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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

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Maria Elisabetta Gandolfi

40 anni nel deserto

"Il Regno" n. 18 del 1997

Incontriamo per la prima volta mons. G. Zubeir Wako, arcivescovo di Khartoum. I rapporti col governo e con la guerriglia. La persecuzione dei cristiani e dei rifugiati costretti a vivere di sabbia. Una chiesa di catecumeni e di catechisti. Il bisogno di pace.


Mons. Zubeir, arcivescovo di Khartoum e presidente della Sudan Catholic Bishops' Conference, è a Roma con tutti i vescovi sudanesi per la visita ad limina. Manca solo il vescovo R. Deng Majak di Wau, bloccato in Sudan a causa della guerra che assedia la sua diocesi. Incontro mons. Zubeir presso la Casa dei padri bianchi e parliamo del quadro politico ed ecclesiale del suo paese.

– Mons. Zubeir, chi è oggi al governo in Sudan?

"Questo governo ha preso il potere con un colpo di stato militare nel 1989, guidato da Omar el Bechir. All'inizio si pensava fosse un golpe militare come tanti, ma col tempo si è capito che era stato organizzato dai Fratelli musulmani. In poco tempo essi hanno preso il controllo del governo e dell'amministrazione pubblica e i posti strategici sono stati assegnati a simpatizzanti o a membri del loro gruppo. Il loro principale obiettivo è quello di riportare il Sudan alle radici islamiche e arabe, sulla base delle quali vogliono definire l'identità del paese. Il loro è un programma d'islamizzazione a tutto campo, che va dall'occupazione dei centri di potere alla cultura (in particolare la scuola), ai mass media, all'esercito".

- Nel Sud la guerriglia è il governo – Esiste un'opposizione politica ai Fratelli musulmani al di fuori di quella armata del Sudan People’s Liberation Army (SPLA) di John Garang nel Sud?

"È quasi impossibile che in Sudan esista un'opposizione politica. Recentemente il governo islamico ha cercato il dialogo, soprattutto con i politici del Sud, ma tale dialogo non mira alegittimare un'opposizione rispetto al governo, bensì a farla passare dalla propria parte. In questi ultimi tempi il governo ha tentato di avviare un dialogo anche con la chiesa; ma la gente è restia, non ha fiducia e sente che questa apertura è solo un modo per assorbire nel sistema quelli che pensano diversamente. Ci sono tanti gruppi d'opposizione, anche a Khartoum, nel Nord, e sono arabi, musulmani: ma i capi dei due maggiori gruppi religiosi musulmani sono in esilio fuori dal paese e si sono uniti con il leader della guerriglia del Sud, John Garang: Sadiq el Mahdi (il primo ministro rovesciato dal colpo di stato di Bechir) e Osman el Mirghani hanno infatti dato vita alla National Democratic Alliance (NDA), operativa dal giugno scorso".

– Al Sud, invece, la guerriglia dello SPLA combatte dal 1983 – anche se Nord e Sud sono in lotta sin dal 1955. Dallo SPLA, già a partire dal 1991, si sono staccate via via formazioni politico-militari autonome. Nell'aprile scorso alcuni di questi gruppi hanno firmato con il governo il Khartoum Peace Agreement sul futuro del Sud, ora diventato legge dello stato. Secondo lei che prospettive hanno questi gruppi?

"Mi sembra che il gruppo di Garang sia l'unico veramente in grado di combattere. Gli altri si sono formalmente alleati col governo, firmando l'accordo di pace. Tuttavia anche prima dell'accordo erano già dalla parte del governo, perché ricevevano da esso aiuti militari mentre erano in lotta tra loro e contro Garang. Adesso esiste solo Garang e i suoi. Gli altri gruppi non hanno più vita autonoma in quanto esistono solo come alleati del governo, anche se ufficialmente sono definiti gruppi di opposizione".

– I loro leader affermano di essere usciti dallo SPLA per i metodi autoritari di Garang.

"Forse un tempo Garang guidava in maniera assolutistica la guerriglia. È vero che anche adesso nessuno prende decisioni senza il suo assenso; ma ultimamente sembra aver cambiato sistema, in quanto sta organizzando una struttura politica e sta costruendo un'amministrazione civile nei territori che ha occupato nel Sud. Si è accorto che il metodo che usava prima non andava bene".

– È una svolta nella guida dello SPLA?

"Sì, sembra che voglia che i militari facciano i militari e i civili tengano in mano l'organizzazione dei villaggi".

– C'è chi sostiene che la chiesa, specialmente quella del Sud, mantenga rapporti troppo stretti con lo SPLA. In particolare dopo la firma (24.7.1997) della Dichiarazione di Yei da parte del New Sudan Council of Churches (NSCC) e dello SPLM/A (movimento e gruppo armato). In essa si auspica, tra l'altro: la costituzione di un organismo di collegamento permanente tra SPLM/A e NSCC; che la chiesa possa trovare strade di riconciliazione e unità per i gruppi e movimenti che lottano per la liberazione del Sud; che venga esplorata la possibilità di assegnare cappellani a servizio dei soldati dello SPLA; che vengano istituiti corsi di formazione sui diritti umani per i soldati e la popolazione.

"Non è vero che il NSCC mantiene rapporti stretti con la guerriglia, ma piuttosto è vero che tenta con essa un lavoro comune, perché lì, nelle foreste del Sud, la guerriglia è il governo; è inevitabile instaurare dei rapporti di collaborazione. La riunione che ha visto la nascita del documento congiunto era stata prevista anche per chiarire alcune posizioni critiche che le chiese hanno assunto nei confronti della guerriglia. La chiesa non può sempre accettare tutto quello che fanno i guerriglieri, perché essa ha come parametro di riferimento la propria fede. In passato sono stati rapiti bambini in alcune scuole cattoliche, e, nell'agosto 1996, 4 sacerdoti e 2 suore sono stati imprigionati dallo SPLA. La chiesa ha parlato molto chiaramente in difesa dei diritti umani e anche grazie alla pressione dei media internazionali queste azioni sono state condannate. Dopo questi episodi è risultato necessario un chiarimento per porre termine a un simile atteggiamento. Il documento riassume i punti principali su cui vi erano le maggiori divergenze".

Il prezzo della guerra

– Questa guerra dura da 14 anni. Che cosa ha significato per la popolazione, per la chiesa, ma anche per i rapporti tra cristiani e musulmani?

"È una guerra troppo lunga, feroce, con troppi morti, con gente costretta ad abbandonare le proprie case nel Sud senza sapere dove andare: secondo le stime dell'ONU si tratta di due milioni e mezzo di persone. Ciò ha comportato una profonda modifica del sistema sociale, innanzitutto perché i principali mezzi di sostentamento vengono meno. Chi era pastore, adesso non ha bestiame, e deve cercarsi un altro modo per vivere; chi era contadino – l'agricoltura è il principale mezzo di sostentamento del Sud perché il terreno è fertile – ora non può più coltivare. Tutte queste persone dipendono solo dagli aiuti che vengono dall'esterno. Manca il lavoro, anche per quelli che sono al Nord.

Un altro aspetto è quello dei legami familiari spezzati dalla guerra, un fatto che ha un grande peso specialmente sui giovani. Ancora, la guerra ha influito anche sulla vita della chiesa, perché al Sud vi sono almeno quattro diocesi isolate. Altre, quelle che sono nelle città in mano al governo sudanese, possono lavorare solo nei centri principali. In questo modo tanti cristiani che ne vivono al di fuori non hanno contatto diretto col loro vescovo, anche se alcuni vescovi sono riusciti ad andare nelle foreste e arrivare a questa gente. Ma manca il personale, mancano anche i mezzi di trasporto, perché si tratta di distanze enormi; inoltre vi sono difficoltà legate alla sicurezza, per la presenza di gruppi armati nelle foreste, per i bombardamenti aerei da parte del governo.

Nonostante questo, la gente sta scoprendo l'importanza della fede. Grazie alla fede, la gente può dare un senso alla vita. È vero che a causa della guerra i conflitti entrano nelle comunità cristiane e i conflitti tra villaggi e tribù diventano i conflitti tra comunità cristiane. Noi però abbiamo il compito di fare da mediatori, di ricordare loro che sono cristiani e che in quanto cristiani non ci sono più le divisioni delle tribù, abbiamo solo la "tribù" di Cristo.

Un altro problema è quello dell'educazione. Da quando la guerra è cominciata il livello d'istruzione del paese è crollato. C'è il pericolo di avere generazioni intere senza istruzione e questo in futuro sarà un problema, se vorremo avere una pace duratura. Per questo come chiesa facciamo il possibile per mantenere le scuole per rifugiati anche nei villaggi e nelle foreste dove il governo non può arrivare. Ma come conservare queste scuole se la gente non ha i mezzi per contribuirvi? Riceviamo l'aiuto di alcune agenzie di cooperazione, ma da un lato ogni anno in Sudan i prezzi crescono, dall'altro alle agenzie di cooperazione occidentale oggi il Sudan interessa meno: c'è il rischio che esse a un certo punto rinuncino ad aiutarci".

Cacciati nel deserto

– Oltre alla mancanza di mezzi vi è anche un altro ostacolo: il governo. Nel corso del 1997 esso ha mandato propri ufficiali per abbattere i centri multifunzionali per i rifugiati del Nord, che servono da scuola, punto di ritrovo, luogo di culto.

"Sì, c'è ostilità e non sappiamo perché. Le scuole sono state approvate dal Ministero dell'educazione, ma c'è sempre qualche nuovo ostacolo, nuove ragioni per distruggerle. A volte si dice che è per la pianificazione della città, altre volte che le scuole sorgono in posizioni proibite, altre ancora che mancano i permessi: allora portiamo i permessi e cercano un'altro motivo per farci chiudere. Ciò che non riusciamo a capire è il perché di tutto questo. Queste scuole funzionano bene; l'anno scorso una di queste è risultata la prima classificata nella sua provincia, e secondo i parametri fissati in base all'islam".

– Il governo vi lascia svolgere la vostra attività pastorale liberamente?

"Nel 1992 distruggevano le baraccopoli dei rifugiati per spingerli nel deserto: donne e bambini venuti dal Sud, ma anche vedove di militari del Nord, che per la perdita in guerra del marito non hanno di che vivere. Abbiamo cercato di aiutarli seguendoli; poi i campi venivano spinti sempre più nel deserto, costringendoci a spostare tutto per seguirli. Ora ostacolano i centri per i rifugiati delle città del Nord: il governo dice che sono abusivi, che li abbiamo costruiti dove non si doveva; e sono arrivati a sostenere che non bisognava costruire le chiese e i centri di preghiera nei quartieri abitati. Allora abbiamo domandato perché le moschee potevano stare nei quartieri abitati, ma senza avere risposta. Poi hanno cambiato tutto, e siamo stati costretti a registrare tutti i centri a mio nome e ora dicono che questi sono terreni di un singolo, di un cittadino che abusivamente ha costruito scuole e chiese. Ho risposto loro che ho dovuto registrare i centri a nome mio per il loro rifiuto di farlo a nome della chiesa cattolica o a nome dell'arcidiocesi; avevo anche proposto di registrarli nella persona dell'arcivescovo di Khartoum, ma me l'hanno impedito. Allora ho chiesto di registrarli a mio nome, ricevendo inizialmente una risposta positiva. Ora invece è cominciata questa azione di distruzione sistematica: distruggono anche le case della gente, specialmente dei profughi. Ho protestato, dicendo che questa non poteva essere definita una pianificazione, perché il criterio di una pianificazione è quello che va in favore della gente. Pianificare un quartiere dove vive la gente significa fare in modo che trovino dove andare in alternativa e non lasciarli lì sotto il sole o la pioggia. Tali distruzioni avvengono infatti durante la stagione fredda, da settembre a febbraio, o durante la stagione delle piogge, da giugno ad agosto".

– Con la guerra come si è modificato il rapporto con la popolazione musulmana? È possibile una convivenza pacifica in Sudan tra cristiani e musulmani?

"In teoria una coesistenza pacifica è possibile. In pratica il governo sta facendo di tutto per strumentalizzare i musulmani. Ad esempio, nell'arruolamento di milizie islamiche si teorizza la necessità di avere soldati pronti ad andare in prima linea a difendere la propria terra, la propria fede; lo slogan della guerra è sulla base della fede islamica. È impossibile che la gente da sola consideri la guerra con questa finalità. È invece la propaganda del governo che ne ha fatto una guerra di religione; in questo modo molti di quelli che si arruolano nell'esercito, credono di andare a difendere l'islam, anche se non si capisce contro chi".

– Non ci sono voci discordanti rispetto a questa interpretazione dell'islam?

"Chi ha parlato apertamente è finito in carcere. Affermava che la guerra contro il sud non poteva essere una guerra religiosa, una jihad, perché aveva come scopo la difesa all'interno della nostra terra. Muovere guerra a chi vive nella stessa terra non è l'idea islamica di jihad".

La chiesa che resiste

– Passiamo a descrivere la situazione della chiesa cattolica, che ha due diocesi al nord e sette al sud. Quanti sono i cattolici, i seminaristi, quale attività pastorale viene svolta?

"A Khartoum siamo due vescovi, io e l'ausiliare, mons. Daniel Adwok: egli regge una parte dell'arcidiocesi che in futuro vorremmo diventasse autonoma. Pensiamo che i cristiani siano tra 2,5-3 milioni: è solo una stima che si basa sulla frequenza alla messa, specialmente nelle feste più importanti, poiché durante la prima guerra (1955-1972) i registri sono andati distrutti. Siamo undici vescovi, di cui un amministratore apostolico. Nel seminario maggiore abbiamo 129 seminaristi, e circa 90 studenti in filosofia – dico circa perché sono partito prima dell'apertura dell'anno e non so se tutti sono rientrati. La sede del seminario maggiore è a Juba, ma a causa della guerra e del fatto che ai missionari non veniva dato il permesso di recarsi a Juba, l'abbiamo trasferita a Khartoum. Questo è l'unico seminario maggiore in Sudan".

– Per la chiesa sudanese, in un territorio di 2,5 milioni di kmq il ruolo dei laici è fondamentale. Come è strutturato il loro lavoro? Quali le principali necessità pastorali?

"I catechisti sono ora i principali operatori per ciò che riguarda l'evangelizzazione ma anche il lavoro apostolico nelle comunità. Infatti ai sacerdoti è concesso stare solo nelle città, quelli che lavorano nelle foreste sono pochissimi, e non potendo coprire tutto il lavoro pastorale sono coadiuvati dai catechisti; essi sono importanti comunque, anche dove i sacerdoti sono numerosi. Infatti le conversioni al cristianesimo sono molte, ma esse avvengono grazie all'operato dei catechisti. Così avviene anche per il catecumenato. I sacerdoti fanno da supervisori, il lavoro di evangelizzazione è dei catechisti".

– E per quanto riguarda il catecumenato, quanti sono i battesimi di adulti e di bambini?

"Il catecumenato è una caratteristica specifica della chiesa del Nord, perché al Sud parecchi erano già stati battezzati da bambini e per loro è più urgente un approfondimento della catechesi. Al Nord, invece, abbiamo più adulti non cristiani e per questo abbiamo un programma di catecumenato. Nella mia diocesi, cerchiamo di seguire l'itinerario al catecumenato secondo le direttive del Rito dell'iniziazione cristiana degli adulti, in cui si prevede una preparazione di almeno un anno. Nella diocesi di Khartoum ogni anno battezziamo 4.000 catecumeni adulti".

– A che religione appartenevano prima i catecumeni, all'islam?

"Alle religioni tradizionali; le conversioni dall'islam non sono tante".

– Con la vostra lettera pastorale sull'apostasia (cf. Regno-doc. 7,1996,236) avete attirato l'attenzione sui cristiani che passano all'islam. Quanti sono?

"C'è stato un momento in cui sembrava fossero molti, ma comincio a pensare che fosse più un'azione di propaganda del governo che un processo di reale conversione. Inoltre, anche alcuni di quelli che si diceva fossero passati all'islam venivano la domenica in chiesa con gli altri cristiani. Il problema è che per un certo periodo venivano concessi aiuti solo a chi era musulmano, e allora tanti dicevano d'essere musulmani per poterli ricevere. Evidentemente non c'era fede, si trattava di una costrizione; alcuni poi non sapevano né parlare né capire l'arabo. Ho chiesto ad alcune di queste persone ed esse mi hanno assicurato che non si erano convertiti per nulla e che erano solo chiacchiere della gente. Tuttavia è molto difficile conoscere esattamente la verità, perché parecchie di queste persone non possono dirsi cristiani praticanti. La fede non si può misurare.

Il pericolo è un altro. Abbiamo sentito dire che molti degli ufficiali del governo, diventati musulmani, sono stati istruiti a mantenere il nome di battesimo cristiano, perché sembri che nel governo ci sono anche dei cristiani".

Riorganizzare la Conferenza episcopale

– Come organizza i suoi lavori la Conferenza episcopale tra Nord e Sud, quali sono le linee comuni?

"È difficile riunirsi insieme. È dal 1995 che stiamo pensando a una conferenza episcopale per il Sud, che si dovrebbe chiamare Conferenza episcopale regionale sudanese, con sede a Nairobi e con un segretario generale che coordini il lavoro dei diversi vescovi e che funzioni da punto di riferimento, dando loro un supporto logistico. Fino a oggi uno dei vescovi del Sud faceva da segretario, ma era un onere troppo pesante che si aggiungeva a quello del normale lavoro pastorale. Senza questa struttura era difficile mettersi in contatto con i vescovi, che spesso si spostano per seguire i campi degli sfollati".

– Per quanto riguarda invece i rapporti ecumenici, che contatti avete con le altre denominazioni cristiane; quali funzioni ha il New Sudan Council of Churches (NSCC)?

"Non so molto del NSCC perché è dall'altra parte. Da quello che ho sentito dire dai vescovi del Sud, la collaborazione tra le chiese attraverso il NSCC va bene. In generale, per quanto riguarda i rapporti ecumenici posso dire che tra i cristiani nel Sudan vi sono sempre stati buoni rapporti ed è diffusa l'idea che l'essere cristiani prevalga sulle divisioni. Per il cristiano medio nella vita quotidiana non è presente un sentimento di distinzione. La differenza è percepita solo nel modo di pregare e nei sacramenti. A volte, poi, abbiamo ospitato nelle nostre parrocchie, la domenica o in occasione di altre festività, i protestanti che venivano lì a pregare perché non avevano altri luoghi di culto. Le divisioni sono invece tra i loro leader ed essi le trasmettono all'interno delle proprie chiese. Rimangono divisioni tra le chiese protestanti e cattoliche. Penso che ultimamente vi sia stata un'interferenza del governo in queste chiese, anche perché non avendo una leadership forte che possa opporsi, si sono divise al loro interno tra pastori e fedeli allineati col governo e quelli schierati dalla parte della guerriglia".

– Quali sono le principali necessità pastorali della chiesa sudanese oggi?

"Vi è un problema che data ormai da trent'anni, da quando, cioè, i missionari stranieri furono espulsi dal Sud. Dopo la loro partenza vi è stato un vuoto nell'evangelizzazione; in modo particolare, molti dopo il battesimo non hanno più ricevuto un'evangelizzazione e pertanto non riescono a concepire un cattolicesimo che vive sui sacramenti. Questo influenza molto il modo di concepire la fede. In pratica per molti il cristianesimo è una cosa "nuova", perché la maggior parte dei rifugiati del Sud che sono a Khartoum provengono proprio dalle zone del Sudan dove l'evangelizzazione della chiesa cattolica è rimasta ai tempi dei missionari. Per molti di questi la chiesa cattolica è una tra le chiese, senza che i sacramenti abbiano un valore particolare.

Ne abbiamo anche parlato al sinodo diocesano di Khartoum: manca l'evangelizzazione di base e una formazione cristiana permanente. Una soluzione sono le piccole comunità cristiane, ma se manca per lungo tempo il sacerdote, anch'esse non bastano. Inoltre vi è un problema territoriale: alcune parrocchie sono vaste tanto quanto due o tre province. Per ora stiamo curando la formazione dei catechisti. A Khartoum scegliamo i catechisti tra le persone che hanno terminato le scuole secondarie, perché così sono in grado di curare da soli la propria formazione permanente e riescono a servire meglio le comunità".

Al papa abbiamo chiesto di poter vivere

– Avete concluso da poco la visita ad limina (15-20.9.1997). Che cosa avete detto al papa?

"Abbiamo offerto un panorama della chiesa e della sua vita così com'è. Abbiamo fatto un appello sulla necessità che anche la comunità internazionale prenda iniziative per porre fine alla guerra. Il Sudan adesso ha bisogno di aiuto per arrivare alla pace, perché siamo allo stremo. Ultimamente il governo ha cominciato a pronunciare la parola "pace"; forse non sa come arrivare alla pace, che tipo di pace sta cercando. Occorre che qualcuno si renda disponibile a cercare delle soluzioni per questo problema.

Abbiamo parlato al papa della miseria della gente: abbiamo bisogni di aiuti perché la situazione è grave dal punto di vista materiale, manca il cibo; molti di quelli che sono sfollati a Khartoum non hanno lavoro e non sanno che cosa fare. Qualcuno dice che devono essere autosufficienti, ma come si può essere autosufficienti con in mano solo sabbia?!

Manca qualsiasi infrastruttura sanitaria perché sono state distrutte. Per questo abbiamo anche detto chiaramente che in questi casi, quando è un vescovo che dice che c'è bisogno di cibo, di medicine, occorre che a Roma gli diano attenzione e non credano alle versioni del governo che dice che tutto va bene, che tutto è nella norma. Non è normale che la gente muoia di fame, o sia malnutrita: a Khartoum dobbiamo nutrire ed educare 49.000 bambini, ma non ne abbiamo i mezzi. Di vecchi ormai non ce ne sono più: sono morti per la guerra o per la fame o per le malattia. Quando ci si ammala si muore. Non c'è niente con cui curarsi".

Dico alla gente: "dovete ringraziare il Signore di essere vivi adesso, è un'azione provvidenziale continua di Dio". Una donna che non ha lavoro e nessun modo di procurarsi del denaro e riesce a dare da mangiare ai molti bambini che le stanno intorno, costituisce un miracolo continuo di Dio. È un miracolo che questa gente oggi sia viva!


articolo tratto da Il Regno logo

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