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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

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Ugo Bisteghi

Restituire Costantinopoli?

"Il Regno" n. 2 del 2003

Bisognerebbe che restituissero Costantinopoli, mi disse un caro amico, il più autorevole e prestigioso persianologo italiano e uno dei maggiori d’Europa, alla mia domanda sull’opportunità dell’ammissione della Turchia nell’Unione Europea. A quella risposta io, completando il paradosso, aggiunsi: «... o almeno Bisanzio». Il richiamo a Costantinopoli e a Bisanzio è cosa un po’ diversa da una questione accademica di cui discutere fra storici o sedicenti tali, quando si affronta il problema delle radici cristiane dell’Europa e dell’allargamento alla Russia e alla Turchia.

Fortunatamente sembra che, almeno al presidente della Commissione europea, non sfugga l’importanza della cosa, vista la sua contrarietà all’ingresso della Russia e il suo prudente atteggiamento sulle trattative per l’allargamento alla Turchia; in questo un po’ lontano dagli sbrigativi auspici del presidente del Consiglio. In realtà la vittoria del partito islamico in Turchia, netta per il numero dei seggi conquistati grazie al sistema elettorale ma non per il numero dei voti, non molto superiore al 30%, pone un gran numero di questioni circa il ruolo della Turchia, il suo rapporto con la storia islamica recente e passata e il suo legame con l’Europa.

È affidabile l’islam moderato?
In breve il problema si può porre in questo modo. La modernizzazione autoritaria della Turchia avviene nel segno della costruzione, da parte di Kemal Pascià Ataturk, di uno stato laico e nazionale secondo il modello affermatosi in Europa alla fine dell’Ottocento, i cui ultimi esempi furono l’unità italiana e tedesca. La genesi del movimento di rinascita islamica è anch’essa ottocentesca e, ispirandosi ai valori fondamentali dell’islam, li vuole calati nelle istituzioni dello stato nazionale. Questi due modelli tuttavia falliscono nel conseguire, insieme all’indipendenza e alla libertà politica, la prosperità dei popoli. Come conseguenza di tale fallimento prevalgono, in molti paesi, soluzioni autoritarie di stampo socialista e statalista, che sfociano in dittature sostenute dall’esercito e paralizzate dalla burocrazia; l’esito finale è difficilmente sopportabile anche da popoli abituati al dominio coloniale europeo.

Su queste rovine i movimenti islamisti radicali vogliono imporre un ritorno alla società islamica delle origini, ispirata alle disposizioni della sharia, e del tutto estranea al modello della democrazia occidentale, vista come generatrice di tutti i mali passati e presenti del «Dar al-Islam».1

Di questo processo la Turchia è una protagonista importante e originale, l’unico paese nel quale la modernizzazione kemalista raggiunge un sostanziale successo nella creazione di uno stato nazionale laico e indipendente. Ciò avviene però pagando un alto prezzo al passato ottomano, che viene sacrificato alla modernizzazione. Questa consiste di fatto nell’adozione del modello europeo nelle istituzioni politiche e nell’ordinamento giudiziario, e giunge fino all’abbandono della scrittura araba e all’adozione di quella latina.

Non è questo il luogo per affrontare i problemi derivanti da questa vera e propria rivoluzione imposta con la forza da Kemal, talmente profonda e radicale da suscitare interessanti paragoni con la rivoluzione Meiji in Giappone. La riforma ha comportato un richiamo al passato turco centroasiatico, che viene posto come base originaria della storia di tutti i turchi, per i quali perciò l’islamizzazione deve essere considerata un periodo della storia nazionale cui può e deve seguire un altro periodo, quello dell’europeizzazione, se si vogliono salvare la continuità storica e la ragione di sopravvivenza del popolo turco, giunto, con la fine dell’impero ottomano, al termine della propria vicenda come popolo indipendente.

L’operazione ha avuto successo nella costruzione dello stato turco in Anatolia, ma ha lasciato dietro di sé due problemi enormi irrisolti: il primo è il mancato decollo militare ed economico (di cui il Giappone è l’esempio più straordinario), che vanifica così in gran parte l’acquisizione reale dei diritti civili, i quali sono il presupposto e il compimento dello stato moderno; il secondo è la questione curda, perché a un terzo degli abitanti dell’Anatolia di lingua ed etnia iranica non è in alcun modo applicabile il modello storico che faceva dei turchi ottomani i padroni dell’impero e poi i titolari della sovranità del nuovo stato. I curdi, infatti, come gli altri popoli dell’impero, sono stati gli oggetti di quella storia, la storia dei millet, cioè delle autonomie subordinate alla Porta.

I militari garanti

La Repubblica turca è vissuta sotto la tutela dell’esercito, erede e garante della dottrina kemalista, il quale è intervenuto più volte per impedire alle forze politiche di discostarsi da essa e di imboccare una deriva incontrollabile verso il modello islamico, considerato un pericoloso ritorno a un passato inaccettabile di decadenza e sudditanza.

Ne deriva che è del tutto improprio attribuire all’esercito un ruolo di tipo fascista contro la società e le istituzioni, assimilandolo a una tipologia golpista. L’esercito è il garante della modernizzazione e può e deve accompagnare la società turca verso un compiuto modello di democrazia occidentale, e stornare il pericolo di una deriva islamista.

Questo è ora il pericolo rappresentato dal partito che ha vinto le elezioni. Ma le ha appunto vinte, le elezioni.

Il ritorno al passato, la caduta nella dittatura islamista, l’abbandono del modello occidentale possono avvenire per via democratica. È già avvenuto in Algeria, le cui vicende sono un esempio terrorizzante per i turchi che credono nella definitiva affermazione dello stato democratico. Però le regole europee, in base alle quali i paesi che fanno richiesta d’ingresso nell’Unione sono esaminati e accettati o respinti, richiedono che il libero gioco democratico dei partiti non venga né turbato né condizionato né tanto meno deviato o impedito dal tintinnare delle sciabole.

L’esempio portoghese, nel quale l’esercito ha posto fine alla dittatura e permesso il passaggio alla democrazia, è lontano. In Grecia e in Spagna il modello dell’esercito nemico della democrazia e infine sconfitto dalla propria imbecillità e dal buon senso del re è stato confermato dai fatti. Che fare con il modello turco, nel quale il senso e l’ordine delle cose si dispongono in altro modo?

Il Partito islamico si è affrettato a giurare fedeltà allo stato laico, e se ciò ne testimonia il realismo non ne garantisce la lealtà e la credibilità. Se le opposizioni vive dentro la storia e la società turche si manifesteranno in modo violento, come è non solo possibile ma anche probabile, che farà l’Europa? Difenderà il diritto formale, sancito dalle urne, di distruggere la repubblica laica, la sola compatibile con l’Europa, o accetterà che l’esercito ristabilisca sanguinosamente l’ordine repubblicano? Certo non potrà ripetere il comportamento tenuto nel caso algerino e fare finta di nulla.

Restituire Costantinopoli, si diceva. Non ovviamente nel senso concreto. La Turchia non può neppure permettersi di restituire i curdi a un Kurdistan che non esiste tuttora e forse non esisterà mai, pena la dissoluzione dello stato kemalista. Forse può permettersi la concessione di un’autonomia che l’Europa le imporrà, e che non basterà probabilmente a risolvere la questione, la quale dipende anche dal destino e dalla volontà dei curdi iraniani, iracheni e siriani. Ma può e deve permettersi un profondo esame della propria storia, che consideri l’effetto enorme che la conquista di Costantinopoli ha avuto sulla vicenda del mondo moderno europeo: la fine della continuità bizantina della cultura greca classica, il trasferimento al mondo slavo della tradizione della Chiesa ortodossa e la separazione dei Balcani dalla storia moderna dell’Europa.

Considerare quanto ha tolto all’Europa, per la classe dirigente turca, è il solo mezzo per comprendere fino in fondo quanto le manca per essere legittimata a farne parte.


articolo tratto da Il Regno logo


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