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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

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Maria Elisabetta Gandolfi

Ancora schiavi. L’impegno limitato di Bush per l’Africa

"Il Regno" n. 14 del 2003

Bush non invierà truppe statunitensi in Liberia. O almeno non invierà una forza militare solo statunitense. Al primo tour africano del presidente degli Stati Uniti (7-12.7.2003) molte erano le aspettative in proposito: «Vi assicuro – si è limitato a dire Bush – che parteciperemo al processo» per la pacificazione del tormentato, piccolo paese dell’Africa occidentale che, pur portando nel nome uno dei principi fondamentali dei diritti umani e civili, la libertà, è sempre più intrappolato nella spirale della guerra.

Ricco dal punto di vista delle risorse naturali – le più importanti delle quali sono diamanti, legno e petrolio – la Liberia, a partire dalla fine della Guerra fredda, ha conosciuto una situazione di guerriglia semi-permanente (cf. Regno-att. 2,1992,41; 8,1993,220; 14, 1995,430) che, a fasi alterne quanto a intensità ed estensione, attanaglia la popolazione, il paese e l’intera regione con cui confina: Sierra Leone, Costa d’Avorio e Guinea. Ci sono forti analogie con il caso, più esteso, dell’attuale Repubblica democratica del Congo, dove le milizie guidate da questo o quel «signore della guerra» traggono maggiori profitti dal conflitto che dalla pace, dove le strutture statali sono assenti ed è così possibile vessare la popolazione a proprio piacimento, dove sono coinvolte numerose potenze regionali.

Assicurazioni
Uno dei motivi che avrebbe potuto spingere Bush a intervenire direttamente, e non a inviare solo una quindicina di militari per compiere una ricognizione delle esigenze umanitarie della popolazione (7 luglio), poteva essere la questione umanitaria. È da gennaio in particolare che i combattimenti si sono fatti più aspri tra il presidente liberiano Charles Taylor – l’ex ribelle che ha studiato negli USA, eletto poi nel 1997 presidente – e la guerriglia dei Liberians United for Reconciliation and Democracy (LURD, la cui matrice, afferma Taylor, è il fondamentalismo islamico, cui si è affiancato il Movement for Democracy and Elections in Liberia (MODEL). A fine giugno, il fronte anti-Taylor ha raggiunto la capitale e l’ha cinta d’assedio. Le decine di migliaia di persone che lì si erano rifugiate scappando dall’Est sono alla fame e il colera ha fatto numerose vittime. I 40.000 che si sono ammassati nello stadio sono alla fame, gli ospedali mancano di tutto. L’arcivescovo di Monrovia, mons. Michael Francis, ha detto: «Gli Stati Uniti hanno il dovere morale d’intervenire. Abbiamo bisogno di una forza che mantenga la pace, disarmi i belligeranti e dia una qualche forma di sicurezza».

Questa situazione, che purtroppo non è diversa da quella del Congo, né dalle altre guerre civili passate e recenti del continente africano, avrebbe una maggiore ragione d’interesse per il presidente degli Stati Uniti a motivo delle radici storiche che legano i fondatori dello stato liberiano con gli USA. 150 anni fa, infatti, alcuni schiavi liberati, americani di origine africana, diedero vita a un proprio stato che divenne per gli Stati Uniti, nei tempi della Guerra fredda, l’avamposto per le proprie truppe che dovevano tenere sotto controllo Gheddafi e i suoi alleati.

Forte anche di questo, il segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, ha scritto una lettera al Consiglio di sicurezza dell’ONU (28 giugno), chiedendo l’invio di una forza internazionale per il mantenimento della pace che sia guidata da «un membro permanente del Consiglio», allusione neppure troppo velata agli Stati Uniti. Ma dal Consiglio – che in passato si è espresso con risoluzioni che ponevano l’embargo contro le armi, i diamanti, i viaggi all’estero di Taylor e dei suoi familiari – non è arrivata risposta.

Il secondo e altrettanto grave motivo che poteva favorire un intervento statunitense era la notizia, resa nota il 4 giugno, che il presidente Charles Taylor era stato incriminato già il 7 marzo dal Tribunale speciale dell’ONU che in Sierra Leone giudica i crimini commessi durante la sanguinosa guerra locale, i quali, ha detto il procuratore generale del tribunale, David Crane, «portano inequivocabilmente a Taylor». Egli è il secondo capo di stato in carica, dopo Milosevic, a dover rispondere di gravi crimini contro l’umanità, quali stupri, mutilazioni, torture, uso di bambini soldato.1 Taylor ha dapprima detto che si sarebbe fatto da parte se questa era la volontà popolare; poi ha affermato che avrebbe aspettato il momento migliore per non provocare una carneficina con la sua partenza; infine, dopo un accordo con il presidente nigeriano, Olesung Obasanjo, che si era detto disposto a offrirgli asilo, Taylor non è ancora partito.

Gli Stati Uniti non riconoscono se non limitatamente la giurisdizione dei tribunali ONU e hanno firmato con diversi stati del mondo accordi bilaterali in base ai quali le truppe statunitensi non verranno estradate da questi alla Corte penale internazionale. Bush quindi si è limitato a chiedere che Taylor si facesse da parte per il bene del paese. Taylor ha allora rispolverato una sua vecchia accusa, quella, cioè, secondo la quale gli Stati Uniti avrebbero appoggiato sia il LURD, sia il MODEL, offrendo loro addestramento militare in territorio guineiano.

È vero anche che in America è ancora fresco il ricordo dell’inutile quanto sanguinosa campagna militare in Somalia del 1993, dove persero la vita 18 marines, e la situazione di disastro umanitario rimase sostanzialmente invariata. Inoltre, l’attuale clima in cui si trovano i militari statunitensi in Iraq fa pensare al Ministero della difesa americano che i propri militari non siano i poliziotti del mondo.

La forza del commercio
Ma la Somalia ricorda oggi a Bush una minaccia ben presente e reale: quella del fondamentalismo islamico a cui, proprio in terra africana, non per convinzione ma per quelle sacche di anarchia particolarmente favorevoli a chi è ricercato in mezzo mondo, viene offerto rifugio. Dei tre scopi che si era dato Bush partendo alla volta dell’Africa, democrazia, lotta all’AIDS, commercio, è quest’ultimo quello che sta maggiormente a cuore agli Stati Uniti.

Ciò infatti significa aprire il proprio mercato in generale – il che non può che fare bene all’economia statunitense –, ma soprattutto significa far circolare benessere che minimizzi il risentimento che la povertà induce nei confronti degli Stati Uniti, ottimo terreno per lo sviluppo del fondamentalismo; significa anche togliere terreno a organizzazioni come Al Qaeda che nei traffici di armi in cambio di diamanti e legname liberiani alimentano vere e proprie economie.

Per questo pare ragionevole l’appello dell’organizzazione non governativa inglese Global Witness – che studia il legame tra sfruttamento delle risorse naturali e violazioni dei diritti umani – indirizzato a Bush: per «fermare i conflitti e le violazioni dei diritti umani e promuovere lo sviluppo, l’appropriazione indebita delle risorse naturali dell’Africa deve essere al primo punto dell’agenda di Bush. Legname, petrolio, diamanti e altre risorse naturali hanno finanziato guerre civili brutali in tutta l’Africa e attualmente finanziano i conflitti in Liberia e nella Repubblica democratica del Congo. Recenti prove scoperte da Global Witness dimostrano inoltre che i diamanti sono stati usati da Al Qaeda per finanziare le proprie attività e per riciclare denaro sporco, mettendo a rischio non solo la sicurezza regionale ma quella internazionale».

1 Il procuratore ha giustificato il ritardo nel rendere noto il provvedimento sostenendo che finché Taylor rimaneva in Liberia la sua cattura sarebbe stata impossibile. In quei giorni invece egli si trovava in Ghana per discutere un «cessate il fuoco», e il suo arresto era possibile, anche se non è chiaro da parte di chi. Ulteriori testimonianze affermano poi che sarebbero stati militari a lui vicini ad assassinare in maggio Sam Bockarie, uno dei suoi fedeli comandanti, ma anche potenziale scomodo testimone in Sierra Leone e in Liberia, anch’egli incriminato dal Tribunale ONU. Oltre a Bockarie sono stati assassinati sua moglie, sua madre e tre dei suoi figli.


articolo tratto da Il Regno logo


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