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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

Carlo Carbone

Le radici della violenza

"Il Regno" n. 13 del 1997

L'analisi dei violenti conflitti che attanagliano il Burundi e gli altri paesi della regione (Ruanda, in questi giorni soprattutto Zaire) non può essere limitata alla teoria in base alla quale "le etnie sarebbero il riflesso – introiettato dagli stessi africani – di un pregiudizio europeo dovuto all'incapacità di valutare in modo più appropriato la realtà africana...". Occorre inoltre aprire lo sguardo sull'"abuso del richiamo etnico al fine, politico, di raggiungere e saldamente conservare il controllo della gestione di risorse economiche, che via via si fanno più rarefatte. Abuso tutto contemporaneo e generalizzato in un'Africa subsahariana sempre meno certa del proprio futuro economico e sociale". È questa la tesi del prof. Carlo Carbone, ordinario di Storia e istituzioni dell'Africa presso l'Università della Calabria, sostenuta in una relazione al convegno organizzato dalla Caritas italiana a Roma il 18 aprile scorso nell'ambito della campagna "Grida Burundi". Sulla stessa manifestazione, cf. anche riquadro a p. 000.

Originali: stampa da supporto magnatico. Titoli redazionali.


Premessa

Sempre più spesso lo storico invitato a fornire i cosiddetti "dati di base", come fondamento a una discussione che seguirà avverte la sgradevole sensazione che l'invito vada diventando non molto di più che un rito celebrato per mettere la coscienza in pace con l'esigenza di un approccio "scientifico" alla realtà. Una specie di pedaggio da pagare per poter poi percorrere senza sentimenti di colpevole superficialità le vie dell'analisi sociologica e politica. Un alibi, alla fine, perché le proprie idee abbiano un carta vincente nella partita quotidiana contro idee diverse o opposte.

Ora, a questo rito officiato sull'altare della "obiettività" assistono certo in molti, per quanto con una punta di occulto fastidio, ma, mi pare, pochi sono quelli che vi partecipano veramente.

Il fastidio è causato dal fatto che questa parte della liturgia è percepita come un introito che non fa che ritardare il momento che si aspetta con maggior interesse: quello in cui, finalmente, si potrà discute del presente, delle emergenze cui dare una risposta, del da farsi insomma.

La situazione è frustrante per chi – come lo storico, che di fronte a questo atteggiamento è del tutto impotente – pensa che la conoscenza del passato sia veramente imprescindibile per approssimarsi alla conoscenza del presente ed, eventualmente, per intervenire su di esso in maniera congrua.

C'è, del resto, una versione politico-internazionale di questo atteggiamento. È quello che A.O. Abdallah, il rappresentante speciale di B. Boutros Ghali dal 1993 al 1995, in un suo recente volume ha chiamato la diplomatie pyromane.1 E ricordo che sto parlando di un'amministrazione ONU accusata addirittura di eccessivo interventismo. Una diplomazia, denuncia Abdallah, che – nell'ossessiva rincorsa di emergenze che al bisogno vengono prontamente dichiarate "umanitarie" e di un attivismo purchessia che plachi l'opinione pubblica internazionale – invece di pacificare finisce per rinfocolare le tensioni.

A prendere il caso di cui ci occupiamo ne avremo la controprova decisiva. Quando infatti si parla delle società multietniche odierne dei Grandi laghi, si finisce per cedere a una quantità di luoghi comuni tanto temibili quanto pervicaci. Le stesse caratteristiche di fondo dei conflitti che lacerano le comunità di quella regione sono, di volta in volta, occultate o stravolte. E la cosa si verifica in parte, certo, per ragioni di partito preso, ma spesso solo per pura ignoranza – come dire? – tecnica di quello di cui si parla. Insomma, luoghi comuni, pregiudizi, misconoscenza sono l'effetto diretto di quell'atteggiamento che, anche se spesso nella più perfetta buona fede, consiste nel dare una qualunque, purché immediata risposta all'emergenza.

Esempi clamorosi della pericolosità dei luoghi comuni sono costituiti dalla supposta "secolarità" del conflitto hutu-tutsi, oppure dalla stessa caratteristica etnica del conflitto, che è l'argomento spesso incautamente affrontato per primo sotto la forma retorica della domanda: si tratta, in tutto o in parte, di un conflitto etnico?

A tratti sarà capitato di leggere, in risposta, ora la più determinata negazione, ora la più convinta affermazione. Quanto a me, senza naturalmente la pretesa di essere esauriente (e probabilmente neanche "obiettivo"), mi auguro di dare, attraverso l'esame di qualche elemento storico, una possibilità aggiuntiva di valutazione della questione che è tutto fuorché una questione di "lana caprina": basta pensare che quei "sì" e quei "no" dividono radicalmente le due parti in conflitto.

In considerazione delle profonde interconnessioni nella storia e nelle strutture antropologiche delle varie "subregioni" nella zona dei Grandi laghi, mi pare più produttiva una visione d'insieme del passato della zona, per quanto per grandissimi temi ed escludendo necessariamente, o quasi, il passato precoloniale. Questo non significa che considero come già polticamente identificata quella nuova "entità virtuale", come la definisce un'editoriale della rivista Dialogue2 che sarebbe la regione dei Grandi laghi. Le ipotesi intorno alla sua nascita mi sembrano non solo premature, ma anche pericolosamente confinanti con altre ipotesi di "risistemazione a tavolino" della zona: quelle, per uscire dal generico, che prevedono la creazione di non meglio identificati "tutsiland" e "hutuland", che ai miei occhi hanno un sinistro richiamo deportatorio. La stessa rivista Jeune Afrique3 ce ne ha suggerite di recente almeno un paio: per esempio un "Repubblica tutsi del Kilimangiaro" che raggrupperebbe tutti i tutsi di Burundi, Ruanda, Zaire, Kenia, Uganda, Tanzania, oppure gli "Stati uniti dell'Africa centrale", raggruppanti Burundi, Ruanda, e Tanzania, e via fantasticando. Questa seconda proposta è tanto più sorprendente perché proviene da una persona solitamente seria, come A. Mazrui. Quanto a me, non riesco a vedere in queste soluzioni un atteggiamento meno arbitrario, culturalmente cieco e in ultima analisi violento di quello che i colonialisti adottarono, con pochissime eccezioni, all'epoca della definizione dei confini delle loro colonie.

In effetti, tra gli antichi regni interlacustri, il Burundi e il Ruanda erano miracolosamente sfuggiti a questo tipo di violenza ed è paradossale che corrano questo rischio oggi.

Il pregiudizio eurocentrico

I popoli della regione dei Grandi laghi equatoriali entrano con una certa perplessa e beneducata curiosità a contatto con gli europei (con europei in una fase particolarmente vorace e aggressiva della loro storia economica e culturale) alla fine dell'800.

Se si escludono le fugaci apparizioni nella zona interlacustre, fra il 1858 e il 1871, dei grandi nomi dell'esplorazione europei, i Burton, Speke, Baker, Livingstone e Stanley, è solamente a partire dal 1892 in Burundi e dal 1894 in Ruanda che alcuni viaggiatori tedeschi – un numero ristretto ma non sprovvisto di pregiudizi: Baumann, von Goetzen, von Trotha, Langheld, Bethe, Kandt – attraversano i due paesi. Ne traggono alcune preliminari informazioni da destinare alla realizzazione dell'obiettivo espansionistico, ancora del resto parecchio generico, del Reich.

Quello che vedono – o, almeno in parte, immaginano di vedere – costituisce la conferma della novità cui una sbalordita Europa si era trovata di fronte fin dall'epoca della spedizione napoleonica in Egitto. L'esistenza, cioè, di culture africane che – anche secondo parametri eurocentrici dell'epoca – era impossibile definire selvagge. Gli europei, costretti a metter mano al proprio bagaglio di pregiudizi antropologici, erano posti di fronte all'alternativa fra la soluzione di sbarazzarsene oppure limitarsi a modificare i parametri culturali di riferimento in maniera da far comunque rientrare quella realtà nella loro visione gerarchica della pluralità delle culture (che è un eufemismo per dire: nel loro razzismo). Non si trattava solo di spiegarsi la lontananza "fisica" dei cosiddetti "nilotici" dallo stereotipo negroide, ma, soprattutto, la grande complessità delle strutture politiche e culturali della civiltà egiziana del passato.

Alla fine dell'800, l'incontro con la civiltà interlacustre, l'ultima – e certo fra le più sorprendenti – con la quale gli europei entrano in contatto, indurrà più o meno la stessa reazione, fronteggiata però con strumenti per così dire "laici": quelli dell'antropologia positivista e "antropometrica". Anche in questo caso la sorpresa non è solo per la vistosa "diversità" dei batutsi dallo stereotipo negroide ma per l'impudente somiglianza delle strutture politiche delle monarchie pastorali con alcune di quelle europee.

Dal più generale punto di vista della visione europea del mondo, questo nuovo incontro confermerà la scelta fatta nel primo Ottocento, la modifica, cioè, dei parametri di riferimento: nientedimeno che la rivisitazione e, per così dire, la "riforma" dell'Antico Testamento per reinterpretare il mito, ora non più sostenibile, della indiscriminata condanna della discendenza di Cam.

Si trattava dell'introduzione di un nuovo mito camitico con la distinzione dei "negri", figli di Canaan, designati ora come i soli destinatari della malediazione di Noè, dagli altri discendenti di Cam. Al gruppo di questi ultimi – promossi, per così dire, al rango di "nilotici" e definiti "di origine caucasica", resi quindi prossimi ai semiti e salvi così dalla condanna – vengono ascritti anche i batutsi, troppo poco "negri", agli occhi degli europei, perché possano essere indisciminatamente associati alla condanna che comunque continua a insistere sugli altri.

Segnalo, per inciso, una divertente circostanza riportata da J.-P. Chrétien.4 In riferimento al sincretismo culturale dei barundi e dei bayarwanda (che in questo caso però significa solo confuso assorbimento, oltre che, mi si consenta di dire, straripante fantasia) insieme allo straordinario potere autodiffusivo della cultura europea, Chrètien ricordava che in uno scritto rundi del '44 si trovava l'allusione a un Kami, "padre di tutti i neri" che era inoltre (etimologicamente) ritenuto l'antenato dei Bami (plurale di mwami: re).

Ho fatto questa lunga premessa per sottolineare non tanto l'ostinazione del pregiudizio eurocentrico quanto il fatto che la scala di valori a esso relativa deforma la realtà africana con una interpretazione razzista anche quando concede a una parte degli africani – e nonostante tale loro qualità – l'appartenenza alla specie comune.

La traduzione operativa di tale ideologia consisterà nel protrarsi per tutta la prima metà del secolo di una politica europea (amministrativa e missionaria, ché fra le due c'è una pressoché totale sintonia di valutazioni e di obiettivi) indirizzata a consolidare il legame privilegiato con il ceto dirigente locale, il gruppo tutsi, cui è asseganta – in virtù di una "naturale attitudine al governo" e di un'"evidente superiorità intellettuale" – la funzione coloniale centrale per l'esercizio indiretto del governo.

Gli hutu rimarranno invece destinatari di una politica di pura assistenza caritativa almeno fino alla seconda metà degli anni '50 quando, la chiesa con lieve anticipo, il vice-governatorato generale a seguire, inizieranno una rapida manovra di sganciamento che, fra il 1957 e il 1959, li porterà armi e bagagli al loro fianco.

I tedeschi fino al 1916, i belgi dopo, fissano così, in un quadro gerarchico irrigidito e divenuto pertanto astorico, quei ruoli politici che in epoca precoloniale erano stati invece molto elastici. Parlo di ruoli mutevoli quanto mutevoli erano via via le condizioni generali del rapporto interetnico che esprimeva quei ruoli.

I belgi, in particolare, una volta scelto l'orientamento di amministrazione coloniale analogo per più versi all'indirect rule inglese, operano senza esitazione per instaurare con l'apparato politico-amministrativo locale (che per comodità potremmo chiamare "sistema tutsi hutu") un rapporto di ferrea interdipendenza. Dall'una parte i tutsi apporteranno in sostegno all'amministrazione la loro tradizione di controllo della politica e dell'economia rurale, dall'altra i belgi rafforzeranno e amplieranno il sistema trovato in loco attraverso l'incondizionato appoggio, anche militare, al consolidamento del potere dei due bami e dei gruppi etnico-sociali al momento egemoni: prevalentemente, cioè, i batutsi.

Una stessa storia per due destini

Come è noto il Burundi e il Ruanda hanno avuto una storia coloniale pressoché parallela, sia per ragioni di ordine storico interno (una significativa somiglianza delle strutture e del percorso precoloniale) sia, soprattutto, per ragioni di ordine propriamente amministrativo.

Come i tedeschi così, dal 1917, i belgi hanno adottato una politica comune per i due paesi, in particolare utilizzando, nei limiti del possibile, le autorità tradizionali (il sistema chiamato "governo indiretto") oppure adoperando la forza, soprattutto l'allontanamento dei capi indigeni che non collaboravano. È una politica che arriverà alla deposizione (dicembre 1930) del re Yuhi V Musinga del Ruanda in favore di suo figlio Mutara III Rudahigwa, allevato dai padri bianchi, ma anche del re Kabare Rugemaninzi del Bushi congolese. Procedura diffusa, del resto, nella regione (l'adottavano anche gli inglesi con il re Kanyoni del Buha) ove i risultati che si attendevano tardassero ad arrivare nell'uno o nell'altro regno interlacustre.

Ma questa politica "muscolosa" non verrà applicata al mwami del Burundi Mwambutsa IV Bangiricenge. Questo è un vistoso segnale di differenza, e non già della politica belga. L'atteggiamento belga non è certo ascrivibile, come si disse, alle caratteristiche psicologiche, diciamo così, remissive o asteniche di Mwambutsa, ma è un segnale della differenza della situazione istituzionale del Burundi rispetto al Ruanda e della diversa reattività dell'uno e dell'altro paese al colonialismo: uno storico murundi ricorda che "sur le plan pratique il est inutil de supprimer un roi sans pouvoir réel".5 In Burundi, in assenza di un potere centrale forte, è il "...résident...qui fut et reste le mwami véritable".6

Da un lato, quindi, politica di mantenimento dell'unità dei regni, ma dall'altro, attenuazione del potere monarchico dove appare incontrollabile. Tutto ciò, comunque, solo dopo aver conquistato alla causa europea, con la forza o con i favori, i detentori tradizionali del potere. Confessa senza alcuno scrupolo un pur raffinato intellettuale liberal come P. Ryckmans (allora residente, poi vicegovernatore generale, poi governatore generale): "Ce n'est pas par amour de la tradition, de la couleur locale, du pittoresque, que nous conservons les rois indigènes. Qu'on bride leurs pouvoirs s'il le faut, s'ils sont de peu de valeur ou de mediocre devouement, mais qu'on ne touche pas à leur existence ni à leur prestige exstérieur. Ils sont le décor familier qui nous permet d'agir dans la coulisse sans alarmer la peuple".7

Da questo punto di vista in epoca coloniale è stata perseguita un'omologazione forzosa – ma con risultati alla fine parecchio differenti – sia fra Burundi e Ruanda sia nei rapporti fra il re e i grandi capi all'interno dei due paesi, rapporti che erano stati molto diversi in epoca precoloniale. Un'omologazione originata dall'esigenza di raggiungere l'obiettivo massimo (la riduzione delle velleità di autonomia delle forze politiche tradizionali) con lo sforzo economico/militare/amministrativo minimo.

I belgi arrivano addirittura, nel 1925, a unificare l'amministrazione dei loro tre territori (Congo, Ruanda, Burundi, i quali ultimi diventano infatti un vicegovernatorato generale) violando di fatto un'espressa disposizione della Società delle nazioni che prevedeva per i "mandati", quali erano Burundi e Ruanda, una amministrazione separata, e diversa, rispetto alle colonie come il Congo (ricordo che, a differenza delle colonie, almeno in teoria, i mandati erano affidati dalla Società delle nazioni alle varie potenze perché li governassero nel rispetto di certe garanzie per gli indigeni).

Quanto ai due paesi, le differenze fondamentali cui accennavo riguardavano le strutture politiche e le relazioni fra etnie e clan in epoca precoloniale e il peso che questo passato esercitava sul libero esercizio del potere coloniale. Se la mancanza di spazio può giustificare un approccio grossolano: il potere assoluto dei mwami del Ruanda aveva dato all'inizio molto filo da torcere ai belgi che erano arrivati addirittura alla sua destituzione. Ma una volta ridotta a più miti consigli, la monarchia – con la sua egemonia sull'intero paese, consolidata o addirittura estesa con l'aiuto del potere coloniale – si era rivelata il miglior presidio del sistema europeo. In Burundi invece le cose erano andate in maniera opposta: qui la periferizzazione del potere tradizionale e la sua relativa attenuazione per un verso aveva consentito al potere belga una diffusione più agevole e rapida, per l'altro aveva impedito una penetrazione duratura e in profondità.

La seconda fase coloniale: la frattura etnica

Nel bene e nel male, l'origine delle istituzioni statuali – come ci appaiono oggi, ampiamente mutuate dallo stato di impianto europeo – sta piuttosto nella seconda fase coloniale (per quanto l'origine della loro disfunzione stia invece nei periodi precedenti).

Nella storia istituzionale d'epoca coloniale dei due regni il fenomeno più generale e considerevole è costituito senz'altro dalla cosiddetta "grande riorganizzazione amministrativa" che si distende su un lungo periodo, ma in particolare negli anni 1929-1933.

Durante questo periodo, e finalizzate alla sua realizzazione, si attuano le politiche cui ho già accennato: 1) la decisa riduzione del potere di resistenza politica, anche solo passiva, dei grandi responsabili politici tradizionali, hutu e tutsi (che giunge, l'ho ricordato, alla destituzione di uno dei re) e 2) un altrettanto deciso incremento dei poteri amministrativi di quella stessa categoria di grandi e medi capi (cosa che per il Ruanda costituisce una vera novità), attraverso la riduzione del numero e l'accorpamento delle chefferies.

Si dà il caso, lo ricordo, che quella categoria di capi sarà sempre più esclusivamente tutsi. E la circostanza prescinde naturalmente da una specifica attitudine dei tutsi al comando, specificità che è solo supposta e che sta piuttosto nella testa degli europei che nella realtà delle cose.

Con questo importante corpo di provvedimenti che definiscono anche da un punto di vista formale la scelta filo-tutsi dei colonialisti, interagisce, ovviamente, in maniera imprevista, la grande crisi del 1929 (che si manifesta in Europa e nelle colonie con un paio di anni di ritardo) la quale è a sua volta aggravata dagli esiti di una lunghissima carestia che semina fame, sottoalimentazione e persino morte sia in Ruanda che in Burundi fra il 1928 e il 1930.

Vi è inoltre una ulteriore causa, strutturale questa, concorrente allo scompenso economico e sociale: la scelta belga di utilizzare i banyarwanda e i barundi per sovvenire al bisogno in Zaire di mano d'opera delle compagnie minerarie del Katanga, nel Kasai orientale, del Maniema e dei piantatori del Kivu (in quest'ultima regione il picco di emigrazione è più tardo e si colloca fra il 1936 e il 1954). Sta qui, vi accennerò dopo, l'origine della questione della cittadinanza dei cosiddetti banyarwanda del Kivu che sarà a sua volta causa contingente della crisi del 1996 e del suo stupefacente dilagare.

Per limitarmi agli effetti più duraturi dirò intanto che la riorganizzazione amministrativa non solo favorisce esclusivamente i batutsi, destinatari unici, ormai, dei compiti e dei privilegi legati all'amministrazione indiretta, ma finisce per escludere dalla rete locale della gestione dell'economia, della giustizia e della politica tradizionale i bahutu che pure ne erano parte integrante.

E non è solo attraverso la promozione sociale di tipo europeizzante dei batutsi – e, in particolare, dei capi che vanno divenendo un ceto separato – ma anche attraverso la generalizzazione del tutto arbitraria della loro egemonia (cui concorre in maniera convinta e determinante la chiesa cattolica) e l'introduzione di una regolamentazione giuridica che la rende rigida e fissa, che i belgi si rendono responsabili dell'origine di una frattura che, non concernendo classi ma etnie, con il peggiorare dei termini economici della convivenza, diventerà frattura etnica.

Certo l'intervento riformatore non è sempre stato una passeggiata. È bensì vero, infatti, che in Burundi il notevole decentramento del potere della corte (che viene di fatto esercitato dalle aristocrazie locali, i baganwa) consente effettivamente ai belgi una penetrazione ideologica e politica progressiva tutto sommato piuttosto agevole. Ma in Ruanda, al contrario, nonostante il pesante appoggio coloniale all'allargamento e alla definizione dei confini del paese, sarà solo con la destituzione dell'irriducibile mwami, Mutara III Rudahigwa, che i belgi verranno a capo della riluttanza della corte e dei batutsi. Per i primi trent'anni del secolo i tutsi ruandesi si dimostrano per un verso, in virtù di una tradizionale gestione assoluta del potere, desiderosi di difendere i residui e non foss'altro che i simulacri della loro indipendenza, conservando alcune nicchie di potere e di cultura tradizionale, per l'altro appaiono parecchio incerti, e spesso divisi, sull'effettiva utilità della difesa a oltranza di un passato sempre più evidentemente irrecuperabile.

È però nel periodo dell'acutizzazione continentale della crisi delle indipendenze, a cavallo dei decenni 1950-1960, che si rivelano decisive per il futuro dei due paesi le differenze strutturali cui ho accennato. Voglio dire che, se guardiamo al Ruanda, la "conquista interna" di questo compatto sistema monarchico, intorno al 1930, con la capitolazione (anche culturale) della corte, mette autenticamente fine alla sua capacità di resistenza (non dico che la destituzione di Musinga causi questa fine ma, per così dire, la sigilla). E la riprova sta nel fatto che nel 1959 i belgi non faranno alcuna fatica a fronteggiare le velleità dei tutsi indipendentisti semplicemente rovesciando le loro tradizionali alleanze e spostando tutto il peso della loro presenza economica, politica e militare sul piatto hutu della bilancia. Dall'altra parte il Burundi "regionalistico", il Burundi il cui mwami delega ai baganwa l'esercizio concreto del potere politico, conserva più a lungo una certa capacità di azione e di manovra politica. È una capacità certo minore e perciò stesso meno preoccupante, ma in qualche modo ingannevole per i belgi, perché più diffusa e alimentata appunto presso i numerosi centri locali di potere. I belgi con ogni evidenza avevano comunque sottovalutato il clima anticoloniale che aveva penetrato anche il sonnolento Burundi. Del resto, a ben guardare le vicende del 1958-1960 in Congo, essi non erano nuovi a sottovalutazioni del genere (ancora nel 1955 uno dei più ascoltati esperti belgi di questioni coloniali, J. van Bilsen, pubblicava un "Piano di trent'anni per l'emancipazione dell'Africa belga").8

Le due diverse condizioni genereranno due diverse soluzioni: il Ruanda che va all'indipendenza avendo abbattuto la monarchia e il potere tutsi con l'aiuto dei belgi, improvvisamente illuminati e convertiti alla causa hutu, una volta spento l'incendio del 1959-1962, resterà sotto la rassicurante protezione europea; il Burundi monarchico conserverà bensì un'ampia autonomia d'azione esterna ma non si sottrarrà a un avvenire di crisi interne sempre più laceranti, a cominciare da quella che, nel 1965, pur opponendo prevalentemente due gruppi tutsi – i banyaruguru ai bahima (gli hutu non costituiscono allora che una massa di manovra) – darà inizio al confronto interetnico vero e proprio.

Il realtà la situazione politico-etnica dei Grandi laghi, a partire dalla seconda metà degli anni '50, nella sua costante instabilità, presenta aspetti e momenti grandemente variabili. E questo sia dal punto di vista del grado di tensione interna ai singoli paesi, sia da quello dei rapporti internazionali.

La sovrapposizione e la confusione di interessi locali e di interessi metropolitani che stanno all'origine del problema etnico come problema sociale e politico cominciano oggi a emergere dalle riflessioni dirette o indirette di alcuni osservatori (fra i belgi Braeckman e Reyntjens per tutti)9 circa la percezione che le comunità etniche metropolitane hanno avuto della questione etnica in Burundi e Ruanda. La Braeckman in particolare sottolinea anche nel suo ultimo lavoro sulla regione la perdurante identificazione della parte cattolica, rurale e fiamminga (e politicamente social-cristiana) dell'opinione pubblica del suo paese – la cui traduzione "colta" e accademica, sembra suggerire, sarebbe l'opera di F. Reyntjens – con il popolo hutu la cui lotta anti-tutsi viene volentieri vista come metafora della opposizione sociale fiamminga alla locale borghesia francofona.10

Ora mentre non mi pare da escludere che fra i moventi di natura psicologica dello schierarsi odierno ci sia anche questo, ritengo che la stessa motivazione non era certamente centrale nella seconda metà degli anni '50, quando il cosiddetto problema sociale hutu era appena nato alla consapevolezza dei belgi. A quell'epoca era piuttosto l'implicazione locale e internazionale di quella che sarei tentato di chiamarei "laicità" tutsi – più quella politica che quella propriamente religiosa – a impressionare e intimorire i responsabili del morente colonialismo belga. E, beninteso, sullo sfondo agivano altresì altri tipi di polarizzazione: cattolici/laici, certo, ma anche Vaticano/missionari, clero indigeno/gerarchia.

C'era poi, naturalmente, di più. In particolare nella prima metà degli anni '60 è l'intrecciarsi degli interessi locali, degli interessi metropolitani e degli interessi internazionali legati alla crisi congolese – ivi compresi quelli relativi al confronto fra i blocchi cui il Congo costituiva uno dei teatri – a rendere parecchio ingarbugliata la matassa politica nei Grandi laghi. Il confronto etnico-politico s'infiammerà rapidamente e l'incendio, alimentato da questo nuovo "combustibile internazionale", sarà trasformato – com'era regola che succedesse in quegl'anni – in confronto comunismo/anticomunismo (con tutto quello che di improprio, anzi di grottesco, questo scivolamento di segno comporta).11 E questo suo nuovo segno finirà per giustificare qualunque tipo d'intervento: diretto o indiretto, interno o esterno (rivoluzione hutu in Ruanda, assassinio dei primi ministri Rwangasore nell'ottobre del 1961 e Ngendandumwe nel gennaio 1965 in Burundi, ecc.). Tutto ciò avrà ancora un peso fino alla crisi burundese del 1965, così a ridosso della cosiddetta crisi dei mercenari nell'onnicondizionante Congo.

Il peso dello Zaire

Esattamente come oggi, il peso del Congo/Zaire sui paesi circostanti consisteva sia della sua intrinseca capacità di condizionamento generale, dovuta puramente e semplicemente alla sua taglia, sia delle possibilità di manovra internazionale offerte dalla caratteristica (comune, del resto, alla maggioranza degli stati ex-coloniali, ma accentuata in uno Zaire che confina con ben nove stati), di avere confini territoriali del tutto indipendenti da quelli etnici. È bensì vero che questa seconda circostanza può consentire, di volta in volta, di esercitare o di subire pressioni, ma il caso dei suoi rapporti con i microscopici vicini orientali era stato, almeno finora, per così dire a senso unico.

A voler tornare per un momento al Congo belga, troveremo che l'orientamento economico cui ho prima accennato che inserisce il Burundi e il Ruanda nei piani coloniali relativi al Kivu e al nord Katanga, si può far risalire in linea di massima alla grande depressione del 1929-1935.

Si trattava non tanto di alleggerire la pressione demografica sui due territori in amministrazione fiduciaria – già allora parecchio popolati ma non ancora vicini alla soglia di pericolo demografico che sarà invece superata negli anni '50 – quanto di mettere a coltura quella specie di semidesertico paradiso terrestre che erano le valli del Kivu centrosettentrionale. E in questa regione confinante fu effettivamente avviato, in particolare fra il 1936 e il 1954,12 un certo numero di banyarwanda – e un numero minore di barundi – che del resto vi trovarono, già installati da secoli, parecchie colonie di pastori e qualche gruppo di coltivatori. Tutsi e hutu che abitavano e talvolta governavano piccoli regni di volta in volta alleati o in conflitto con le comunità autoctone (hunde, nyanga) a loro volta assorbite o sfuggite al controllo del Ruanda (si veda il caso di Idjwi, del Masisi, di Rutshuru, di Goma, per esempio, o del Kigezi, nell'attuale Uganda).

L'immigrazione spontanea e talvolta clandestina continuò poi per tutto il periodo coloniale ed anche dopo – si pensi ai rifugiati politici installatisi in Kivu a ondate successive a partire dal 1959 – ampliando e diversificando i settori di inserimento e raggiungendo in nord Kivu la percentuale di almeno il 40% (70% nel Masisi) fra hutu e tutsi.

Il fenomeno non fu senza conseguenze d'ordine sociale. L'emigrazione dal Ruanda degli anni '50, essendo per lo più una emigrazione politica, e di livello socioeconomico relativamente elevato, trasferiva in Kivu anche una certa quantità di piccoli capitali che furono rapidamente e con successo messi a frutto sia nel settore agropastorale e nell'acquisto di terra che nel piccolo commercio. A poco a poco i cosiddetti banyarwanda si trovarono così a disporre di risorse economiche (e del connesso peso sociale) tali da suscitare crescenti malumori e gelosie. Su questo ordine di piccoli contrasti locali – divenuti nei primi anni '90 vero e proprio scontro etnico – ha ampiamente giocato il governo di Kinshasa e i suoi referenti locali, ora per intimorire i banyarwanda agitando la questione della cittadinanza e alimentando al loro interno l'attrito hutu/tutsi, ora per sollecitare presso bahunde, banande, banyanga, ecc. appoggio politico e elettorale in funzione anti-banyarwanda.13

Ma è prevalentemente nei primi cinque anni dell'indipendenza congolese che il Ruanda (fino alla vittoria della rivoluzione hutu), ma soprattutto il Burundi finiscono per avere – talvolta loro malgrado – un ruolo politico internazionale certo sproporzionato alla loro taglia. Il Burundi infatti, con la scelta di campo "non allineata", come allora veniva definita la linea dei paesi che non volevano (o non potevano) schierarsi, apre alla Cina (RPC) comunista (l'ambasciata della RPC a Bujumbura sarà aperta nel gennaio 1964), cosa che in quegli anni è considerato poco meno che una dichiarazione di ostilità all'universo mondo. Ricordo che si tratta degli anni in cui la RPC è in aperto conflitto con l'URSS, senza però avere ancora annodato quella discreta trama antisovietica che la avvicinerà agli Stati Uniti di Nixon e poi persino al Cile di Pinochet. Bujumbura decide inoltre di garantire una testa di ponte alle forze d'ispirazione lumumbista che si battono in Congo per il ripristino degli equilibri sconvolti fin dal primo colpo di stato di Mobutu all'indomani dell'indipendenza. Nell'agosto 1964 saranno rotte le relazioni diplomatiche con il Congo del neo presidente ed ex secessionista Tshombe, direttamente responsabile, insieme a Mobutu, dell'assassinio di Lumumba. Non è solo a titolo di curiosità ma per segnalare l'importanza strategica che era assegnata all'area, che ricordo che nel 1965 un giovanissimo (credo non avesse più di 25 anni) ma già importante rivoluzionario muluba del Katanga, L. Kabila – lo stesso odierno inopinato capo dei ribelli zairesi banyamulenge – faceva il suo apprendistato politico-militare con E. Che Guevara sulle montagne che fronteggiano il Burundi al di là del lago Tanganika.

A partire dal 1965 gli elementi e gli interessi interni saranno invece prevalenti e determinanti. Parlo delle crisi del 1972, del 1988 e del 1996 in Burundi e del 1990-1996 in Ruanda, crisi queste inframmezzate da periodi d'"incomprensibile" calma.

Questo tipo d'instabilità ha certamente a che fare con le caratteristiche del conflitto e dei confliggenti ma le risposte che vengono date alla questione sono di volta in volta o del tutto orientate a interpretazioni a carattere etnicistico (l'"imprevedibile esplosione dell'odio etnico", più o meno "secolare") o, invece, del tutto orientate a negare tale carattere (il conflitto e la sua specifica violenza hanno solo carattere politico; i politici "sfruttano" l'etnicità, praticano l'"etnicismo").

Ritornerò fra poco sugli aspetti teorici di quel tipo di analisi. Ora alcuni dati cronologici sui due più drammatici eccessi di furore etnico-politico in Burundi, a cominciare dal "flagello", come è dai barundi chiamato per antonomasia il 1972.

Scorriamo gli avvenimenti del 1965-1966: assassinio del primo ministro – hutu – P. Ngendandumwe; tentativo di colpo di stato hutu, massacro di tutsi e repressione; rovesciamento del re Mwambutsa IV e intronizzazione di suo figlio, Charles Ndizeye (col nome dinastico di Ntare V) con l'appoggio dei tutsi "emergenti" del sud, bahima; colpo di stato dei bahima di Bururi contro i vecchi clan tutsi del nord legato alla monarchia che viene abbattuta (Ndizeye viene ucciso all'inizio del golpe del 1972); vittoria netta – ma non definitiva: sarà definitiva solo nel 1972 – dei tutsi del sud.

A questa vittoria seguirà l'abbandono della secolare pratica delle alleanze interetniche regionali che avevano spesso visto i bahutu dalla stessa parte dei batutsi del nord. Sconfitti definitivamente questi ultimi, i bahutu usciranno, per così dire, dall'orizzonte politico dei batutsi di Bururi e bisognerà aspettare Buyoya perché vi rientrino.

Se conveniamo sull'ipotesi che questi avvenimenti costituiscono la prima vera frattura nel vecchio e generalizzato equilibrio clanico-etnico-regionale, ci spiegheremo forse più agevolmente la crescita esponenziale della violenza. Una crescita che da quella data diventa vertiginosa in ragione dell'apparire – per la prima volta in maniera così netta – del rapidissimo propagarsi di un processo di progressivo irrigidimento delle solidarietà meramente etniche che tendono ora a diventare monolitiche ed esclusive di qualunque altra solidarietà, sociale o regionale; i tutsi, mettendo temporaneamente la sordina alle tradizionali rivalità, tenderanno a serrare le fila al loro interno; gli hutu avranno ragioni tanto più pressanti quanto minori diventano i loro spazi socio-economici per fare lo stesso.14

Nel 1972 le cose sono a questo punto quando il tentativo hutu di rovesciare il sistema garantito dall'hima Micombero – e già allora fondato su un rigoroso controllo dell'esercito – fa divampare l'immane carneficina: da 15 a 20.000 tutsi e da 150 a 200.000 hutu sterminati. Mi limito a definirla carneficina perché non posso entrare, in questa sede, nel merito della questione se essa costituisca o meno un "genocidio", o un "doppio genocidio", o un "genocidio selettivo" – come è stata da questo o quell'autore definita – questione che ha fra gli altri un pesante risvolto giuridico internazionale.15

Certo è che fra il 1972 e il 1988 corrono 16 anni e alcune differenze. A partire dal 1974 il sistema politico rafforza drasticamente il ruolo del presidente della repubblica e del partito (unico) Union pour le progrès national (UPRONA) e quando nel 1976 un colpo di stato porta al potere, in sostituzione di Micombero, suo "cugino" Bagaza (1976-1987), non saranno gli equilibri istituzionali a mutare, nonostante la promulgazione di una terza Costituzione. Saranno piuttosto i poteri per così dire "ufficiosi" a pagare il loro contributo al rafforzamento del gruppo di Bururi: non mi riferisco solo al consueto giro di vite nella presenza hutu in politica, ma soprattutto alla chiesa cattolica e all'organizzazione missionaria che, fra il 1984 e il 1987, accusate di unilateralità per il loro esplicito sostegno alle ragioni degli hutu, subiscono varie forme di repressione, ivi compreso un ampio ricorso alle espulsioni.

Ma il peso della chiesa in Burundi è tale che le prime misure del nuovo presidente, P. Buyoya (1987-1993) – il terzo militare dello stesso comune meridionale di Rutovu, e anch'egli issatosi alla presidenza tramite un colpo di stato – sono prese in funzione di una pacificazione religiosa.

Il problema etnico però rimane vivissimo. Anche se Buyoya è storicamente accreditato di un nuovo, più liberale e realistico approccio alla questione dell'associazione dei bahutu alla cosa pubblica, meno di un anno dopo la sua assunzione del potere, nell'agosto 1988, una nuova violenta crisi scuote il paese. Massacri di tutsi nel nord e immediata repressione militare: da 15 a 30.000 morti tra gli hutu. Le cose, in altri termini sfuggono totalmente di mano al governo che, entro certi limiti, è anch'egli ostaggio dei due estremismi hutu e tutsi:16 il partito Palipehutu e i circoli militari, l'uno e gli altri senza esitazioni circa l'ipotesi dell'inevitabilità del ricorso alla forza.

Ambedue le etnie sono del resto prigioniere di un'ossessiva paura,17 quella del 1972, l'anno in cui il ricorso alla forza è stato per la prima volta terroristico e senza condizioni.

Il ritorno, propiziato da Buyoya, alla democrazia elettorale nel 1993 non si rivelerà sufficiente di per sé a garantire la convivenza. E la luttuosa vicenda Ndadaye, così come la fragilità di Ntibantungaya ne sono solo la facile prova ex post, ma anche un'ipoteca sul futuro da prendere molto sul serio.

La consistenza delle etnie

Le persone che sono qui hanno una qualche familiarità con le questioni che abbiamo affrontato o sfiorato. Ma la circostanza, anziché rassicurarmi, mi rende non solo più cauto ma per qualche verso preoccupato. Il motivo è presto detto: alcuni dei temi che seguono finiranno quasi inevitabilmente per urtare la suscettibilità politica o gli stessi orientamenti scientifici dell'uno o dell'altro. Il tema dei rapporti fra i gruppi umani nei Grandi laghi sembra fatto apposta per dar conto dell'apparente paradosso di una scienza "suscettibile". O almeno di scienziati suscettibili.

Dati i crudi fatti che sono a nostra conoscenza, e data la massa ormai sterminata di informazioni circa quei fatti, per districare la matassa delle ipotesi, delle valutazioni, dei giudizi, dei pregiudizi, è imprescindibile un'ulteriore riflessione sul passato.

Cominciamo – vi siamo costretti – con una questione solo apparentemente terminologica. Degli attuali stati di cui ci occupiamo, il Burundi e il Ruanda in maniera esclusiva, ma – in misura minore, decrescente e minoritaria – anche l'Uganda, lo Zaire orientale e la Tanzania, sono abitati da gruppi umani che ancor oggi, dopo secoli di meticciato (mai intenso ma sempre rilevabile) si riconoscono e sono riconosciuti sia dal punto di vista antropologico-culturale, che socio-economico come hutu, tutsi, twa. Come avete sentito ho usato il termine pudico di "gruppi umani", perché il termine storico – che pure a me sembra appropriato, e che anzi da questo momento non esiterò a usare – quello di "etnie" è da una decina d'anni variamente contestato. Anche se ci sono contestazioni radicali (in particolare, per il caso dei Grandi laghi, da parte dello storico francese J.-P. Chrétien) e contestazioni filtrate da incertezze o parziali resipiscenze (per esempio quelle degli storici barundi J. Gahama o E. Mworoha).

Ora, visto che un termine è significativo – ovvero perde di significato – a seconda che si riferisca o meno a una realtà (a seconda che sia o meno "l'etichetta" di una cosa, direbbe J. Vansina, il grande studioso dell'Africa centrale),18 sarei più preciso se dicessi piuttosto che a essere rifiutata è l'esistenza stessa della realtà sociale che il termine "etnia" sottende. Un rifiuto, peraltro, non sempre convinto né convincente, almeno quando – come talvolta è successo in questo caso – viene dall'adesione a quella che a mio modo di vedere ha finito per divenire – ovviamente prescindendo dalle intenzioni e dagli scopi scientifici dei suoi primi divulgatori – una specie di moda culturale.

Alludo alla cosiddetta "invenzione coloniale delle etnie", che – insieme alla vera o presunta individuazione di un diluvio di altre "invenzioni", "costruzioni", "creazioni" che a partire dalla metà degli anni '80 si è rovesciata sugli studiosi – è indicativa di un empito di riprovazione revisionista che ha dell'iconoclasta (riguardino termini o avvenimenti, decine di titoli contengono ormai questa parola). Le etnie non sarebbero altro che il riflesso – introiettato poi dagli stessi africani – di un pregiudizio europeo dovuto all'incapacità di valutare in modo più appropriato la realtà africana.

La valutazione ha sicuramente elementi di verità, ma, nel caso del Ruanda e del Burundi, la percepibile sopravvivenza dei dati di autoidentificabilità e reciproca riconoscibilità etnica è a mio avviso altrettanto significativa quanto lo stesso abuso che ne è stato fatto. I tre elementi comuni che fanno dei due paesi quella che noi europei chiamiamo una "nazione": territorio, lingua, religione, non mettono di per sè in discussione l'identificazione etnica di ciascun murundi e munyarwanda (quale che sia il valore di quella specie di gioco di parole – improntato, per lo più, al desiderio di compiacere o di sostenere coloro che sono impegnati alla pacificazione – che consiste nel dichiararsi tutsi o hutu di nome e ruandesi di cognome o viceversa).

Fatte queste considerazioni preliminari, sarà più agevole cercare di spiegarsi come sulla stessa esistenza storica e attuale delle etnie in questione si sia giocato e si continui a giocare una partita politica delle più gravide di conseguenze. Il problema potrebbe essere posto in questi termini:

a) Se le etnie, in quanto invenzione coloniale, non hanno profondità né legittimazione storica, una volta eliminata la loro "nefasta" influenza, la relativamente pacifica convivenza precoloniale e coloniale fra bahutu, batutsi e batwa può rivivere. In altri termini (se si escludono i batwa che hanno elaborato – o subito, a seconda dei periodi storici – una "separatezza" cruda, certo, ma al tempo stesso protettiva) una volta venuto meno l'elemento di conflitto fra i due gruppi principali costituiti, secondo i sostenitori di tale tesi, dal confronto etnico (che è nato col colonialismo, quindi è in qualche modo estraneo alla tradizione locale), quella pacifica convivenza d'epoca precoloniale avrebbe la possibilità – ancorché astratta – di essere riprodotta ancora oggi. La sola condizione è che con gelida determinazione chirurgica l'etnia venga negata, rinnegata ed espulsa dal "foro interiore" degli individui e delle comunità subsahariane. E che di conseguenza non s'invochi alcuna forma di partizione del potere a essa legata che porterebbe a riaccendere il richiamo etnico di cui si vuole invece confermare la caratteristica di escrescenza coloniale illegittima perché storicamente infondata;

b) se invece alle etnie si riconosce, per così dire, passato precoloniale, legittimazione tradizionale e valore socio-culturale, il richiamo a quel passato giustificherà, da parte di coloro che se ne reputano espropriati, o che a vario titolo sono frustrati dal presente, la richiesta di un risarcimento che, in alternativa alla violenza e in nome della democrazia moderna, non potrà essere che il ricorso all'inflessibilità dei numeri – maggioranza/minoranza – piuttosto che alla mediazione politica e al compromesso.

Non è un caso che a sostegno della prima tesi ci siano per lo più i batutsi, mentre la seconda raggruppa la grande maggioranza dei bahutu.

In considerazione della complessità della situazione e delle contraddizioni e incongruenze che ambedue le tesi qua e là contengono sarà necessario spendervi ancora qualche parola.

Se esaminiamo la tesi sub a) non possiamo non ricordare in via preliminare che effettivamente nessun intervento di un qualche valore scientifico ha finora dimostrato che il confronto fra bahutu e batutsi (quale che sia la definizione del loro raggruppamento) abbia mai raggiunto – prima degli anni '50 di questo secolo – un livello di conflittualità e di efferatezza paragonabile, anche solo lontanamente, a quello contemporaneo. Nel complesso, il lunghissimo periodo (XIII-XX secolo) nel corso del quale si sono strutturati gli stati attuali, all'interno degli attuali confini e delle istituzioni immediatamente precoloniali, ha consentito un lento processo di assimilazione politica ed economica. Quanto invece all'assimilazione psicologica, lo stesso Vansina che pure nega ai gruppi hutu e tutsi la qualifica pura e semplice di etnie, sostiene che "n'eut jamais lieu".19

I dati attuali – certo non numerosissimi ma non contraddittori – testimoniano di una coesistenza "mediamente" (si ricordi che stiamo parlando della progressiva fusione, distesa su otto secoli, di numerosi piccoli gruppi) pacifica e per lo più ben integrata, sia da un punto di vista economico che politico. Quando parlo d'integrazione economica e politica mi riferisco naturalmente all'interscambio agro-pastorale, ai sistemi di protezione e difesa reciproca nell'ambito dei legami personali e di lignaggio e all'istituzione monarchica diffusa e accettata nella regione.

Ammettere quindi l'esistenza di due gruppi autocoscienti e reciprocamente riconosciuti non comporta necessariamente ipostatizzare il conflitto. Il conflitto anzi – fenomeno dell'ultimo quarantennio, e sull'origine del quale tornerò – esige spiegazioni d'altro tipo. Si tratterà in particolare di quelle legate all'abuso del richiamo etnico al fine, politico, di raggiungere e saldamente conservare il controllo della gestione di risorse economiche che via via si fanno più rarefatte. Abuso tutto contemporaneo e, del resto, generalizzato in un'Africa subsahariana sempre meno certa del proprio futuro economico e sociale e, secondo il mio modo di vedere, generato proprio da questa nuova incertezza (per la prima volta anzi l'individuo africano tende a divenire – soprattutto per il processo d'inurbamento – autenticamente e su scala di massa "solitario", per usare l'aggettivo dell'antropologo C. Turnbull).

Ma se si conviene sulla considerazione che l'obiettivo dell'eliminazione dell'abuso politico della realtà etnica non comporta necessariamente – e comunque non consente di ipotizzare a cuor leggero – l'abolizione d'autorità di quella realtà (per quanto in presenza di ipotesi scientifiche che ne negano l'esistenza precoloniale), il presente postcoloniale, come il passato precoloniale, apparirà compatibile con la compresenza sul territorio delle due etnie senza dover negar loro dignità storica e sociale e, beninteso, a patto che vengano trovati e messi in opera nuovi equilibri socio-economici e istituzionali. Equilibri che siano conformi a una situazione ben diversa da quella che quaranta od ottant'anni fa garantiva una coesistenza senza problemi, o almeno senza problemi che non potessero essere sormontati con lo strumentario socio-istituzionale tradizionale.

La tesi sub b) – quella, lo ricordo, che nella mia partizione di comodo, nel riconoscere l'esistenza storica e una residua funzione attuale alle etnie, vuole farne discendere la meccanica e proporzionale rappresentatività politica – mostra, per la sua parte, altri elementi di fragilità teorica (quanto alla sua pericolosità politica, essa è sotto gli occhi di tutti).

Il riconoscimento della realtà storica e antropologica delle etnie non può infatti essere limitato – come di fatto avviene – al suo valore per così dire "immediatamente spendibile" sul piano dell'odierna gestione politica delle risorse. Ma deve dare pieno riconoscimento alla realtà di un passato in cui la coesistenza era effettiva. E lo era sia dal punto di vista della politica interna a singole compagini multietniche (si può fare l'esempio del Burundi, sia dal punto di vista delle relazioni internazionali fra compagini multietniche governate da monarchie di estrazione etnica diversa (si veda il caso dei rapporti fra il nucleo originario del regno ruandese, nel Ruanda centrale, e gli altri regni periferici che sarebbero stati poi via via assorbiti o persi entro i primi decenni del secolo).

Alla diversità della situazione odierna che abbiamo prima evocato bisognerà certo dare una risposta nuova; e la novità consisterà nel farsi carico, attraverso una concreta difesa dei diritti delle minoranze (non foss'altro che quello all'esistenza) – accanto a quelli della maggioranza – di un paio di problemi sconosciuti al Burundi e al Ruanda precoloniali: quello specifico della sovrappopolazione e quello, più diffuso, della crescente difficoltà a partecipare di un'economia urbana che sembra paradossalmente più condannare che favorire la serenità dei rapporti umani nell'Africa contemporanea.

C'è poi naturalmente da prendere in considerazione l'apporto di natura più specificamente economica che la comunità internazionale e le singole organizzazioni di cooperazione sono chiamate a fornire.

Ora è per lo più noto o comunque immaginabile quante volte inconsapevolmente – e talvolta, purtroppo, consapevolmente – le cosiddette operazione di emergenza, e non solo quelle militari, abbiano in realtà affiancato o coperto vere e proprie attività politiche di sostegno all'una o all'altra delle due parti che dovevano invece essere riconciliate. Il caso più clamoroso e per molti aspetti scoperto, nella vicenda di cui ci stiamo occupando, è ovviamente quello noto come "operazione Turquoise". Ma persino interventi meno ufficiali e risonanti – non esclusi alcuni riferibili a organizzazioni umanitarie o a ONG – hanno ceduto a inclinazioni di parte. La circostanza è certo comprensibile e in qualche caso anche spiegabile in considerazione delle condizioni di estrema difficoltà in cui gli interventi s'inserivano. Voglio dire che mentre non trovo scandaloso che non si sia usato il bilancino per un'equa distribuzione degli aiuti e che si sia finito per favorire gli uni a scapito degli altri, mi sarei aspettato una maggiore consapevolezza da parte degli enti di distribuzione nel caso dei campi profughi ruandesi in Zaire, dove gli autori del genocidio hanno trovato nella gestione degli aiuti umanitari internazionali un possente e forse insperato strumento di controllo politico. Sono del resto certo che se, per così dire, si giocasse a carte scoperte, cioè sapendo d'intervenire, sapendo su cosa s'interviene e rinunciano alla luciferina pretesa di essere al di sopra delle parti, si renderebbe un servizio non solo più trasparente ma sicuramente meno invasivo.

1 A. Abdallah, La diplomatie pyromane (Burundi, Rwanda, Somalie, Bosnie...), Calman-Lévy, Paris 1996.

2 C. Karemano, "Au mèpris de la vie", in Dialogue, Kigali - Bruxelles, n. 194, 1996, 1.

3 20-26.11.1996, 17 e 1-7.1.1997, 31.

4 J.-P. Chretien, "Confronting the unequal exchange of the oral and the written", in B. Jewsiewicki, D. Newbury (a cura di), African Historiographies. What History for Wich Africa?, Sage Publications, Beverly Hills 1986, 75-90.

5 J. Gahama, Le Burundi sous administation belge, Karthala, Paris 1983, 81.

6 Ibidem.

7 P. Ryckmans in Congo, 1925, 407-413, citato da J. Gahama, Le Burundi..., op. cit., 97.

8 A.A.J. van Bilsen, "Un plan de trente ans pour l'émancipation de l'Afrique belge", in Les Dossiers de l'Action Sociale Catholique, 33 (febbraio 1956), n. 2: ma la sua prima edizione in fiammingo è del dicembre 1955.

9 Cf.C. Braeckman, Terreur Africaine. Burundi, Rwanda, Zaïre: les racines de la violence, Fayard, Paris 1996; F. Reyntjens, Burundi 1972-1988. Continuité et changement, CEDAF ("Le Cahiers du CEDAF", n. 5), Bruxelles 1989; Id., L'Afrique des Grands Lacs en crise. Rwanda, Burundi: 1988-1994, Karthala, Paris 1994.

10 C. Braeckman, Terreur..., op. cit., 43.

11 Credo che l'etichetta comunista attaccata nel '59-'60 ai tutsi del Ruanda, come poi, nel '62-'64 a quelli del Burundi, sia, da un punto di vista storico, un abuso. Dal più ristretto punto di vista di coloro che temevano il comunismo, d'altra parte, una esagerazione. Su Les Temps Modernes dell'aprile 1964 un tutsi ruandese che si firmava con lo pseudonimo di Djuma Mbogo affermava che fra i suoi compagni dell'U.N.A.R., il partito nazionalista e in buona parte monarchico del Ruanda, non c'erano marxisti a eccezione di uno studente che sosteneva di aver letto Il Manifesto. D. Mbogo, "Le drame du Rwanda", in Les Temps Modernes, 19(1964), 215, 1821-1832.

12 A. Guichaoua precisa che: "L'installation organisée de rwandais au Zaïre... prendra une dimension massive... aprés 1949. Le gouverneur du Kivu est alors doté d'une "Mission d'Immigration des Banyarwanda" qui se verra attribuer plus de 150.000 hectares", in A. Guichaoua, Le problème des réfugiés rwandais et des populations banyarwanda dans la région des Grands Lacs Africains, Haut Commissariat des Nations Unies pour les Réfugiés, Genève maggio 1992, 31.

13 La vicenda ha assunto un rilievo giuridico e politico molto serio a causa della pretesa dello Zaire di ritirare la cittadinanza zairese a tutti i cosiddetti "banyarwanda", identificati in coloro che parlano kinyarwanda, la maggior parte dei quali ne avrebbe invece pieno diritto. Si veda O.N. Rurihose, "La nationalité de la population zairoise d'expression kinyarwanda au regard de la loi du 29 juin 1981", in Dialogue, n. 192, 1996, 3-32 e Gouvernement de transition du Zaïre - Ministère de la communication et presse, Conflits politico-etniques au Zaïre. Livre Blanc sur la situation de Droits de l'Homme dans les Provinces du Shaba (Katanga) et du Nord-Kivu, 1993, 25-40.

14 Mi pare che alcune argomentazioni di Reyntjens non divergano sostanzialmente. Cf. F. Reyntjens, Burundi 75.

15 Mentre queste definizioni appaiono comprensibili da un punto di vista politico, più complicato sembra farle corrispondere a una fattispecie giuridica. Non esiste infatti quella del "doppio genocidio" né, tanto meno, quella del "genocidio selettivo" che potrebbe forse rientrare in quella, più generale, di "genocidio". Il concetto di "genocidio selettivo", per significare il piano di sterminio degli strati sociali più elevati fra i bahutu del Burundi nel 1972 è stato introdotto da R. Lemarchand,D. Martin, Selective genocide in Burundi, Minority Rights Group, London lulgio 1974. Più recentemente è stato utilizzato da F. Reyntjens in una sua Postface a P. De Dorlodot, Le réfugiés rwandais à Bukavu au Zaïre. De nouveaux Palestiniens?, Groupe Jeremie/L'Harmattan, Paris 1996.

16 Termine e concetto di Reyntjens, in F. Reyntjens, Burundi 48.

17 Termine e concetto di Chrétien, in J.-P. Chrétien, A. Guichaoua, G. Le Jeune, La crise août 1998 au Burundi, Editions Afera, Paris 1989, 48.

18 Cf. J. Vansina, Paths in the Rainforests, James Currey, London 1990.

19 J. Vansina, L'evolution de royaume Rwanda des origines à 1900, Académie royale des Sciences d'Outre-Mer, 1962, 1.


articolo tratto da Il Regno logo

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