono, con sessioni d'ammissione pubblica di colpe e di realizzazione di opere di riparazione. Sono già stati coinvolti due gruppi di 5.000 e di 1.700 persone. Forte è ora la precauzione nella somministrazione dei sacramenti.

Il Messaggio dei sacerdoti ai cristiani di Kigali del 27 ottobre, ricorda che in Ruanda dall'aprile 1994 sono morti anche 105 preti, 44 fratelli e 116 religiose, senza contare i laici cristiani. Molti chiedono di rinnovare i sacramenti, "tuttavia l'ampiezza del dramma ci spinge a porci alcune questioni. Innanzitutto poiché sappiamo che tra gli assassini vi sono molti che si dicevano cristiani. Il comportamento malvagio di alcuni con i quali condividiamo la Parola e l'eucaristia ci porta a domandarci se non dobbiamo modificare il modo di preparare e quello di dare i sacramenti".

Il fatto che per ora il Burundi sia stato risparmiato dalla carneficina, non significa che la situazione ecclesiale sia migliore. "L'integrismo etnico" presente nella società è presente anche nella chiesa, affermano alcuni sacerdoti della diocesi di Ngagara in una lettera indirizzata ai vescovi (ANB-BIA 265, 1.10.1994,11). La coscienza cristiana deve interpellarsi circa la "mancanza di rispetto per la vita"; circa una gerarchia che "sembra colta da un letargo tale" da non far nulla di fronte a una crisi così acuta. "Sono i discepoli che comprendono male o sono i maestri che non sanno insegnare?". Spesso la chiesa è intervenuta per scoraggiare l'uso della forza e schierarsi dalla parte della legge, ma non riesce a "elaborare ipotesi di lavoro o schemi di riflessione" che portino a prese di posizione chiare. Essa è all'avanguardia per quanto riguarda i soccorsi, ma troppo attenta a non dare giudizi, a non condannare chi pratica con tutta evidenza l'ingiustizia. L'accusa dei sacerdoti riguarda anche l'azione congiunta degli episcopati ruandesi e burundesi: è dal 1990 che entrambi i paesi hanno almeno un problema comune, quello dei rifugiati; ma solo nel 1992 si è tenuta una conferenza regionale dei vescovi su questo tema.

Il 10 dicembre 1994 si è riunita a Kinshasa l'assemblea plenaria dell'Associazione delle Conferenze episcopali dell'Africa centrale (ACEAC, comprende Burundi, Ruanda e Zaire). Nel loro messaggio i vescovi affermano che i rispettivi paesi "hanno un serio problema di leadership" (La Documentation catholique, 5.2.1995, 144); quest'ultima ricorre spesso a "solidarietà facili, toccando spesso la corda sensibile dell'appartenenza etnica". I genocidi sono pertanto riconducibili a un mero problema politico, in cui i cristiani si sono lasciati coinvolgere. "La chiesa si fa carico del peccato dei suoi figli nella regione e s'impegna a compiere una rilettura della storia di questi tre paesi al fine di contribuire col massimo impegno... a correggere le deviazioni che minano gli spiriti e le società umane". Questo peccato è l'"eresia manichea del ventesimo secolo, derivante da un integrismo etnico abilmente coltivato dall'interno come dall'esterno".

1 Il 4 dicembre scorso il papa ha nominato amministratore apostolico "sede vacante et ad nutum Sanctae Sedis": mons. Thaddée Ntihinyrwa (vescovo di Cyangugu) a Kigali; mons. Frédéric Rubwejanga (vescovo di Kibungo) a Biyumba; mons. Jean-Baptiste Gahamanyi (vescovo di Butare) a Gikongoro; mons. André Sibomana a Kabgayi; p. Antonio Martinez, a Ruhengeri (OR 4.12.1994).

articolo tratto da Il Regno logo

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