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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

Paolo Cereda

Collasso politico, emergenza umanitaria

"Il Regno" n. 16 del 1996

Lungo il sentiero del bananeto dietro le capanne giacciono due corpi di donne: Therèse Mwagiramu, 16 anni, uccisa con la madre il giorno prima del matrimonio. Due vittime, due volti di quei 150.000 morti che insanguinano le colline burundesi dal 21 ottobre 1993.

Genocidio ed esclusione
Da quando fu assassinato Melchior Ndadaye, primo presidente eletto alle urne, il paese è scivolato in una spirale di morte e violenza che mina, forse per sempre, la possibilità di ricostituire una comunità nazionale. Strumentalizzando il genocidio del vicino Ruanda, gli estremisti di ogni sorta scavano il fossato tra le due comunità etniche a colpi di propaganda, disinformazione, massacri e rappresaglie che fanno presa su una popolazione immiserita e ormai allo stremo, che non ha più nulla da perdere se non una vita infame. E che quindi è pronta a tutto, anche a sterminare "il nemico" per garantirsi la sopravvivenza. Julius Nyerere,1 ex presidente della Tanzania e mediatore regionale, sostiene che due parole rivestono un'importanza particolare quando si parla con i burundesi; genocidio ed esclusione.

"Genocidio" è la parola chiave per i tutsi, che sono realmente terrorizzati di essere sterminati alla stessa maniera dei tutsi ruandesi nel 1994. Per questo motivo sono diffidenti di ogni cosa che si richiami alla democrazia intesa come governo della maggioranza e si arroccano al potere usando l'esercito come ultima difesa. Il solo modo per superare questa paura è garantire ai tutsi la sicurezza di cui hanno bisogno. "Esclusione" è invece la parola-chiave per gli hutu, che si sentono sistematicamente esclusi dal potere. E la strategia dei tutsi di impiegare l'esercito per rimanere al potere produce il risentimento degli hutu.

La sanguinosa interruzione del processo democratico, i massacri senza fine, la polarizzazione della società burundese in "hutu e tutsi" rischiano però di far perdere il senso profondo della tragedia di quel popolo, le radici di un conflitto mimetizzato, di una lotta per il potere di gruppi politico-mafiosi senza scrupoli né progetti di società. Per la comunità internazionale l'unica risposta da dare è quella umanitaria, mentre il problema del Burundi non è di natura prevalentemente umanitaria.2 La ricerca di una via d'uscita dalla crisi si è finora orientata verso operazioni di riaggiustamento psicologico delle diverse componenti socio-politiche ed ecclesiali. In realtà la crisi è strutturale: le istituzioni e i meccanismi di produzione e riproduzione sociale non rispondono più alle esigenze della società burundese. In particolare nei settori vitali, come l'esercito e la sicurezza, la giustizia, la sanità, la scuola e l'agricoltura. Fino a quando non si attuino concrete riforme strutturali attraverso progetti visibili di breve, medio e lungo periodo, tutto il resto diventa rattoppo, che ritarda gli appuntamenti storici della gente con le istituzioni che regolano la società.

Le operazioni umanitarie – oggi rese ancor più difficili dall'embargo – hanno portato un sollievo solo temporaneo alla popolazione, distraendo l'attenzione del dibattito politico internazionale, che in questo modo ha un valido alibi per continuare con un profilo basso e con posizioni spesso contraddittorie. Paulo Sergio Pinheiro,3 relatore ONU sui diritti umani in Burundi, ha denunciato con forza l'atteggiamento "scandaloso" della comunità internazionale, le sue promesse non mantenute, i fondi insufficienti per gli osservatori civili, l'incoerenza delle prese di posizione che lasciano i criminali liberi di agire, i messaggi annacquati alle istituzioni di un paese in cui "l'atto di giustizia non è che una farsa".

Le quattro chiese
La chiesa che è in Burundi partecipa ai lutti e alle lacerazioni del suo popolo: i massacri del 1972, la durissima persecuzione durante la dittatura di Bagaza (1976-1987) con l'espulsione dei missionari, le stragi del '93 e il genocidio al contagocce che ne è seguito e che continua. Ogni vescovo, ogni sacerdote o catechista conta diverse vittime tra i suoi familiari, tra i parenti più stretti. Solo quest'anno sono 12 i sacerdoti assassinati nel paese: chiesa crocifissa che aspetta nel silenzio angosciante del sepolcro la risurrezione promessa.

Guerra e violenza stanno spaccandola in quattro:

– la Conferenza episcopale cerca faticosamente di mantenere unità e compattezza. Talora ciò va a scapito di prese di posizione concrete, salvo alcune lettere pastorali4 come quella del 12 giugno scorso dal sottotitolo Non invocate l'appartenenza etnica per giustificare il crimine; tutti gli assassini, hutu o tutsi che siano, sono dei criminali. Le denunce più coraggiose sono invece da ricercarsi a livello individuale del singolo vescovo.

– La chiesa dell'élite tutsi, vicina al partito UPRONA. I preti di questa tendenza sono spesso molto critici nei riguardi della Conferenza episcopale e vorrebbero spingere i vescovi a prendere piuttosto posizioni individuali e operare chiare scelte di campo politico.

– La chiesa del clero hutu – simpatizzante per il FRODEBU e per le altre formazioni, a cui talora fa da consigliera – considera le posizioni dei vescovi troppo blande per mobilitare i cristiani, preferendo tracciare una sua pastorale sociale e politica in modo sotterraneo.5

– La chiesa dei missionari, lacerata e indecisa, che fa fatica a muoversi con determinazione e chiarezza nel contesto attuale, che sfugge loro di mano dopo un secolo di evangelizzazione. Alcuni missionari sono paralizzati dalla paura, mentre altri tentano azioni profetiche e rischiose non sostenute dalla chiesa nel suo insieme. Da qualche tempo, fenomeni di apparizioni (soprattutto della Madonna) e la proliferazione di sette indicano il disorientamento dei cristiani burundesi, la fatica sociale e il bisogno di trasformazioni storiche. A volte si trova la risposta nella fuga interiore, nella consolazione pietistica senza riscatto e speranza, nello spiritualismo. Un sacerdote confessa la difficoltà e la paura, soprattutto dei ragazzi, a partecipare alla messa della domenica in chiesa; hanno paura delle incursioni di militari e bande armate per i reclutamenti forzati.

Il colpo di stato
Oggi la violenza, il sangue e la paura hanno pervaso la società burundese e intaccato profondamente anche la cultura tradizionale e i suoi ammortizzatori e meccanismi di regolazione pacifica dei conflitti. Scontri e rappresaglie si registrano in tutto il paese,che dall'inizio di agosto si trova chiuso in un embargo strettissimo, decretato da Nyerere e attuato con insolito rigore dai paesi della regione (Tanzania, Kenya, Uganda, Ruanda e Zaire) come reazione al colpo di stato di Pierre Buyoya il 25 luglio 1996. Ma ci può essere colpo di stato quando lo stato non esiste più da tempo?

Dopo la morte di Ndadaye il paese non è esploso – come il Ruanda – grazie agli sforzi della Convenzione di governo del marzo '94: un precario negoziato tra Parlamento, Costituzione (uniche istituzioni legittimate dalle urne e non decapitate il 21 ottobre 1993), UPRONA e FRODEBU, esercito e partiti minori reso possibile dalla preziosa mediazione di uomini di chiesa come mons. Ntamwana e mons. Bududira. L'uscita di Nyangoma dal FRODEBU e dalla Convenzione e l'organizzazione del maquis armato del CNDD-FDD e di altri gruppi hutu; le violente risposte dell'esercito e dei giovani squadristi tutsi, inquadrati da personaggi impresentabili come Bagaza e Deo; il Parlamento sempre più sede di scontri e di lotta politica totale; una convivenza ormai virtuale tra il presidente Ntibantunganya (FRODEBU) e il primo ministro Ndwayo (UPRONA) e i massacri quotidiani della popolazione civile, di cui ormai si è perso il conto, hanno gettato il paese in un incubo.

Durante gli ultimi tre anni e mezzo la comunità internazionale è rimasta silenziosa, imbarazzata, preoccupata solo di inviare un po' di aiuti umanitari e di trovare un "saggio" africano a cui affidare la patata bollente e un fiume di dollari per africanizzare la crisi, come è avvenuto in Liberia. Nessuno è più disposto a rischiare di bruciarsi nella trappola burundese, dopo le umilianti esperienze di Restore Hope in Somalia e della Minuar in Ruanda e le prossime elezioni americane e del segretario generale ONU.

Il Burundi è oggi una parabola e una palestra di quanto sta succedendo in Africa e forse nel mondo. Buyoya chiude un ciclo, non può essere letto come elemento di continuità di una guerra etnica. Si deve ricominciare da capo, da zero: ripensare e trovare percorsi originali per quel desiderio non più rinviabile di pace, vita e rispetto della dignità individuale, sociale e culturale di ogni persona. C'è bisogno di verità. Leggere il golpe burundese come un ritorno al passato porta alla conclusione pericolosa che la democrazia non è per l'Africa, che l'illusione delle "primavere" è finita e che le ideologie dell'ordine sono il male minore di fronte a possibili catastrofi umanitarie. Parlare di etnie e tribalismi in presenza di situazioni complesse fa il gioco degli estremisti, copre con il mantello dell'ineluttabilità naturale delle cose processi storici e responsabilità umane oggi sempre più prevedibili. E quindi prevenibili. Chi evita il prisma etnico non vuole rinunciare però a confortanti similitudini: Burundi uguale Sudafrica, tutsi uguale minoranza bianca e hutu maggioranza nera e via discorrendo... Ma in Sudafrica sono state le sanzioni economiche o la guerriglia a liberare Nelson Mandela? O piuttosto non è stato il negoziato a oltranza, il tener conto delle ragioni di tutti e la presenza di politici capaci e preparati a evitare il peggio? In Burundi abbiamo imparato quanto poco valore i "politici" danno alla vita umana e che ruolo nefasto possono giocare i mass-media,6 soprattutto la radio, in mano a estremisti senza scrupoli Abbiamo imparato che per calcolo o paura si può ammazzare o tradire l'amico, il vicino di casa, il compagno di scuola e che i 300 morti di Bugendana hanno causato un golpe mentre per i 1.200 di Gasorwe o Mabayi c'è stato solo un grande silenzio. In Burundi abbiamo imparato che si dice una cosa ma s'intende un'altra, che si bastona il cane per il padrone, che una menzogna raccontata all'infinito diventa verità. Abbiamo imparato a diffidare del ritornello sull'Africa dimenticata, sul continente alla deriva, il 2% del commercio mondiale...

L'Africa interessa molto e a tanti nel nuovo disordine mondiale e le guerre per procura – le Somalie, i Ruanda, le Liberia, Sudan, Angola, Nigeria... – costano meno che quelle in diretta. Abbiamo visto i poveri maledire le ricchezze che hanno sotto i piedi, perchè portano sventure e mofle, e abbiamo guardato verso occidente, verso lo Zaire, verso il tramonto. Forse sta proprio lì una delle "ragioni" della crisi dei Grandi laghi, del genocidio in Ruanda, dei massacri burundesi, di un milione di morti, di tre milioni di rifugiati: quante vite umane vale lo Zaire? Kivu, Shaba-Katanga, i diamanti del Kasai come piramidi del sacrificio? Si sta forse ridisegnando l'Africa, secondo una geopolitica di spartizione, una apartheid tra isole ricche da proteggere con la tutela delle armi e oceani poveri da abbandonare ai massacri e agli aiuti umanitari?

A qualche chilometro da Bujumbura sulla strada semideserta e presidiata incontriamo una donna anziana che ci fa segno di fermarci. Jean, l'autista che ha sempre viaggiato in terza per eventuali rapide inversioni in caso di "problemi", ci guarda. Accostiamo e dagli eucalipti esce una ragazza piegata dalle doglie del parto. Capiamo che bisogna raggiungere in fretta l'ospedale. I militari ci lasciano passare al volo. Marie è una tutsi, il marito hutu è rimasto sulle colline. Chissà se riuscirà a vedere sua figlia. La mazima e la nonna hanno voluto chiamarla Esperance.

1 Cf. l'intervista a J. Nyerere di M.-O. Herman della CCAC di Bruxelles il 4.5.1996.

2 Cf. l'intervento di fr. E. Ntakarutimana op durante l'incontro a Bruxelles su "Burundi: quali azioni delle ONG e delle chiese per la pace, la giustizia e i diritti umani?", 8.2.1996.

3 Cf. Commissione per i diritti dell'uomo, Rapporto sul Burundi, LII sessione, Ginevra, 27.2.1996.

4 Cf., oltre alla lettera pastorale del 12.6.1996, Heureux les artisans de paix, del 1995.

5 L'associazione Iragi Rya Misheli Kayoya raggruppa anche preti hutu delusi dalle prese di posizione dei vescovi.

6 Cf. AA. VV., Les medias de la haine, Reporters sans frontières-La Découverte, Paris 1995.

articolo tratto da Il Regno logo

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