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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

Maria Elisabetta Gandolfi

Grandi laghi: la guerra come economia

"Il Regno" n. 16 del 2002

Le tappe recenti di uno tra i più complessi conflitti africani


Gli oltre due milioni di sfollati e gli altrettanti morti sia in guerra sia per stenti e malattie nella Repubblica democratica del Congo (ex Zaire) sono il triste emblema di una delle più sanguinose e intricate guerre della terra africana, la cui evoluzione sembra di difficile previsione. Radicata nello sgretolamento del regime di Mobutu, essa inizia nell’agosto 1998, quando una città simbolo (Kindu) del neopotere guidato da Laurent D. Kabila, cade nelle mani degli ex alleati con cui lo stesso Kabila aveva "liberato" il paese: il Ruanda e un cartello di gruppi armati, il principale dei quali è il Rassemblement congolais pour la démocratie.

Da allora il conflitto, che coinvolge oltre sei nazioni africane (Namibia, Angola e Zimbabwe a fianco della Repubblica democratica del Congo; Ruanda, Uganda e in parte il Burundi a fianco della cosiddetta "ribellione") e un numero imprecisato di bande armate dalle alleanze fluttuanti, ha conosciuto alcuni tentativi di risoluzione nel 1999 con gli accordi di Lusaka, tra il febbraio e l’aprile di quest’anno con il dialogo intercongolese tenutosi a Sun City in Sudafrica (25.2- 19.4) e con altri incontri e accordi i quali però non hanno a oggi inciso significativamente sul suo protrarsi e soprattutto sulla sua evoluzione.1

La guerra "degli altri"

Il conflitto congolese viene correntemente e prevalentemente interpretato come una guerra per il controllo della regione da parte di due blocchi di nazioni, dove l’ex Zaire gioca il ruolo del paese "aggredito" da nazioni "straniere", le quali ufficialmente dichiarano di essere costrette a mantenere le posizioni in territorio congolese a motivo dell’"insicurezza" che le incursioni di gruppi armati anti tutsi, tra cui gli interahamwe, creano nelle proprie nazioni d’origine (Ruanda e Uganda).

Ma i termini "straniero", così come "aggressione" o "sicurezza", sono categorie interpretative insufficienti e ambigue, benché ricorrenti e diffuse sia tra chi descrive la situazione dell’ex Zaire sia tra la popolazione locale. Se il conflitto, infatti, fosse realmente tutto e solo di tipo internazionale non si spiegherebbe il ricorrente e ostinato fallimento degli accordi che le parti sottoscrivono.

In effetti è più preciso definire la guerra in Congo come "un microcosmo di crisi nazionali e internazionali",2 che s’intersecano e si sovrappongono, dove gioca un ruolo non secondario il controllo dell’informazione sia attraverso i canali classici dei mezzi di comunicazione sia attraverso la comunicazione informale che circola nei mercati, nelle strade e anche, e soprattutto, nelle chiese.

Infatti, per i congolesi della capitale, Kinshasa, "i combattenti sono diventati… estranei alle persone che pretendevano di liberare" e questa interpretazione è fortemente incoraggiata dal governo: "rifiutando la tesi delle ribellioni interne, negando ogni legittimità all’azione dei loro capi e facendo una vera e propria campagna sul tema dell’aggressione straniera, il potere di Kinshasa conforta la popolazione nella sua rappresentazione della guerra. Per il governo, le ribellioni interne rimangono una creazione artificiale degli aggressori", facendo finta di dimenticare la sua stessa origine, avvenuta tra il 1996 e il 1997 con un trionfale ingresso nel paese - Kabila fu infatti salutato come un "liberatore" (assassinato nel gennaio 2001 è stato sostituito dal figlio, Kabila jr) - grazie al sostegno degli stessi Ruanda e Burundi.3

Il termine "straniero" compare anche nei testi della Chiesa cattolica. Ci riferiamo in particolare alla dichiarazione finale dell’assemblea plenaria dell’episcopato (2-7.7.2002), Quale avvenire per il paese?, dove ai nn. 13 e 14 si legge: "il sentimento d’unità, d’appartenenza a una stessa nazione, è sempre rimasto reale e vivace nell’insieme della popolazione del Congo, pur nei limiti di sempre. Il popolo sente e rifiuta la minaccia della balcanizzazione, dell’occupazione illegale del paese e dello sfruttamento delle proprie ricchezze da parte di stranieri […] noi teniamo a riaffermare con determinazione che l’integrità territoriale e la sovranità nazionale della RDC non sono negoziabili".

Ancora più esplicitamente la lettera all’ambasciatore degli Stati Uniti in visita a Bukavu il 3 settembre scorso, l’arcidiocesi della città, nella persona del vicario generale, mons. F.X. Maroy afferma: "Noi ricordiamo qui l’equivoco che è prevalso nell’accordo di Lusaka: il mondo si era comportato come se il Congo subisse allora uno sgretolamento politico dovuto a un deficit di democrazia, cosa che, secondo questa ipotesi, avrebbe provocato il disaccordo di una parte che si sarebbe trasformata in ribellione. Con il tempo ci si è resi conto che si trattava piuttosto di una questione d’aggressione e di ruberia. Logicamente gli accordi di Pretoria e di Luanda, fondati sul fatto notorio dell’aggressione e della ruberia sostituiscono legittimamente quello di Lusaka fondato sull’ipotesi della ribellione". Sorprende che queste parole provengono da una delle principali città dell’Est del paese, che vive la guerra nel quotidiano e che è la diocesi del compianto mons. Kataliko, il vescovo che sicuramente aveva proposto una visione interpretativa che teneva maggiormente conto della complessità dei fattori (cf. riquadro qui a p.000).

Le stesse popolazioni dell’Est, delle città di Kisangani e Bukavu, si vivono come un "noi" aggredito da un gruppo di "stranieri", dalla lingua e dalla cultura diverse: "Gli abitanti del Kivu, […] rifiutano sempre più, o sono incapaci d’ammettere, che esistono dei congolesi ruandofoni […] il mulino delle dicerie non conosce differenze e li chiama tutti "ruandesi"(senza distinguere i ruandesi dai congolesi ruandofoni …) e li considerano tutti come i beneficiari delle ricchezze del Congo".4 A riprova sta il fatto che l’efferatezza delle violenze che caratterizzano gli attacchi contro la popolazione civile viene interpretata come il frutto di culture e mentalità straniere, e perciò estranee alla popolazione congolese. Così è stato interpretato il massacro avvenuto a Kisangani - per altro avvenuto sotto gli occhi della Mission de l’Organisation des Nations Unies en République démocratique du Congo (MONUC) - nella notte tra il 14 e il 15 maggio scorso, dove, a seguito, dell’ammutinamento di un gruppo di militari del RCD-Goma e di una successiva rappresaglia del gruppo d’origine, sono state uccise più di 150 persone. È già dimenticata invece l’efferatezza della "caccia al ruandese" scatenatasi tra gli abitanti di Kinshasa all’indomani della rottura della coalizione di Kabila padre, nell’estate del 1998.

Le divisioni del coltan

La seconda e importante chiave interpretativa della guerra nei Grandi laghi è il fattore economico. "Nella Repubblica democratica del Congo, l’attività economica non è mai stata immune dalla violenza. In effetti, durante la colonizzazione, l’industria estrattiva era nota per questo. Tuttavia lo scoppio della "seconda" guerra nel 1998 […] ha radicalmente rinnovato e accelerato l’invischiamento dell’attività economica con la violenza dell’industria estrattiva (cioè una "violenza economica") nella RDC in generale e nel Kivu in particolare […] Vi è nell’est della RDC, controllata dai ribelli, un’"economia di guerra", nella quale la violenza e il profitto si trovano legati oggi come non mai in una prossimità incestuosa". E a motivo del fatto che la maggioranza dei beneficiari di questo sistema economico sono gli "stranieri" (i "ruandesi), essa è oggi definita "criminale" e per questo stigmatizzata anche attraverso una forte campagna anti-ruandese e anti-tutsi. Il commercio e lo sfruttamento delle risorse naturali è un "ulteriore elemento di divisione nei dibattiti già polarizzati sull’indigenità e sullo statuto di ciò che è "autoctono" e nazionale in Congo".

Tre sono i principali vettori sui quali l’economia di guerra si basa. Il primo è quello del controllo del traffico della droga e delle armi che passa dai Grandi laghi al Sudafrica,5 che spiegherebbe ad esempio l’improvviso e virulento accendersi dei conflitti tra popolazioni hema e lendu (quest’ultima sostenuta dall’Uganda) nel nord del Kivu che nel solo mese di gennaio 2002 ha provocato 120 vittime.

Il secondo è quello del business creatosi con il sistema delle "guardie del corpo" e delle milizie a protezione dei diversi gruppi etnici: esso da un lato a fornito l’etichetta "etnico" a scontri locali; dall’altro ha sparigliato questo tipo d’interpretazione in quanto le stesse solidarietà etniche sono esplose a fronte delle possibili e diversificate forme di guadagno offerte anche da gruppi un tempo avversari. Si sono così formate alleanze che alcuni interpreti hanno definitivo "contro natura", comprensibili alla luce del principio di razionalità economica.

Il terzo - quello maggiormente significativo - è quello dell’estrazione del coltan. Si tratta di un minerale che contiene tantalio e niobio (il vecchio nome della tantalite, di qui il suo nome composto), utilizzato nelle telecomunicazioni e che serve per ottimizzare il consumo della corrente elettrica nei chip di ultima generazione e nelle batterie dei telefonini. L’80% del coltan si trova i Africa e quasi tutto concentrato in Congo. Il suo sistematico sfruttamento privo di un controllo centralizzato o quanto meno riconosciuto (unito a quello di altre risorse naturali del paese) ha fatto sì che l’ONU istituisse un gruppo d’indagine che ha pubblicato nell’aprile 2001 il suo rapporto.6 Poiché un kilo di coltan vale circa 25 dollari, il 90% dei giovani uomini della regione si sono buttati in questa attività, lasciando le tradizionali attività di agricoltura e di allevamento, o sono coinvolti nell’indotto militare che ruota attorno al prezioso minerale. Nell’anello superiore della catena, quello del commercio sia al dettaglio sia all’ingrosso vi sono innanzitutto i ruandesi, ma anche egiziani, statunitensi, tedeschi e anche lavoratori dell’est Europa. Paradossalmente per queste persone ha provocato più ripercussioni la caduta del Nasdaq che uno dei tanti accordi per il cessate il fuoco.

"Ecco in che cosa consiste il circolo vizioso della guerra - afferma il rapporto finale dell’ONU. Il coltan ha permesso all’esercito ruandese di mantenere la sua presenza nella Repubblica democratica del Congo. L’esercito ha fornito protezione e sicurezza ai singoli e alle compagnie che estraevano il minerale. Questi hanno accumulato ricchezze che hanno diviso con l’esercito, cosa che per un effetto di concatenazione continua a creare un ambiente favorevole per proseguire lo sfruttamento".7

In questo tipo di contesto dove "tutti quelli che combattono ci guadagnano", Kagame ha avuto la spudoratezza di affermare che quella del Congo è una "guerra che si autofinanzia". Ma per la popolazione del Kivu che non è toccata dai benefici di questo perverso sistema, rimane un unico dato di fatto: "sotto il pretesto di combattere i propri oppositori, tutte le parti in conflitto uccidono, rubano e usano l’estorsione su ampia scala, sottomettendo la popolazione al terrore e alla miseria" (Amnesty International).

Il disordine come regola

La "strumentalizzazione politica del disordine", lo "sfruttamento economico del disordine apparente (che di fatto è una produzione razionalizzata) causato dalla guerra", il rafforzamento delle fratture etniche che si traduce in uno scontro tra ciò che è "autoctono" e ciò che è "straniero" sono gli elementi di base del quadro regionale nei Grandi laghi. Così qualsiasi "riferimento ideologico comune",8 come, come ad esempio "un nuovo tentativo di costruzione di uno stato", che detenga non solo il monopolio della forza, ma anche il controllo dell’economia è per ora destinato a fallire. Lo dimostra la causa scatenante di questa "seconda" guerra: il tentativo di Kabila jr di "controllare direttamente la produzione mineraria".

Così si può anche meglio comprendere come i tentativi di riconciliazione e di dialogo attuati qua e là dall’episcopato e dal laicato cattolico siano osteggiati e impediti anche perché si teme che il consenso attorno alle sue proposte possa "scardinare" un sistema che si regge per definizione sulla frammentazione e sulla paura. Gli avvenimenti del 2002 lo confermano: in febbraio e poi in giugno il vescovo di Kalemie, mons. D. Kimpinde, è stato accusato di attività sovversiva perché in una lettera pastorale avrebbe manifestato la propria vicinanza alle sofferenze dei propri fedeli e poi minacciato di morte; a Goma un sacerdote e una bambina sono morti colpiti da una granata lanciata contro la processione delle Palme, mentre il vescovo locale, mons. F. Ngabu, è rimasto lievemente ferito; a maggio a seguito del terribile massacro di Kisangani, molti sacerdoti sono stati interrogati e malmenati.

Infine, ciò vale ancor più per l’ONU: a partire dagli accordi di Lusaka, il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha istituito la MONUC, con il compito di osservatore militare. Per quanto limitato e senza mezzi effettivi d’intervento, il mandato può rivelarsi pericoloso sia per la possibilità di far conoscere fatti e situazioni all’opinione pubblica internazionale sia per la possibilità d’indirizzare alcune risoluzione del Consiglio di sicurezza, ovvero d’attrarre i favori militari ed economici delle nazioni occidentali. Così i primi di giugno Il Rassemblement pour la démocratie ha espulso da Goma due funzionari della MONUC e ha dichiarato persona non grata l’inviato speciale del segretario Kofi Annan, A. Nongi, così come la responsabile per i diritti umani, M. Hattenbreck.

Così una soluzione durevole di questo conflitto deve oggi riuscire a sostituire alla guerra intesa come "sistema alternativo di profitto, di potere e di protezione" un sistema statuale e politico che possa garantire profitto, potere e protezione su scala regionale, ovvero internazionale, a partire dal rispetto dei diritti umani e dei diritti civili e politici di tutte le popolazioni coinvolte.

Mentre scriviamo Kagame, spinto dalla promessa che Inghilterra e Stati Uniti garantirebbero un "aiuto politico, militare e umanitario", ha dichiarato alle Nazioni Unite che è iniziato il ritiro delle proprie truppe in base all’accordo firmato il 30 luglio a Pretoria (Sudafrica) con la RDC. Già Uganda e Zimbabwe in base a un analogo accordo firmato in agosto stanno ultimando il ritiro delle proprie. L’ONU dovrebbe mantenere una zona cuscinetto nell’est dello Zaire. Contemporaneamente vi sono notizie che le stesse truppe ruandesi impedirebbero il ritorno dei rifugiati e che su un contingente complessivo di 25.000 uomini sarebbero poco meno di 500 quelli effettivamente ritirati.

1 Il n. 84, 2002 (dicembre 2001) di Politique africaine è interamente dedicato a "RDC, la guerra vue d’en bas". Segnalo in particolare per il loro interesse gli articoli di F. van Acker, K. Vlassenroot, "Les "mai-mai" et les fonctions de la violence milicienne dans l’est du Congo" (103ss) e di S. Jackson, ""Nos richesses sont pillées!". Economies de guerre et rumeurs de crime au Kivu" (117ss), benché tutto il numero offra interessanti spunti interpretativi e dati di ricerca sul campo.

2 F. Hara, "Hollow peace hopes in shattered Congo" in The Observer online, 7.7.2002.

3 Le citazioni sono tratte dall’articolo di A. Maindo Monga Ngonga, "Survivre à la guerre des autres. Un defi populaire en RDC", in Politique africaine, 33ss. È da addebitare a un uso strumentale del nazionalismo la richiesta che il governo di Kabila jr ha presentato alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja il 28 maggio d’intervenire contro il Ruanda per la "massiccia violazione" dei diritti umani e aggressione armata, nonché per il "genocidio di 3,5 milioni di congolesi". La Corte il 10 luglio ha dichiarato di non avere competenza quanto alle misure "conservative" richieste dalla RDC per la salvaguardia del territorio e della popolazione (embargo sulle armi dirette in Ruanda e di tutte le materie prime "provenienti dal saccheggio sistematico delle ricchezze della RDC"). La Corte, che ha anche rifiutato la domanda del Ruanda d’archiviare la questione, nei prossimi mesi esaminerà le altre parti della richiesta congolese.

4 Jackson, ""Nos richesses sont pillées!". Economies de guerre et rumeurs de crime au Kivu", 132. Cf. anche la polemica di antica data sulla cittadinanza da concedere o meno ai cosiddetti banyarwanda, zairesi di origine tutsi, accesa ai tempi di Mobutu (Regno-att. 14,1996,427).

5 International Commission of Inquiry, Final Report of the International Commission of Inquiry about Illicit Arms Transfers in the Great Lakes, S/1998/1096, 18.11.1998.

6 UN Panel of Inquiry, Final Report of the Panel of Inquiry on the Illegal Exploitation of Natural Resources and Other Forms of Wealth of the Democratic Republic of Congo, UN Security Council Document, S/2001/357, 12.4.2001.

7 Queste e le citazioni successive sono tratte da Jackson, ""Nos richesses sont pillées!". Economies de guerre et rumeurs de crime au Kivu", 129ss.

8 Queste e le citazioni successive sono tratte da Van Acker, Vlassenroot, "Les "mai-mai" et les fonctions de la violence milicienne", 115-116.


articolo tratto da Il Regno logo

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