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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

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L. Pr.

I cristiani e la Costituzione

"Il Regno" n. 20 del 2005

I 23 vescovi della Chiesa cattolico-caldea si sono radunati a Roma in sinodo dall’8 al 12 novembre. Responsabili della grande maggioranza dei cattolici presenti in Iraq (le cifre vanno da 350.000 a 600.000 fedeli) sono guidati dal patriarca Emmanuel III Delly (cf. Regno-att. 22,2003,744). Il loro compito, come ha ricordato Benedetto XVI nell’incontro di sabato 12 novembre, è stato quello di approvare la riforma liturgica della preghiera eucaristica in uso (anafora di Addai e Mari; in preparazione la revisione di quelle di Nestorio e Teodoro) e analizzare la bozza del diritto particolare.

In una pausa dei lavori ho incontrato mons. Louis Sako, vescovo di Kerkuk, per scambiare qualche considerazione sul futuro dell’Iraq. La nuova Costituzione, approvata il 25 ottobre col 75% dei voti espressi, è certamente «un passo avanti», ma può essere soggetto a ulteriori modifiche e miglioramenti. Fra questi il vescovo ne segnala tre: il ruolo della sharia o legge islamica, il riferimento ai cristiani e alcuni aspetti della libertà di religione. «In uno dei primi articoli si nega la possibilità di fare leggi contrarie alla sharia. Gli interrogativi diventano tanti, per esempio sullo statuto della donna. Le altre religioni prevedono pratiche più liberali di quelle islamiche. Come armonizzarle? Sempre nel testo si dice anche di non legiferare contro la democrazia, ma sharia e democrazia non sempre vanno d’accordo. C’è un problema per l’islam: la sua estraneità alla società moderna e alle sue istituzioni».

Di passaggio, senza ricordare
Il riferimento ai cristiani è fatto «solo di passaggio, senza ricordare la sua radice preislamica nel paese». Inoltre si ricordano due gruppi etnico-cristiani: i caldei e gli assiri. Si tace degli altri gruppi e si polverizza la presenza cristiana usando le categorie etnico-culturali. «Vorremmo una segnalazione unica per i cristiani e più consistente». Il problema è complesso. «L’attuale Costituzione si regge su due elementi: la nazionalità e l’appartenenza religiosa. Sciiti e sunniti sono rappresentati non come arabi, ma come tali. Vorremmo anche noi essere indicati come cristiani piuttosto che nella tradizione etnico-culturale: avremmo una forza maggiore. L’importanza dell’appartenenza religiosa è basilare per noi, quasi naturale. Come per tutto il Medio Oriente. Ma non si può fare uno "stato religioso" e teocratico; va riconosciuta la cittadinanza comune. Vi è una domanda non sempre chiara di società civile, ma di un tipo che non sia quello laicista all’europea: una società unita e attiva attorno a un gruppo di valori – dai diritti umani alle regole democratiche, dalla libertà religiosa alla libertà di espressione, alla centralità sociale della famiglia ecc. –, che abbia un consenso trasversale a tutte le appartenenze religiose. La centralità dell’individualismo occidentale deve lasciare il passo al comunitarismo. Per noi il vivere insieme è un valore prioritario: dalla famiglia al clan, dall’esperienza patriarcale a quella tribale».

Il terzo problema riguarda alcuni aspetti della libertà religiosa come «l’impossibilità di convertirsi dall’islam alla fede cristiana». «Se l’islam riconosce al cristianesimo il valore di religione del Libro, pur comprendendo se stesso come compimento pieno della vera fede, non può negare i diritti inerenti alla fede. Se un musulmano ha diritto a sposare una non musulmana perché un cristiano non può sposare una non cristiana? Ci sarebbe un certo numero di musulmani che chiedono di diventare cristiani, ma siamo molto prudenti perché corrono rischi seri, anche per la
loro vita».

Fra le questioni pastorali più urgenti vi è il proselitismo delle Chiese evangelicali e il tema dell’emigrazione cristiana. «Molti gruppi evangelici sono entrati durante l’embargo per portare aiuti materiali (alimenti, medicinali), ma anche migliaia di libri (ne abbiamo una grande quantità anche nelle nostre chiese) e iniziative di riunione. Chiamavano in città i giovani, ospitandoli per alcuni giorni in alberghi di lusso. Hanno inviato alcuni di essi a studiare teologia ad Amman, al Cairo e altrove. Un’attività all’insegna del "siamo tutti cristiani", nascondendo o senza specificare la diversa appartenenza confessionale. I pastori locali hanno ricevuto molto appoggio dai cappellani militari statunitensi. E parecchi giovani – non così gli adulti – hanno abboccato. C’è il pericolo di gravi divisioni nelle famiglie e di fraintendimenti non tollerabili nell’appartenenza spirituale. Il 17 settembre è stata letta in tutte le chiese una lettera pastorale che pone in chiaro le questioni. È l’occasione opportuna per noi per riprendere lo slancio missionario, prima impossibile». «L’emigrazione dei cristiani è il problema maggiore. È una perdita per l’intero paese. Ce lo dicono i musulmani stessi. Siamo ancora l’unico ponte culturale con l’Occidente e spesso siamo considerati il punto di convergenza. Il cristiano può più facilmente di altri mettere allo stesso tavolo un sunnita, uno sciita, un turkmeno, un curdo e un arabo. Ci considerano "fuori dai giochi". L’emorragia di professori, dottori, commercianti costituisce una ferita. Come conferenza episcopale dovremo prendere la parola per invitare i cristiani in diaspora – ormai quasi la metà dei 750.000 caldei – a rientrare per ricostruire il paese». «Tutto ciò rende urgente una rappresentanza pubblica unitaria dei cristiani. Vi sono uomini nostri dentro le rappresentanze sunnite, sciite e curde. Il presidente della Repubblica, Jalal Talabani, che ci ha visitato in questi giorni in occasione della sua presenza a Roma, ci ha assicurato la presenza di cinque cristiani nel futuro Parlamento, oltre agli eletti nei vari gruppi. Ma potrebbero essere un numero maggiore con una rappresentanza unitaria».

Quanto durerà il terrorismo? «Non so, ma so che finirà. Non solo perché ci sono stati momenti in cui è molto diminuito, per esempio in coincidenza con le tornate elettorali, ma soprattutto perché con un esercito e una polizia ben formati non troverà appoggi. Il male non ha futuro. Un controllo più severo potrebbe scompaginare le sacche ancora attive. Bisognerebbe trovare il modo per interrompere il flusso di denaro a loro favore proveniente da molti stati mediorientali. Il modello iracheno – pluralista, democratico, federale – sta facendo paura a molti».

Che impressione le ha fatto vedere Saddam in un’aula di tribunale? «Quel giorno non sono riuscito a mangiare. L’impressione è stata formidabile. Vedere gli imputati trattati con altissima cortesia e pieno rispetto è stato per noi molto importante. È la prima volta che gli iracheni vedono all’opera una giustizia indipendente, sopra il governo. Prima non sarebbe stato neppure pensabile. E questo vale anche per i problemi connessi alle operazioni durante l’embargo: "Petrolio in cambio di cibo". Sospettavamo delle tangenti e dei molti mezzi morali e immorali con cui il regime si difendeva. La corruzione è peraltro una pratica molto più estesa nel nostro paese. Ma ci fa bene sapere che i ministri coinvolti saranno giudicati». I militari stranieri dovranno restare? Sako è drastico: «Per il momento sì. Altrimenti sarà un guaio. Fra un anno sarà più ragionevole lasciare. Ma gli americani rimarranno, ne sono convinto».


articolo tratto da Il Regno logo


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